Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/07/2013, a pag. 13, gli articoli di Cecilia Zecchinelli titolati " Egitto, prova di forza sul nuovo premier. Manifestazioni e tensioni in tutto il Paese " e " Se il governo è ostaggio dei salafiti", a pag. 4, l'intervista di Stefano Montefiori a Dominique Moïsi dal titolo " Come nei Balcani, giusto l’intervento dei militari ". Dalla STAMPA, a pag. 12, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " L’Occidente ci ha tradito, finiremo in braccio ai russi ".
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli: " Egitto, prova di forza sul nuovo premier. Manifestazioni e tensioni in tutto il Paese "

IL CAIRO — È ricominciato tutto, ieri in Egitto: fiumi enormi e rivali tra loro di manifestanti con le stesse bandiere nazionali, gli stessi appelli alla democrazia, la stessa identica certezza di avere ragione. Folle chiamate in piazza dalla Fratellanza per il ritorno del «raìs legittimo» Mohammad Morsi, deposto dai generali e da quattro giorni sparito nel nulla, contrapposte a quelle convocate dai giovani di Tamarrod a difesa dell’intervento dei militari «alleati del popolo». Ed è continuato lo scontro politico all’interno della improbabile coalizione vincente e sotto tutela dei generali: dopo l’impasse esplosa con evidenza sabato notte con la nomina annunciata e poi smentita di Mohammad El Baradei a premier, anche un nuovo nome proposto dalle forze laiche per il posto di primo ministro è stato ieri notte bocciato dai salafiti del partito Al Nour, gli stessi che avevano detto «no» al premio Nobel. L’avvocato 48enne e capo del piccolo partito Socialdemocratico Ziad Bahaa El Din sembrava un compromesso possibile, la tv di Stato aveva dato l’intesa vicina. Ma Al Nour ha poi dichiarato che non se ne parlava. «Bahaa El Din e El Baradei sono espressione dello stesso Fronte di salvezza nazionale», troppo laico e considerato anti-islamico. Nemmeno l’accordo di massima annunciato ieri su El Baradei come vicepresidente, con poteri limitati ai rapporti internazionali, potrà dirsi certo fino a una conferma definitiva.
Formare rapidamente un governo transitorio è vitale per il generale Al Sisi e alleati, mentre l’allarme aumenta nel mondo: anche il presidente russo Vladimir Putin ieri si è fatto sentire, sostenendo che l’Egitto rischia una guerra civile «come in Siria». Ma un governo è fondamentale soprattutto per questo Paese, sempre più diviso e a rischio di violenze ancora più gravi di quelle esplose venerdì, con 37 morti e quasi 1.500 feriti, molti dei quali vittime negli scontri tra le ali armate dei due schieramenti, minoritarie rispetto alla massa pacifica, ma agguerrite.
Nella capitale blindata da esercito e polizia, mentre in cielo passavano elicotteri e F-16 illuminati da laser verdi e con fumi tricolori, il clima era da stato d’assedio. Strade quasi deserte, tantissimi negozi chiusi nonostante la domenica qui si lavori, nemmeno il Ramadan ormai alle porte ha convinto la gente ad affollare botteghe e mercati come abitudine. «Non c’è nessuno, hanno tutti paura e comunque non hanno soldi», diceva Amina, commessa di una pasticceria di Muski. Nel vicino suq di Khan Khalili nessun turista, tranne una giapponese dall’aria sperduta.
Ancora più spettrali le vie nella zona di Giza, intorno a Rabaa Al Radawiya e Tahrir, se non per le masse dei pro e anti Morsi che dal pomeriggio erano affluite. Nella notte erano milioni nelle piazze, fino a tardi senza incidenti. Le comunicazioni erano in tilt, per i troppi sms, tweet e email che tutti spedivano. Quelli che riuscivano a partire ripetevano le solite cose e poco prestavano attenzione ai nuovi arresti di leader della Fratellanza, al raid nell’ultima tv ancora aperta a lei vicina ovvero Al Jazeera , a un altro soldato ucciso nel Sinai, agli appelli del mondo. Mentre i suoi politici si disputano il nuovo potere l’Egitto è sceso nelle piazze, e non ha nessuna intenzione di lasciarle.
CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli: " Se il governo è ostaggio dei salafiti "

Tutti impegnati a discutere se quello egiziano sia stato o meno un golpe, se a deporre Morsi sia stata la piazza o il generale Al Sisi, pochi stanno dando peso — in Occidente e in Egitto — al fatto forse più inquietante. Per cacciare la Fratellanza, il Fronte 30 giugno dell’opposizione non solo ha inglobato tutte le forze laiche. Ma ha accolto il partito islamico salafita Al Nour, già alleato della Fratellanza e ora suo primo rivale. Sabato sono stati loro a bocciare platealmente Mohammad El Baradei come premier ad interim dopo che la nomina era già stata annunciata. Lo stesso è avvenuto ieri con il socialdemocratico Ziad Bahaa El Din. Entrambi troppo liberal e difensori della separazione tra Stato e moschea, per quanto possibile almeno in Egitto. Ultraconservatori, fortemente radicati nelle classi urbane e rurali più povere, entrati in politica solo nel 2011, i salafiti sono gli unici che vogliono lo Stato islamico basato sulla sharia, le leggi contro le donne e i cristiani, contro il vino e il balletto. Insomma il cui obiettivo è replicare sul Nilo il sistema dell’Arabia Saudita a cui non a caso sono molto legati e che ha fatto di tutto per cacciare i Fratelli. I loro tentativi di convincere Morsi a muoversi in quella direzione sono falliti. Lo hanno abbandonato e tutti in Egitto hanno lodato la loro «lungimiranza politica», l’alleanza con il Fronte laico. Peccato che a fare due conti, sostiene l’analista Emad Mostaque, dal 27% dei voti alle ultime parlamentari Al Nour potrebbe arrivare la prossima volta a oltre il 40%, specie se la Fratellanza sarà in disparte per scelta o per forza. «È un rischio ma credo che i laici prevarranno tanto più che ora le forze legate all’ex partito di Mubarak sono tornate in campo», dice il noto politologo Hisham Qassem. Una bella consolazione per chi vede negli eventi di questi giorni la seconda rivoluzione. Una lotta tra mubarakiani e salafiti è l’ultima cosa di cui ha bisogno l’Egitto. Ma non la meno improbabile.
La STAMPA - Francesca Paci : " L’Occidente ci ha tradito, finiremo in braccio ai russi "

Il vento è cambiato a Tahrir. Oggi che la piazza, icona della rivoluzione egiziana, ha abbracciato i carri armati, l’opinione pubblica occidentale gli ha voltato le spalle preferendogli la rivale Rabah Aladawya, dove gli islamisti un tempo minacciosi si sono riposizionati come vittime del colpo di stato militare. Questa almeno è l’impressione della piazza «golpista» che si sente fraintesa se non addirittura tradita dall’Europa e dagli Stati Uniti.
«A sei mesi dalla caduta di Mubarak ci accusavate di aver ceduto la Primavera araba all’inverno islamista e adesso che mettiamo fuori gioco i Fratelli musulmani non va bene lo stesso» osserva il medico 31enne Kamel Mones, bevendo Coca Cola al caffè Borsa, crocevia della protesta. Il problema non è se i media, a partire dalla Cnn ormai detestata quasi quanto al Jazeera, definiscano o meno «colpo di stato» quanto sta accadendo al Cairo, ma la percezione che continuino a giudicare il mondo arabo con il paternalismo descritto da Edward Said nel celebre saggio «Orientalismo».
«All’estero non si vede la differenza tra processo democratico e valori democratici, quelli che i Fratelli musulmani hanno maltrattato in ogni modo, dalla scrittura della propria Costituzione alla criminalizzazione delle Ong fino all’assedio alla Corte Costituzionale» ragiona Alfred Rauf, attivista del partito Dustur. Ha scritto un blog intitolato «l’impeachment democratico di un presidente democraticamente eletto» in cui replica alle critiche di Washington ricordando quando Nixon, dopo aver violato la legge, fu allontanato in nome della democrazia. L’amico Hassan mostra sul cellulare il video in cui una nota tv internazionale intervista il leader della Jama’a al Islamiya Assem Abdel Maged, «il bin Laden egiziano», nel ruolo dell’elettore scippato del voto.
«Tecnicamente parlando anche quello contro Mubarak è stato un golpe, ma all’epoca Tahrir era così seducente da ispirare Puerta del Sol a Madrid e Occupy Wall Street. Che differenza c’è con il Morsi di oggi che, senza l’intervento dell’esercito, sarebbe stato prelevato a forza dalla folla, esattamente come rischiava il Faraone? Allora aggiorniamo le categorie geopolitiche, si tratta di un colpo di stato civile» continua Alfred. A giorni volerà in Germania per incontrare politici e giornalisti e spiegare loro la democrazia autoritaria della seconda rivoluzione egiziana.
Il tradimento dell’occidente è pane quotidiano in piazza Tahrir, quasi più dello scontro con gli agguerriti sostenitori dei Fratelli musulmani, che difendono la loro posizione anche mediaticamente accogliendo i cronisti a Nasr City con cortesi spruzzi d’acqua fresca sul viso accaldato.
«È folle, gli islamisti vi considerano il diavolo e voi ne sostenete la legittimità» commenta l’avvocatessa Rajia Omran, attivista dei diritti umani più volte premiata anche negli States. Con lei a consumare un’insalata prima della decima riunione della serata c’è l’economista Ahmed Naguib. «L’equilibrio globale è cambiato, la Russia è tornata una superpotenza e non vede l’ora di sostituirsi all’America nel finanziare l’esercito egiziano e all’Europa negli scambi commerciali» nota Ahmed. E pazienza se Mosca non sia un modello di democrazia: i parametri, come i presidenti, cambiano.
CORRIERE della SERA - Stefano Montefiori : " Come nei Balcani, giusto l’intervento dei militari "

Dominique Moïsi
PARIGI — Dominique Moïsi, crede che l’Egitto stia per sprofondare in una guerra civile? E che possa ripetersi quel che sta accadendo in Siria?
«Il rischio c’è ma non mi pare lo scenario più probabile. L’Egitto è un Paese profondamente diviso tra islamisti e tutti gli altri. Ma non credo che finirà come in Siria».
Come mai?
«L’esempio stesso dei massacri in Siria è un monito per tutti a cercare di fermarsi prima. E poi le due situazioni sono molto diverse. Intanto l’Egitto ha un’altra tradizione di rispetto, tolleranza e diversità. Poi, a differenza della Siria, l’esercito è compatto: sta tutto dalla parte delle forze che hanno rovesciato Morsi qualche giorno fa».
Il braccio di ferro ora è incentrato su El Baradei. Crede che sia l’uomo giusto?
«Al contrario, ho subito pensato che dare l’incarico di premier a El Baradei fosse una pessima scelta. È l’egiziano che piace a noi occidentali, rassicurante e moderato, ma precisamente per questo motivo è rifiutato da una parte consistente della popolazione egiziana. In Egitto non gode della popolarità che ha all’estero, lo amano solo i circoli più moderni e liberali. È una personalità che divide molto».
Qual è il suo giudizio sull’imbarazzo dell’Occidente?
«La caduta di Morsi è stata accolta in modo positivo dalla maggioranza del mondo occidentale, ma allo stesso tempo il modo in cui è caduto, con un golpe militare, non può essere accettato apertamente. L’imbarazzo è inevitabile. Torna la distinzione, inaugurata una ventina d’anni fa con l’intervento nei Balcani, tra legalità e legittimità».
Ovvero?
«Nella ex Jugoslavia l’intervento della Nato era discutibile dal punto di vista legale perché mancava il via libera del Consiglio di Sicurezza, ma era legittimo perché permetteva di porre fine ai massacri dei civili. Quel che è accaduto in Egitto forse non è legale ma legittimo. Cioè il popolo è sceso in piazza per denunciare il mix di incompetenza e intolleranza del governo in carica. Quel che hanno fatto è illegale ma pensiamo sia legittimo e quindi fatichiamo a condannarlo. È una distinzione che io giudico accettabile e pericolosa allo stesso tempo. Se andiamo troppo lontano cadiamo vittime della soggettività. Però attenersi alla legalità comporta la paralisi: lo abbiamo visto con l’inefficienza dell’Onu e con l’inazione in Siria. Un intervento occidentale in Siria sarebbe più che legittimo, visto che Russia e Iran certo non si preoccupano della legalità».
Qual è il peso della questione religiosa in Egitto dopo i nuovi attacchi contro i copti?
«È un tema fondamentale perché riguarda l’identità stessa del Paese. La forza dell’Egitto non sta solo nella demografia (più di 80 milioni di abitanti) o nella centralità strategica, una sorta di Impero di Mezzo del Medio Oriente, ma anche nel fatto che la sua forte identità pre-islamica è ancora presente, incarnata in parte dai cristiani copti. Il fatto che gli egiziani possano con qualche ragione dirsi discendenti dei Faraoni dà al Cairo una sicurezza e un orgoglio che sono una risorsa di fronte alla crisi identitaria del mondo arabo-musulmano».
I militari difenderanno i copti?
«Quando era al potere, l’esercito si era già fatto garante della diversità dell’Egitto e potrebbe tornare a proteggere le minoranze. Nell’esitazione degli occidentali a condannare il golpe c’è anche la preoccupazione per la sorte dei cristiani d’Oriente. La stessa che ci fa esitare nel sostenere i ribelli siriani, perché lì i cristiani sono di solito dalla parte di Assad».
Che accadrà nei prossimi giorni?
«Non potrà andare peggio che sotto Morsi, io credo. La questione cruciale è la vita quotidiana degli egiziani. Né i militari saliti al potere subito dopo la fine di Mubarak né i Fratelli musulmani sono riusciti a far ripartire l’economia e a riportare in Egitto i turisti».
Che dovrebbe fare quindi l’Occidente?
«Aiutare massicciamente l’Egitto. La società egiziana è disfunzionale e sclerotizzata ma resta di grande civiltà. Se il caos in Siria è grave, in Egitto sarebbe catastrofico per tutti».
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