Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/07/2013, a pag. 34, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Quelle bande Qaediste che affossano il fronte ribelle anti-Assad ". Dalla STAMPA, a pag. 14, l'articolo di Claudio Gallo dal titolo " Stop di Londra alle armi anti Assad ". Da REPUBBLICA, a pag. 15, l'articolo di Laura Varo dal titolo "Aleppo, al fronte con il velo fino ai piedi ".
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Quelle bande Qaediste che affossano il fronte ribelle anti-Assad "


Lorenzo Cremonesi
Che i gruppi della guerriglia siriana in lotta contro il regime di Bashar Assad siano profondamente divisi tra loro è ormai da tempo ben noto. Il fatto nuovo è però che adesso il loro scontro interno è diventato violento, mortale: una sorta di guerra parallela nella già sanguinosa guerra civile che dal marzo 2011 devasta il Paese. Ad aggravare le tensioni è l'assassinio giovedì scorso di Kamal Hamami, dirigente del cosiddetto Esercito Siriano Libero, l'organizzazione formata in maggioranza da disertori delle forze armate lealiste considerata filo-occidentali nella sempre più articolata nebulosa resistenziale siriana.
A detta dei suoi compagni, Hamami sarebbe stato ucciso e quindi mutilato (sembra anche decapitato) mentre stava recandosi nella regione di Latakia per incontrare alcuni esponenti dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante, il movimento qaedista con una forte presenza di guerriglieri stranieri, che sta sempre più prendendo piede specie nelle regioni della Siria nord-orientale. Sarebbero gli stessi militanti del gruppo ad aver ammesso pubblicamente «l'esecuzione» per un alterco ad un posto di blocco quando Hamami si è rifiutato di riconoscere la loro autorità. Ad ucciderlo con un colpo di mitra alla testa sarebbe stato un militante arrivato di recente dall'Iraq.
L'incidente rivela una volta di più la lotta senza esclusione di colpi che sta crescendo per il controllo delle zone liberate dal regime. Meno di un mese fa lo stesso comandante in capo dell'Esercito Siriano Libero, generale Salim Idriss, accompagnando ad Aleppo alcuni giornalisti americani si è dimostrato stupefatto e spaventato dalla presenza di numerosi posti di blocco sulle strade tenuti non dai suoi uomini, bensì da qaedisti e da militanti del gruppo islamico estremista Fronte Al Nusra. Una situazione che certo indebolisce la rivoluzione e rafforza invece Assad. Dopo le avanzate della primavera, le sue unità speciali stanno combattendo per la riconquista della città di Homs e in preparazione del rilancio della battaglia verso Aleppo.
La STAMPA - Claudio Gallo : "Stop di Londra alle armi anti Assad "


Claudio Gallo
La crisi economica che non accenna a finire, la complessità della situazione sul campo per cui una parte degli alleati di oggi rischia di diventare il nemico di domani: l’occidente non sembra più così convinto che armare i ribelli siriani sia un affare. La scorsa settimana una commissione del Senato americano ha bloccato l’invio di armi all’opposizione antiAssad perché, ha concluso, la fornitura non serve a mutare gli equilibri sul campo, e c’è il rischio che le armi cadano nelle mani degli estremisti islamici. Ieri, dopo aver fatto negli ultimi mesi la voce grossa, il premier britannico Cameron è tornato sulle vecchie posizioni prudenti: «Non abbiamo preso alcuna decisione sulle armi ai ribelli - ha detto - ma è molto importante che continuiamo a lavorare con loro». In ogni caso il premier ha ripetuto le parole del ministro degli Esteri Hague: «Nessuna decisione sarà presa senza consultare il parlamento».
Il «Times» sparava ieri in prima pagina che dietro l’attivismo filo-opposizione del premier ci sarebbero le pressioni della moglie Samantha, impegnata con un ente caritativo ad aiutare i profughi siriani. La soffiata al giornale - ovviamente subito smentita da Downing Street - presumibilmente arriva dallo stesso partito di Cameron, dove molti erano allarmati dalla sua campagna lancia in resta. A raffreddare gli entusiasmi del primo ministro avrebbero contribuito i vertici dell’esercito britannico che condividono lo scetticismo del congresso Usa e dopo i disastri iracheno e afghano non vogliono essere coinvolti nel conflitto. In Europa, su posizioni di aperto appoggio ai ribelli, sembra rimasta solo la Francia.
I ribelli siriani comunque non sono proprio senza armi, ci pensa l’Arabia Saudita a fornirle. Riad a suon di petroldollari si è sbarazzata dell’attivismo del Qatar, affondato con Morsi in Egitto, e ora insieme all’occidente guida le fila dei ribelli. Il nuovo presidente della Coalizione nazionale siriana Ahmad al Jarba, nonostante venga dal gruppo marxisteggiante di Michael Kilo, sarebbe in ottimi rapporti con Bandar bin Sultan, il potente capo dei servizi sauditi che si appresta a diventare il regista dell’opposizione. E soprattutto è un uomo delle tribù sunnite del nord che formano il nerbo siriano degli insorti.
L’eliminazione dell’influenza del Qatar è sembrata per un attimo ricomporre i dissidi interni agli jihadisti e tra jihadisti e laici. Ma l’uccisione del generale ribelle Kamal Hamami da parte di un gruppo iracheno legato ad Al
Qaeda ha riaperto le ferite. Ieri il «Times» rivelava che in Siria sono arrivati contingenti di taleban pachistani per combattere la loro guerra santa.
Non bisogna pensare agli oppositori siriani come a bande improvvisate equipaggiate solo di qualche moschetto: alcuni siti hanno pubblicato foto di ribelli con missili franco-tedeschi Milan. Ci sono notizie, non confermate, sulla presenza di missili russi Osa, arrivati dalla Libia. Molti carri dell’esercito sarebbero stati distrutti dai vecchi missili anticarro sovietici Konkurs, forniti dall’Arabia Saudita.
La REPUBBLICA - Laura Varo : " Aleppo, al fronte con il velo fino ai piedi "

ALEPPO — Rihad si siede con il fucile tra le gambe, la canna puntata sul tetto mentre giocherella con il mirino. «Sto facendo esperienza, siamo state su diversi fronti», dice con voce bassa e tesa dal divano di un rifugio sicuro sul fronte di alSahur, accanto all'autostrada dell'aeroporto di Aleppo. Fuori si sente il rimbombo di un proiettile sparato dalla porta e lei, vestita di nero da capo a piedi, fino agli occhiali da sole, non fa una piega. Ha sparato anche dei razzi, spiega, ma non sa se ha ucciso qualcuno. Immaginache qualche tiro sia andato a segno. Questa donna di una trentina d'anni fa parte dell'unica katiba (brigata) esclusivamente femminile nella "capitale" del Nord della Siria, dove i combattimenti contro l'esercito leale aBashar al Assad vanno avanti dal lugliò dell'anno scorso, quando i ribelli avviarono l'offensiva per prendere la città. Gli aerei del regime sorvolano costantemente Aleppo, dove subito dopo la chiamata del muezzin all'iftar, la cena che rompe il digiuno del Ramadan, la gente trema per i bombardamenti. Gli scontri continuano anche a meno di cento metri di distanza, tra soldati leali ad Assad e insorti. In questi giorni Rihad festeggia il suo primo anno da miliziana, da quando arrivò in città durante lo scorso Ramadan. Un anno passato a lottare faccia a faccia contro militari addestrati, come le oltre 150 donne combattenti che imbracciano le armi ad Aleppo, tutte comandate da Um Fadi. «La chiamiamo Mamma», sottolinea Rihad. La sua fama la precede, almeno nella sala dove i miliziani del fronte che controlla la zona aspettano il suo arrivo. Urn Fadi si siede accanto a due "guardaspalle". «Lottavo con uomini di tutti i gruppi», dice la donna, 43 anni. «Tutti mi conoscono». Nel giugno del 2011, dopo che la protesta pacifica, in seguito agli attacchi dell'esercito siriano contro i cittadini che manifestavano, si era trasformata in una guerra civile che ha già fatto più di 93.000 morti (secondo l'Onu), Um Fadi, casalinga con dieci figli (l'ultimo ha appena un anno), decise di andare a Daraa, il cuore delle rivolte contro il governo di Damasco, insieme a suo fratello. «Non potevo più sopportare», dice la Mamma. «Non è facile vedere questa situazione, la gente che muore, e non fare nulla; se non è il figlio mio, è quello del mio vicino». «Sono andata al fronte senza nessun addestramento», ride, «e ho cominciato trasportando munizioni da una parte all'altra». Urn Fadi ancora non sparava, ma in prima linea accumulò abbastanza grinta da zittire suo fratello, combattente nelle fila di Gorabat as-Sham, quando la interrompe. «L'ho vista con un fucile e se la cavava talmente bene che sono andato a prendere un'arma più grande», scherza il veterano Taha, «non sarei potuto essere più orgoglioso». Quando un anno dopo tornò a casa, ad Aleppo, per prendere parte all'offensiva, si era già fatta un nome e decine di volontarie cominciarono a bussare alla sua porta. «Io le incoraggio soltanto, non le incito: sono loro che vengono dame». La katiba è nata per una necessità logistica. «Avevamo bisogno delle ragazze per registrare le donne», osserva Abu Musa-far, capo del fronte al-Shabab alSuriye, insediato nel quartiere di al-Sahur. Cos) le donne, dalle cucine della retroguardia, dove preparavano il rancio per figli, mariti e fratelli, saltarono ai posti di blocco di cui ancora sono disseminate le strade della zona controllata dai ribelli, «per perquisire gli shabiha (i sicari del regime) che vanno in giro travestiti da donne», secondo Urn Fadi. Moro abbigliamento (hijab e abaya fino alle caviglie) richiama l'attenzione, lontano com'è dalle simil - divise militari di altre combattenti come le miliziane curde delle Ypg, le Unità di pro *** tezione popolare schierate lungo la frontiera con la Turchia sulla strada per Raqqa, nel Nordest del Paese. Anche le donne sono in guerra. «Fanno parte dell'Esercito siriano libero», dice Abu Musafar, «non devono averpaura e restarsene chiuse in casa». Rihad è stata una delle prime ad arruolarsi: era appena arrivata da Horns, dove aveva sostenuto la rivoluzione facendo lavoro umanitario fino a quando non aveva perduto tutta la sua famiglia. «Eravamo cinque maschi e sei femmine, sono tutti morti», racconta. Rimasta sola, decise di imbracciare le armi. «Sono venuta a combattere ad Aleppo eho conosciuto laMamma», racconta. II suo caso non è insolito. Rabia, 27 anni, ha perso suo marito a BabAm r, uno dei punti in cui i combattimenti sono più violenti a Horns, lungo la strada che dalla capitale siriana porta fino Tartus, sulla costa a maggioranza alawita (la setta a cui appartiene anche la famiglia del dittatore Assad). «Combattevamo insieme», dice. Questo prima di trovare suo figlio di due anni mezzo morto nel letto per lo sparo di un cecchino appostato di fronte alla sua finestra. «Quando sono arrivata», continua Rihad, «ho scoperto che tutti i combattenti erano miei fratelli e tutte le ragazze erano mie sorelle. «Ho anche una mamma», dice alludendo a Um Fadi, «mi hanno dato tutto», anche un marito con cui divide la casa e il fronte. Ma il ricordo è doloroso. «Mi manca il mio quartiere, la mia terra, la mia casa e i miei vicini», singhiozza sotto un velo nero che le copre tutta la faccia, «mi manca la mia famiglia, spero di tornare a Horns e pregare nella moschea di Khaled bin el Walid (dal nome di uno dei conquistatori della Siria musulmana e centro delle proteste nella città, bombardata nel 2012)». La sua crociata rivoluzionaria si è tra-sformata in vendetta. «Spero che il regime cada e che la Siria sia libera», rivendica, «tanto grande quanto la sofferenza della Siria è il mio odio contro Bashar».
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