Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Egitto: l'imbarazzo di chi aveva appoggiato Morsi commenti di Carlo Panella, Davide Frattini, Francesca Paci, Claudio Gallo, Paolo Valentino
Testata:Libero - Corriere della Sera - La Stampa Autore: Carlo Panella - Claudio Gallo - Davide Frattini - Paolo Valentino - Francesca Paci Titolo: «Erdogan sconfitto, Assad se la ride - Il rovello di Obama - Qatar e sauditi scaricano i Fratelli - Così fallisce l’agenda politica di Al Jazeera - Il voltafaccia dei salafiti pronti a salire sul carro vincente»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 05/07/2013, a pag. 14, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Erdogan sconfitto, Assad se la ride ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 2, l'articolo di Paolo Vantino dal titolo "Il rovello di Obama", a pag. 5, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Così fallisce l’agenda politica di Al Jazeera ". Dalla STAMPA, a pag. 12 l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Il voltafaccia dei salafiti pronti a salire sul carro vincente ", a pag. 14, l'articolo di Claudio Gallo dal titolo " Qatar e sauditi scaricano i Fratelli ", preceduto dal nostro commento. Ecco i pezzi:
LIBERO - Carlo Panella : " Erdogan sconfitto, Assad se la ride "
Il ghigno di Beshar al Assad domina le reazioni dei Paesi arabi e islamici alla ingloriosa caduta di Mohammed Morsi e dei Fratelli Musulmani egiziani: «La deposizione di Morsi èun granderisultato!». Ovvie le motivazioni di tanto entusiasmo: i fratelli Musulmani sono parte non marginale della rivoluzione in atto in Siria, il padre di Beshar, Hafez al Assad li ha massacrati a decine di migliaia. Ma, soprattutto, il Qatar e l’Arabia Saudita, che sostengono massicciamente le rivoluzione in Siria, sono stati i principali sponsor dei Fratelli Musulmani e di Mohammed Morsi. Secondo la più classica tradizione araba, però, i governi dell’Ara - bia Saudita edelQatar(che avevaappena regalato 3 miliardi di dollari a Morsi per tamponare la crisi economica) ieri hanno “salutato” la deposizione dell’loro ex uomo al Cairo e si preparano a giocare le loro possibilità di influenza sul nuovo corso egiziano. A seguire l’apprezzamento per la “positiva svolta” degli Emirati Arabi Uniti e del Kuwait. Rabbiosa e durissima invece la reazione dei massimi dirigenti della Turchia di Tayyp Erdogan, il cui partito Akp nasce dalle costole della Fratellanza Musulmana e che aveva - invano, cercato di influenzare in senso moderato e laico sia Morsi che i Fratelli egiziani:«Nonè accettabile cheunpresidente eletto sia stato destituito con un golpe militare; il cambiamento in Egitto non è avvenuto nel rispetto della democrazia e delle leggi». In piena sintonia, Ennhada, il partito maggioritario in Tunisia, sezione locale dei Fratelli Musulmani, condanna «il golpe contro la legalità». Tace per ora Hamas - sezione palestinese dei Fratelli Musulmani -mentre un entusiasta Abu Mazen si complimenta col popolo egiziano per la rivoluzione condotta e invia messaggi augurali alle Forze Armate e al presidente egiziano post golpista Adly Mansour. Una euforia che la dice lunga sui rapporti interpalestinesi: Hamas perde con Morsi un grande, potenziale alleato al di là della frontiera di Gaza e questo influenza a suo totale svantaggio i rapporti tesissimi con Abu Mazen. Di più, tutta la dirigenza dei Fratelli Musulmani, a partire dal leader mondiale Muhammad Badie èoggi in galera al Cairo (nella stessa prigione in cui è detenuto Mubarak!) e questo è un colpo durissimo per i partiti fratelli arabi, Hamas in testa. Più distaccato e prudente l’atteggia - mento sul golpe egiziano del governo iraniano che si limita a lanciare un «appello a realizzare le legittime richieste dei cittadini egiziani». In realtà l’Iran perde in Morsi - il primo presidente egiziano a recarsi in Iran dal 1979 - un potenziale e fondamentale alleato per spezzare quel “muro sunnita”, i cui capisaldi sono Arabia Saudita, Emirati del Golfo, Giordania e - appunto, sino a quando Mubarak ha retto - Egitto, teso a contrapporsi alla espansione della rivoluzione iraniana. Ma la diplomazia iraniana è ben più raffinata di quella araba e - per di più - anche l’Iran vedeva con dispetto l’appog - gio dei Fratelli Musulmani egiziani e di Morsi alla rivoluzione siriana contro l’indi - spensabile alleato Beshar al Assad. Altri paesi arabi, come il Marocco e la Libia, si posizionano in prudente attesa degli sviluppi della situazione al Cairo. Tace invece la Lega Araba, che ha nell’Egitto il suo storico baricentro, ma che riunisce 23 paesi, la maggior parte retta da regimi autoritari, che hanno ragioni forti di contrapposizione con i Fratelli Musulmani,ma che certo non vedono di buon occhio la ormai abituale prassi egiziana di governi rovesciati da forti mobilitazioni popolari.
La STAMPA - Claudio Gallo : " Qatar e sauditi scaricano i Fratelli "
Emiro del Qatar
Non è ben chiaro che cosa intenda Gallo con la conclusione del suo pezzo "se c’è uno stato della regione che più di ogni altro gode dei frutti strategici delle Primavere Arabe, quello è Israele. ". Che cos'avrebbe guadagnato Israele dalla caduta di Mubarak? E la situazione in Siria sarebbe favorevole a Israele in che modo?
A quarantott’ore dal colpo di stato egiziano, popolare fin che si vuole, ma golpe classico con soldati e carri armati contro un presidente democraticamente eletto, si cominciano a stilare le prime liste di vinti e vincitori. Nel Medio Oriente, in continua ebollizione, attraversato da confronti geopolitici mascherati da conflitti settari che poi si auto-alimentano, il primo perdente è il Qatar. A pochi giorni dalla mediatica successione al trono di Doha che ha portato il giovane Tamim al posto del navigato padre (eccezione nel Golfo, dove la gerontocrazia governa fino all’ultimo respiro), il nuovo emiro si è congratulato con i militari egiziani. Gli stessi che hanno scalzato i suoi principali alleati al Cairo e chiuso gli uffici della sua tv, Al Jazeera, trombettiera del nuovo ordine dal Maghreb all’Asia centrale.
Unico stato del Golfo ad aver celebrato la caduta di Mubarak, il Qatar, sostenitore delle Primavere Arabe in sintonia col Dipartimento di Stato, si è ritrovato in mano un compasso rotto. In Siria, nonostante la pioggia di miliardi sull’opposizione vicina ai Fratelli musulmani, le cose vanno male e il regime è sempre in piedi. «Andrò presto a pregare alla moschea di Damasco», aveva detto il vecchio emiro. Non tanto presto. E in Egitto gli islamisti di Morsi, così tenacemente sostenuti, hanno appena perso la partita.
Dal suo fortino assediato ma ancora solido, Assad ne ha approfittato per rilasciare un’intervista tv dove oltre a constatare con soddisfazione «sono ancora qui», spiega che il golpe egiziano «è il crollo dell’islamismo politico. Una fine inevitabile per chi usa la religione come strumento politico». Parole che devono essere suonate strane ai suoi alleati a Teheran.
Non si brinda invece in Turchia e non soltanto perché il governo islamico chiude sempre più spesso i locali che servono alcolici. Il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, regista della politica neo-ottomana, ha criticato i militari egiziani per aver tradito la costituzione, anche se a bruciare è l’abbattimento di un governo politicamente vicino. Dalla Libia in poi i «neo-ottomani» hanno perso il tocco magico e la stella di Erdogan si sta appannando anche in casa.
A Riad invece, se fosse consentito, si stapperebbe champagne: il vecchio e malato re Abdullah si è complimentato con i generali golpisti. I sauditi e gli altri emirati hanno sempre visto con sospetto il movimento islamista egiziano, preferendo finanziare i più estremisti ma fidati salafiti. A Dubai è attesa la sentenza contro 34 Fratelli locali accusati di sedizione. Il sito israeliano di informazione (e disinformazione) Debka sostiene che i paesi del Golfo hanno concretamente aiutato i militari a scaricare i Fratelli con soldi e intelligence. A proposito di vincitori: se c’è uno stato della regione che più di ogni altro gode dei frutti strategici delle Primavere Arabe, quello è Israele.
CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Così fallisce l’agenda politica di Al Jazeera "
GERUSALEMME — L’emiro del Qatar che vuol comprarsi le piramidi, acquisire il controllo del canale di Suez, installare la sua Al Jazeera negli studi della televisione di Stato al Cairo. I rapporti tra il piccolo Paese del Golfo e la più popolosa nazione araba sono stati così stretti fino a mercoledì e alla deposizione di Mohammed Morsi da generare pettegolezzi geopolitici. Subito smentiti come «fantasie». La realtà è l’aiuto economico elargito da Doha in questi dodici mesi: oltre 6 miliardi di euro in prestiti che hanno permesso alla Banca centrale egiziana di restare a galla e la promessa di investirne altri 20 nei prossimi cinque anni. I militari hanno preso il controllo a una settimana dal ricambio al potere in Qatar: a 33 anni lo sceicco Tamim bib Hamad al-Thani si è ritrovato a dover gestire la crisi internazionale più complicata, ricevuta in eredità dal padre che aveva scommesso sul presidente islamista. Il giovane emiro è stato l’ultimo, tra i regnanti del Golfo, a inviare le congratulazioni ad Adli Mansour, il reggente scelto dai generali. Mentre i vicini esultano da Abu Dhabi («l’esercito egiziano ha dimostrato ancora una volta di essere lo scudo e il protettore della nazione») e dall’Arabia Saudita («gli ufficiali hanno garantito che il Paese uscisse da un tunnel imprevedibile»), i giornali di Doha — che esprimono la posizione della monarchia — lanciano avvertimenti: «L’Egitto non è mai stato in una situazione così caotica, ogni gruppo politico o di potere adesso pensa di avere il diritto a governare», scrive il quotidiano Al Sharq . Dal Cairo i soldati rispondono spegnendo Al Jazeera e arrestando cinque suoi giornalisti (quattro sono stati poi rilasciati). L’emittente satellitare è considerata una voce di propaganda pro-Morsi: Yusuf al-Qaradawi, leader spirituale dei Fratelli musulmani, fa base a Doha e diffonde le sue prediche attraverso i programmi del canale. Gli Emirati Arabi invece hanno sempre osteggiato l’influenza dei Fratelli e sono stati loro a dare ospitalità ad Ahmed Shafiq, l’ultimo premier nominato da Hosni Mubarak, fuggito in esilio dopo aver perso le elezioni contro Morsi. Anche i sauditi sorridono nel veder fallire gli investimenti politici del piccolo Qatar che ha provato a far loro concorrenza come potenza diplomatica regionale con una strategia spregiudicata.
CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : "Il rovello di Obama"
Barack Obama
NEW YORK — Più che dirsi profondamente «preoccupato» per la decisione dei militari egiziani di rimuovere Mohammed Morsi e sospendere la Costituzione, più che invitare i generali a «restituire al più presto ogni autorità a un governo democraticamente eletto», Barack Obama non poteva veramente far molto. Il tumultuoso precipitare della crisi; la necessità di parare la doppia accusa di eccessiva acquiescenza a quello che a tutti gli effetti è stato un golpe, ovvero di aver volutamente sottovalutato la profondità della protesta contro la deriva autoritaria dei Fratelli musulmani, la pericolosa imprevedibilità degli sviluppi, pongono il presidente americano in una condizione di paralizzante incertezza sul corso da seguire. Per molti aspetti, la Casa Bianca rivive l’inverno dello scontento del 2011, quando Washington si arrovellò per settimane tra l’appoggio a un vecchio alleato in declino e la riluttanza a ingerirsi, preoccupata di apparire troppo invasiva agli occhi dei giovani di Piazza Tahrir. Anche questa volta Obama ha telefonato a un leader nella tormenta, anche questa volta le gerarchie militari Usa sono state in intenso contatto con quelle del Cairo, anche questa volta un reparto di marines è stato avvicinato dal Portogallo a Sigonella, pronto per ogni evenienza. La differenza con due anni fa è che il presidente Obama tocca oggi con mano una dimensione inedita della presenza americana in Egitto: se non l’irrilevanza, l’esito della partita mostra la momentanea mancanza di influenza nella vicenda interna di un Paese, che pure è stato un alleato cruciale degli Usa in Medio Oriente, ma di recente è diventato solo fonte di problemi. E mentre rimane altissimo il rischio di nuove violenze, l’America deve scegliere una studiata neutralità, costretta perfino a spuntare l’unica, vera arma di pressione di cui dispone: Obama si è ben guardato infatti dal minacciare la sospensione degli aiuti militari, 1,3 miliardi di dollari l’anno, come già chiedono diversi esponenti del Congresso, limitandosi a dire che il governo valuterà le implicazioni della decisione dei generali egiziani. Simbolo e metafora di questa paralisi, è l’ambasciatrice americana al Cairo, Anne W. Patterson, bersaglio di critiche feroci sia da parte sia dei sostenitori di Morsi, che l’accusano di aver trescato con l’opposizione, sia del fronte anti-governativo uscito vincente dal confronto, che le rimprovera di averla snobbata e aver addirittura fatto parte di una congiura «contro il popolo egiziano». Due punti di vista, una sola verità: gli Stati Uniti non possono o non vogliono più fare la differenza in Egitto. «Non si può appoggiare la parte sbagliata, così non appoggiamo nessuno», riassume una fonte della Casa Bianca. Non è esattamente una prospettiva che rassicuri. Non solo per l’Egitto, ma per tutte le transizioni politiche in corso nel Medio Oriente.
La STAMPA - Francesca Paci : " Il voltafaccia dei salafiti pronti a salire sul carro vincente "
Se i Fratelli Musulmani passeranno alla storia per l’impreparazione con la quale hanno affrontato la storica chance di guidare l’Egitto, i loro alleati islamisti del partito al Nur, quei salafiti cresciuti a pane e Corano ma digiuni di politica fino a due anni e mezzo fa, potrebbero al contrario rivelarsi tanto naif quanto lesti a imparare le opportunità della democrazia e ad accaparrarsi le anime votanti rimaste orfane di Morsi.
Dopo aver mantenuto per tutta la settimana un profilo bassissimo, i leader di al Dawa Salafiya, una costola di al Nur, prendono ora le distanze dall’ex presidente e invitano i propri militanti ad abbandonare i sit in e tornare in moschea rinunciando alle tentazioni di martirio. E pazienza se anche i loro canali tv - al Nass, al Hifaz e al Amjaad sono stati oscurati come quelli degli ex compagni di governo: il vento è cambiato e chi ne ha il tempo orienta le vele. Mossa tattica per guadagnare tempo? Piano strategico per aggiudicarsi un ruolo, come proverebbe il colloquio che avrebbero avuto ieri con il ministro della difesa Al Sissi? Di certo i Fratelli Musulmani non gradiscono la loro candidatura implicita a partecipare alla road map che li ha fatti fuori e sui social network moltiplicano l’accusa di «traditori».
La sede del partito al Nur, impostosi alle elezioni parlamentari con un sorprendente 30%, si trova nel quartiere di Mahdi a pochi isolati da quella Corte Costituzionale davanti alla quale i suoi sostenitori hanno campeggiato per settimane per protestare contro i giudici rei, a loro dire, di avere sciolto il Parlamento dominato dagli islamisti. L’impiegato che apre la porta al primo piano - barba ispida, bernoccolo della preghiera sulla fronte e pantaloni corti alla caviglia secondo l’usanza dei più devoti seguaci del Profeta - è perfino più loquace degli uomini dallo sguardo sfuggente che siedono alle scrivanie. «Non possiamo parlarle, è un momento di riflessione» dice senza neppure invitare la visitatrice a entrare. La tv accesa alle sue spalle però non è quella al Jazeera i cui uffici sono stati chiusi nelle scorse ore al Cairo, sul piccolo schermo si vedono immagini della Mecca.
L’atteggiamento ondivago dei salafiti riflette la polarizzazione delle geopolitica regionale che negli ultimi mesi ha visto l’Arabia Saudita abbandonare parzialmente i Fratelli Musulmani, abbracciati dal Qatar, e indirizzare i propri finanziamenti ad al Nur.
«Attenzione ai salafiti, saranno la nostra prossima minaccia» ammonisce Hamza Fouad, consulente della procura amministrativa egiziana. Molti tra i giovani rivoluzionari concordano con la sua analisi: «Il generale Al Sissi ha parlato di modifiche alla Costituzione e non di un cambiamento da zero, come chiedevano i ragazzi di Tahrir. Cosa significa? Che si tratta una concessione fatta ai salafiti affinché salgano a bordo della transizione». L’ideologia dei puristi di al Nur d’altra parte, non disdegna all’occorrenza di sporcarsi le mani col pragmatismo. Tanto che poche settimane fa mentre il predicatore Ahmad Mahmoud Abdullah tuonava dalla moschea contro le donne «svergognate» di Tahrir che «vogliono essere violentate» il collega politico Amr Gad rifiutava l’apertura dei Fratelli Musulmani all’Iran affermando che, costretto a scegliere, avrebbe preferito le occidentali in bikini ai turisti sciiti a Sharm el Sheik.
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