Chi sta affamando davvero Gaza Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello
Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.
Egitto, ancora scontri tra esercito e Fratelli Musulmani. I commenti di Carlo Panella, Paola Peduzzi, Gian Micalessin, Franco Venturini, Bernardo Valli
Testata:Il Foglio - Il Giornale - Corriere della Sera - La Repubblica Autore: Carlo Panella - Paola Peduzzi - Franco Venturini - Gian Micalessin - Bernardo Valli Titolo: «La tattica di al Nour - L’ansia di 'Mamma America' in Egitto - Le sei piaghe che condannano l’Egitto al caos - La tragica normalità di un colpo di stato sempre meno anomalo»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 09/07/2013, in prima pagina, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " La tattica di al Nour ", l'articolo di Paola Peduzzi dal titolo "L’ansia di “Mamma America” in Egitto". Dal GIORNALE, a pag. 15, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Le sei piaghe che condannano l’Egitto al caos ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 7, l'articolo di Franco Venturini dal titolo " La tragica normalità di un colpo di stato sempre meno anomalo ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-7, l'articolo di Bernardo Valli dal titolo " Quella macchia sui militari ". Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Carlo Panella : " La tattica di al Nour"
Carlo Panella
Roma. La strage di ieri nella caserma della Guardia repubblicana segna una svolta decisiva della crisi egiziana e forse non sbaglia Mohammed Badie, guida spirituale della Fratellanza musulmana, nel prevedere che “il generale Abdel Fattah al Sisi trasformerà l’Egitto in una nuova Siria”. Sul piano politico, il massacro è stato provocato dalla scelta speculare di al Sisi e dei Fratelli musulmani di abbandonare la mediazione scegliendo il terreno della contrapposizione militare, nella più classica tradizione jihadista. La strage fa saltare il raccordo di Tamarrod (l’opposizione al presidente deposto, Mohammed Morsi) e di al Sisi col movimento salafita al Nour. Il secondo movimento islamista egiziano (che ottenne un eccellente 24,7 per cento alle parlamentari) ha tentato di proporsi come mediatore per la trattativa con Tamarrod che Morsi ha rifiutato. Al Nour era affiancato dai piccoli partiti islamisti al Wasat e persino da al Jamaa al Islamyia, che era al governo. Younis Makhyoun, leader di al Nour, aveva compreso l’esito irreparabile dell’irrigidimento di Morsi nei confronti di Tamarrod e sette giorni fa lo ha esortato “a fare concessioni alla piazza per evitare un bagno di sangue”. Questa strategia in apparenza era molto strana, dato che al Nour, al Wasat e Jamaa al Islamyia sono su posizioni molto più dogmatiche della Fratellanza, ma è comprensibile sotto il profilo della realpolitik. Il settimanale al Ahram spiega l’inusuale intelligenza tattica dei salafiti egiziani con “l’aspirazione di al Nour di assumere il rango di primo partito islamista d’Egitto, verificata la rivalità feroce, l’acrimonia, che ha diviso i Fratelli musulmani e al Nour negli ultimi mesi, a causa della marginalizzazione di quest’ultima da ogni carica operata dalla Confraternita che ha sempre tentato di favorire scissioni nel partito rivale. Il tutto aggravato dalle divergenze dottrinarie tra la Fratellanza e l’Appello salafita, l’organizzazione religiosa di cui Nour è il partito politico”. La ricerca di consensi nell’elettorato moderato della Fratellanza ha fatto sì che al Nour fiancheggiasse Tamarrod, ma senza partecipare alle manifestazioni, così come ha rifiutato l’ultimatum a Morsi da parte di al Sisi, concentrandosi sulla richiesta di elezioni politiche anticipate e di un referendum che decida se tenere o no presidenziali anticipate. Al Nour ha tentato di costruire una posizione intermedia tra Morsi e i liberali, nell’intento di spaccare i Fratelli musulmani. Questa strategia è stata completata da viaggi in Francia, Germania, Austria, Belgio e Spagna e dalla preparazione di visite in Russia e negli Stati Uniti per presentarsi come unico interlocutore islamista in Egitto. Ora la strage della Guardia nazionale ha fatto comprendere ad al Nour che nessuna mediazione è più possibile con generali che applicano la stessa politica del macello utilizzata a piazza Tahrir per difendere il regime di Mubarak. Nader Bakkar, portavoce di al Nour, ha dichiarato: “Abbiamo deciso di ritirarci immediatamente dai negoziati per la formazione del nuovo governo in risposta ai massacri; ma non resteremo in silenzio, volevamo evitare lo spargimento di sangue, ma ora ne scorre a fiumi”. Così al Sisi indebolisce Tamarrod, ricompone il fronte islamista e impedisce la formazione di un governo rappresentativo. Ma forse punta soltanto a rafforzare se stesso.
Il FOGLIO - Paola Peduzzi : " L’ansia di “Mamma America” in Egitto"
Paola Peduzzi
Milano. I soldati egiziani ieri all’alba hanno aperto il fuoco contro i sostenitori della Fratellanza musulmana del presidente deposto, Mohammed Morsi, che pregavano davanti alla caserma di Nasr City dove si pensa che Morsi sia “custodito” dalla Guardia repubblicana. Ci sono stati almeno 51 morti e quattrocento feriti, e i giornalisti occidentali inviati al Cairo raccontano di cecchini appostati che hanno continuato a sparare anche contro quelli che stavano scappando. Mentre il Web si riempiva delle immagini della strage, con pozze di sangue ovunque e persone ferite alla testa, al collo, alle spalle – colpi sparati per ammazzare – l’esercito ha detto di aver reagito a un attacco “terroristico” durante il quale erano stati presi in ostaggio due soldati, ma le testimonianze dall’ospedale di Nasr City, vicino al luogo della strage, erano più o meno identiche: stavamo pregando, disarmati, e le guardie hanno iniziato a spararci addosso. Nello scontro sarebbero morti anche due poliziotti e, secondo alcuni, uno dei cadaveri è stato trasportato per la strada “ormai senza testa”. Mohammed ElBaradei, che da giorni è dato come possibile premier o vicepremier ad interim – ma la sua candidatura non trova mai un consenso trasversale –, ha scritto un tweet chiedendo un’inchiesta indipendente che chiarisca la vicenda, proprio mentre l’esercito ordinava la chiusura della sede centrale del partito Libertà e giustizia, legato ai Fratelli musulmani, in seguito al ritrovamento di “liquidi infiammabili, coltelli e armi”. “La transizione pacifica è l’unica strada”, ha puntualizzato il grande diplomatico delle cause perse ElBaradei, ma al momento pare difficile che l’esercito possa trovare una via di dialogo con la Fratellanza e con gli altri interlocutori, compresi i salafiti di al Nour che, ora fortissimi, possono permettersi il lusso di “sospendere fino a data da destinarsi” la propria partecipazione alle trattative per la formazione di un governo mentre i Fratelli musulmani chiamano a una grande manifestazione islamica contro la durezza dei militari. La transizione pacifica è resa ancora più difficile dalla mancanza di una strategia da parte della comunità internazionale, da parte di Barack Obama soprattutto, il presidente dell’America che in Egitto è chiamata spesso semplicemente “Mother” (il tasso di sarcasmo dell’espressione è facilmente intuibile). A Washington continua a prevalere la linea “non si tratta di un golpe”, come ha riaffermato domenica l’ambasciatore egiziano negli Stati Uniti, Mohamed Tawfik, e non potrebbe essere diversamente perché a nessuno conviene riconoscere che gli eventi dell’ultima settimana sono il risultato del fallimento della strategia americana in Egitto (come è noto, la “Mother” mantiene il paese con finanziamenti militari annuali pari ora a circa 1,5 miliardi di dollari). Ma gli ultimi articoli firmati da David Kirkpatrick, capo dell’ufficio al Cairo del New York Times e lettura imprescindibile per capire i fatti egiziani, hanno gettato una nuova luce sugli sforzi “inutili” di Washington per evitare che lo scontro tra esercito e Fratellanza – che ha vinto le elezioni con il 52 per cento dei voti: Morsi è il primo leader democraticamente eletto nel paese – toccasse questo picco di violenza. Kirpatrick ha raccolto le dichiarazioni di alcuni esponenti dei Fratelli musulmani contattati da alcuni diplomatici americani perché accettassero di rientrare nel dialogo politico dopo la deposizione di Morsi. “Ci stanno chiedendo di legittimare il golpe”, dice uno di loro, mentre dall’ambasciata americana al Cairo, guidata da Anne Patterson, nessuno ha voluto commentare. Il dipartimento di stato americano non ha commentato un altro dispaccio di Kirkpatrick, nel quale il giornalista raccontava le ultime ore di Morsi al potere. Il presidente egiziano ha ricevuto una telefonata da “un ministro degli Esteri di un paese arabo” che chiedeva, per conto degli americani, di accettare la nomina di un nuovo premier come richiesto dalla piazza (e dall’esercito) dopo la performance mediocre della Fratellanza al potere. Morsi ha rifiutato la proposta e uno dei suoi consiglieri più fidati, Essam el Haddad, ha lasciato la stanza per comunicare alla Patterson la decisione: el Haddad ha anche parlato con Susan Rice, consigliere per la Sicurezza di Obama, ribadendo la posizione di Morsi ed è rientrato nella stanza annunciando che l’azione dei militari sarebbe iniziata di lì a poco. “La mamma ci ha appena detto che smetteremo di giocare entro un’ora”, ha scritto via sms un consigliere della presidenza a un collega. La mamma ha deciso che Morsi non poteva più stare al potere, ma non ha pensato a un piano per evitare che la crisi istituzionale diventasse – come sta accadendo, come ha detto anche il leader di al Azhar in un appello televisivo alla comunità islamica – guerra civile. L’Amministrazione Obama prende tempo, chiude la sua ambasciata al Cairo (almeno fino a oggi) e cerca di capire da che parte stare. Per comprendere la posizione del presidente, il quotidiano online Politico ha cercato di identificare le varie anime di Washington nel dibattito sull’Egitto: c’è chi è sollevato dalla fuoriuscita di Morsi, chi grida alla fine della democrazia e chi ancora non sa con chi schierarsi. Obama, com’è sua natura, non è stato esplicito, ma Politico lo colloca tra i “realisti del medio oriente”, quelli che non hanno un approccio ideologico ma pensano a come mantenere intatta e forte l’influenza americana in Egitto: “Poiché tutte le parti sono uguali, Obama vuole stare dalla parte dei buoni (mentre ammette che è difficile identificarli), ma ancor di più vuole stare dalla parte di chiunque riesca a portare calma e stabilità nella regione, il più in fretta possibile”.
Il GIORNALE- Gian Micalessin : " Le sei piaghe che condannano l’Egitto al caos "
Gian Micalessin
Sono le sei nuove piaghe d'Egitto. Sei mali fisiologici e strutturali che rendono il paese refrattario a qualsiasi svolta democratica o liberale e rischiano di far traballare anche il nuovo ordine dei generali trascinando nel definitivo caos l'Egitto del dopo Morsi. A I Fratelli Musulmani Il movimento politico-religioso, ispiratore di ogni fondamentalismo, è sopravvissuto dal 1928 a oggi alle repressioni di Nasser, Sadat e Mubarak. Non cesserà sicuramente d'esistere dopo l'ultimo golpe. La sfiducia nel sistema democratico delle ali più estreme minaccia di generare un movimento clandestino pronto alla lotta armata sull'esempio di Hamas (nato a Gaza da una costola dei Fratelli Musulmani) e dei ribelli siriani della Fratellanza Musulmana. B Il buco nero del Sinai Il passaggio alla lotta armata di alcuni settori della Fratellanza Musulmana farà affluire nuovi militanti nelle zone settentrionali del Sinai già controllate dai gruppi jihadisti autori di attacchi ai gasdotti e ai militari egiziani. I beduini ostili al governo garantiscono ai jihadisti il contrabbando di armi, i trasferimenti nel deserto e l'ospitalità nelle oasi. L'esercito costretto dagli accordi di pace con Israele a schieramenti ridotti di truppe potrebbe venir sopraffatto dai gruppi armati. La perdita del Sinai, la chiusura di Suez e la fine del turismo trascinerebbero alla bancarotta il paese. C L'economia fuori controllo Il canale di Suez e il turismo sono le ultime fonti di capitali stranieri. Con Morsi le riserve di valuta estera sono precipitate dai 36 miliardi di dollari dell'ultimo periodo di Mubarak agli attuali 16 miliardi, sufficienti appena a coprire le importazioni di un trimestre. I buchi dei mesi precedenti sono stati coperti dalle iniezioni di liquidità garantite da Qatar, Libia e Turchia. Oggi quei soldi non arriveranno più. Chiusura di Suez e fine del turismo rischiano perciò di rivelarsi fatali. D L'economia sotto controllo Oltre il 40 per cento della produzione nazionale, dall'acqua minerale, al pane ai carri armati americani assemblati su licenza, è controllata dai militari o aziende a loro collegate. Questo non consente lo sviluppo di un ceto medio indipendente e rende impossibile qualsiasi evoluzione liberale o democratica. Il paese è condannato dalla sua stessa struttura economica a oscillare tra il fondamentalismo e il gioco dei militari. E L'America fuori gioco Finanziando i militari con 1 miliardo e 300 milioni annui di aiuti militari, le amministrazioni statunitensi succedutesi dopo gli accordi di Camp David del 1979 hanno mitigato il controllo di Mubarak e dei militari sul paese. La decisione di Obama di appoggiare fino all'ultimo Morsi ha delegittimato gli Stati Uniti privandoli della capacità di esercitare un’influenza autorevole e riconosciuta sui generali e sulle masse popolari. F La trappola salafita Il partito salafita Nur, vicino ai wahabiti sauditi, ha collaborato all'estromissione di Morsi e dei Fratelli Musulmani legati al Qatar nella logica di una contrapposizione decisa dalle divisioni dei fondamentalisti e dei loro padrini internazionali. I salafiti di Nur non intendono certo inserirsi nel solco democratico o liberale, ma soltanto recuperare gli attivisti delusi dagli errori di Morsi e della Fratellanza. Sostituendosi alla Fratellanza Musulmana i salafiti di Nur non contribuiscono certo alla moderazione. Puntano piuttosto, sulla base del modello saudita, all'introduzione di Costituzione, legislazione e regole sociali ancora più allineate con la Sharia.
CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " La tragica normalità di un colpo di stato sempre meno anomalo "
Franco Venturini
In Egitto il golpe anomalo diventa tragicamente normale. Gli uomini in divisa che sparano sulla folla appartengono alla triste iconografia degli interventi militari, e la possibile presenza di provocatori sul luogo della strage, così come la versione dai fatti fornita dall'esercito, non modificano una immagine che ora mette in imbarazzo chi aveva dato un benvenuto troppo ingenuo all'irruzione sulla scena dei generali. Pare arrivato il momento di mettere da parte le dispute semantiche e di guardare alla sostanza, vale a dire alla montagna di pericoli che grava sugli egiziani ma anche su noi europei mediterranei (singolare ma straordinariamente significativa, la coincidenza con il viaggio di Papa Francesco a Lampedusa). Il golpe c'è stato, perché in democrazia una moltitudine che protesta può delegittimare, ma non abbattere chi esce vincitore dalle urne. Resta che quindici milioni di egiziani in piazza ci sono andati per dire «basta» a Morsi e ai suoi Fratelli musulmani, dimostratisi inetti nel governare quanto insidiosi nella pretesa di imporre il loro settarismo religioso. La soluzione migliore poteva, doveva essere che i militari mettessero sotto tutela Morsi senza abbatterlo e lo spingessero a formare un governo di coalizione anticipando nel contempo le elezioni presidenziali. Per loro incapacità o perché frustrati (come i loro finanziatori Usa) dai testardi rifiuti di Morsi, i militari egiziani invece di insistere hanno scelto la via più breve e traumatica. E così hanno scoperchiato tutti i mali della profonda polarizzazione politica, economica e religiosa dell'Egitto post Mubarak e post Piazza Tahrir 2011. L'economia, prima di tutto. Ai ragazzi della «prima rivoluzione» erano state promesse — inizialmente dagli stessi militari, che controllano il qo per cento del business nazionale — risposte capaci di arrestare il declino. E' accaduto il contrario, e qui Morsi ha la responsabilità della sua inefficacia: niente lavoro, turismo in ulteriore crollo, impennata dei prezzi, scarsità endemica di energia elettrica e di carburanti, riserve monetarie e salari pubblici sostenuti unicamente dai prestiti del Qatar. Ora forse gli aiuti arriveranno anche dalla rivale Arabia Saudita, ma sono l'Occidente, e in particolare il Fondo monetario, a dover decidere cosa vogliono fare. Il dilemma è semplice: aiutare senza troppe condizioni o lasciar crollare l'Egitto. Poi serve — lo dicono tutti — un rapido ritorno al processo elettorale e democratico. Ma malgrado le assicurazioni fornite in questo senso dal Presidente provvisorio, il clima di violenza non sembra essere quello più adatto. E non si possono più cancellare o mandare in clandestinità, come faceva Mubarak, i partiti dei Fratelli musulmani e dei salafiti: alla prossima prova elettorale loro ci saranno, e con la spinta mobilitante di quanto sta accadendo non è sicuro che perdano. Soprattutto i salafiti, che l'Occidente teme più di chiunque e che sono già imparentati con i jihadisti. E ancora. Esistono gli interessi europei, esistono gli interessi Usa, ma nessuno ha preoccupazioni più legittime, e più a rischio, di quelle di Israele. Gli islamisti subiscono una ulteriore radicalizzazione di cui non si sentiva il bisogno, e non è sicuro che i militari, peraltro non compatti al loro interno, possano restare per sempre di guardia. La situazione nel Sinai peggiora. Diventa urgente confermare e rafforzare il trattato di pace egitto-israeliano, ma la cosa risulterà ardua fino a quando la società egiziana resterà preda di tutti gli estremi - smi. Ahmed al Tayeb, rettore dell'università sunnita di Al Azhar, predicava ieri la riconciliazione nazionale per evitare una guerra civile. Lui non è sempre un moderato. Ma forse stavolta ha capito meglio di altri che l'orlo del burrone è vicino.
La REPUBBLICA - Bernardo Valli : " Quella macchia sui militari "
Bernardo Valli
I morti del Cairo cambiano ancora una volta il corso della zigzagante rivoluzione egiziana. Non più tanto una primavera araba quanto un’estate insanguinata. Accusato del massacro avvenuto nelle prime ore dell’8 luglio, l’esercito, che voleva imporsi come una forza di interposizione imparziale tra islamisti e laici, si scopre coinvolto nella mischia. E appare adesso l'involontario promotore di un eccidio. Sottolineo involontario perché la sparatoria contro i manifestanti, mossi dai Fratelli musulmani, è stata probabilmente, come sostengono i comandi militari, una risposta obbligata. Una reazione inevitabile all'assalto di un folto gruppo di islamisti che tentava di entrare nella caserma della guardia repubblicana dove pensava si trovasse prigioniero l'ex presidente Morsi. Dunque una legittima difesa. Ma una difesa eccessiva, sciagurata, destinata a restare come una macchia sulla società militare e a mutare gli equilibri dello scontro. L'esercito faticherà d'ora in poi a presentarsi come una forza neutrale, nonostante le circostanze in cui è avvenuto il massacro. I pretoriani egiziani affermano di essere una emanazione del popolo. I soldati sono per lo più dei coscritti, arrivano dalle più lontane sponde del Nilo o dalle periferie più povere; e gli ufficiali escono spesso dai ranghi e con i gradi conquistano unaposizione sociale altrimenti irraggiungibile. L'esercito è quindi incapace di rivolgere i fucili contro il popolo. Questo lodevole, esaltato principio non è sempre stato rispettato. Le violazioni sono state tante. Dal 1952, anno della rivoluzione degli "ufficiali liberi" repubblicani, la privilegiata società militare è stata chiamata più volte a ripristinare l'ordine. Spesso la polizia (comunque comandata da un generale) le ha risparmiato un impegno diretto. Questo non sarebbe però accaduto ieri, anche se come vuole la tradizione l'esercito ha riversato la responsabilità sulla polizia. Come prove del colpo di stato militare che denunciano da quando (il 3luglio) il presidente Mohammed Morsi è stato destituito, i Fratelli musulmani mostrano in queste ore i morti e i feriti nella sparatoria davanti alla caserma della guardia repubblicana. Dicono con fideistica certezza: eravamo in preghiera, alla vigilia del ramadan, e ci hanno presi a fucilate. Mentre i testimoni imparziali sostengono che la preghiera si svolgeva ad almeno due chilometri dal luogo della sparatoria. Le confuse immagini rese pubbliche dall'esercito, in cui si vedrebbe spuntare dalla massa umana qualche arma, non sono neppure prese in considerazione dai responsabili della Confraternita che hannc esortato alla «sollevazione». E in questa fase la rivolta è diretta apertamente contro l'esercito. Dalle denunce verbali di un colpo di stato ordito e attuato dai generali si è passati a una prova di forza contro l'esercito. Al contrario delle masse religiose, i dirigenti dellaConfraternita non sono facili prede delle passioni. Sono abili calcolatori. In un anno di governo sono rimasti prigionieri dei loro dogmi; non sono riusciti a separare politica e religione; quindi sono stati incapaci di affrontare i problemi concreti. Ma nel passato, durante la lunga persecuzione subita, nei campi di concentramento, in prigione, nella semi-clandestinità ed anche in parlamento confusi in partiti compiacenti, i capi dei Fratelli musulmani si sono dimostrati abili nel tessere compromessi. In questa nuovo capitolo della primavera araba, che li ha portati in prima fila sulla ribalta politica, hanno tuttavia un esiguo spazio di manovra. Sono presi tra due fuochi. Da un lato i "laici", ai loro occhi spalleggiati dai militari, dall'altro i salafiti, raccolti nel partito Nour. Quest'ultimo ha un ruolo importante nel nuovo capitolo della rivoluzione. Il Nour esprime un islamismo radicale. Ha partecipato con successo alle elezioni, e i Fratelli musulmani, considerati dei moderati, sono i suoi diretti concorrenti. Il Nour si è schierato in un primo tempo coni "laici" di piazza Tahrir, quindi contro il presidente Morsi, ma quando è apparsa la candidatura a primo ministro di El Baradei, leader laico e liberale, si è opposto e ha abbandonato i negoziati, assumendo una posizione intransigente. Si è dunque accesa una gara a chi rappresenta la linea più dura tra le due grandi correnti dell'Islam egiziano. L'avversario di entrambe è diventato l'esercito che ha perduto il già compromesso privilegio di arbitro neutrale. Non sarà facile ai militari recuperare il già scarso credito di cui usufruivano presso gli islamici. E dovranno esercitare con maggior rischi illoro ruolo di forza di interposizione. Gli scontri tra manifestanti laici e islamisti sono destinati a moltiplicarsi in un clima più acceso, ai limiti della guerra civile. Il fronte pro Morsi era afflitto, oltre che dalla perdita del potere, anche dalla pessima reputazione dovuta all'incapacità di governare dimostrata dal presidente destituito proprio per questo. I morti del Cairo hanno aggiunto a quel sentimento un'aureola di martirio, esaltata dall'intensità religiosa tipica del ramadan che sta per cominciare. Ed è una sensazione con un assurdo sapore di rivincita. O meglio di riscatto. E come se l'accusa ai militari, massacratori di islamisti, assolvesse questi ultimi dal fallimento nel governare.
Per inviare la propria opinione a Foglio, Giornale, Corriere della Sera e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti