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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.07.2013 La verità sui negoziati
lettera aperta di Fiamma Nirenstein a Enrico Letta, intervista a Bibi Netanyahu di Davide Frattini

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein - Davide Frattini
Titolo: «Caro Letta, di' la verità a Netanyahu e Abu Mazen - Sarà un referendum a decidere sulla futura pace con i palestinesi»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 01/07/2013, a pag. 14, la lettera aperta di Fiamma Nirenstein a Enrico Letta dal titolo " Caro Letta, di' la verità a Netanyahu e Abu Mazen ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'intervista di Davide Frattini a Bibi Netanyahu dal titolo " Sarà un referendum a decidere sulla futura pace con i palestinesi ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Caro Letta, di' la verità a Netanyahu e Abu Mazen "


Fiamma Nirenstein           Enrico Letta

Il nostro Primo Ministro Enrico Let­ta, in visita in Medio Oriente e all' Autorità Palestinese, ha una gran­de chance: dire la verità. Dunque, ec­co cosa dovrebbe dire Letta ai due lea­der Benjamin Netanyahu e Abu Ma­zen se volesse aiutarli. «Caro Abu Mazen, noi italiani sia­mo a favore dello Stato Palestinese, ve lo abbiamo dimostrato in tanti modi: E voi? È chiaro dal fatto che in questi an­ni vi siete tirati indietro ogni volta che era a portata di mano, almeno tre vol­te, che avete dei dubbi proprio su que­sta finalità. Perchè insistete sulle pre­condizioni per trattare? Volete conclu­dere prima di cominciare? Se aveste come fine 'due Stati per due popoli', non cerchereste di negare che gli ebrei hanno qui la loro patria naturale, la lo­ro storia. Perchè hai di nuovo ripetuto a un giornale saudita la formula del 'presunto tempio' di Gerusalemme? Vuoi di nuovo dire che gli ebrei qui non c'entrano niente? Nessun uomo di cultura può crederlo. Anche Flavio Giuseppe, Tacito... tanti altri lo raccon­tano, la Bibbia è una mappa della loro presenza. Lascia la triste manovra ora fatta anche al Consiglio d'Europa di cambiare nei documeni le parole 'due Stati per due popoli' in 'due Stati' e ba­sta: se qui ci vogliono due Stati, è per­chè ci sono due popoli, o ne vuoi elimi­nare uno? Ti consiglio di capire anche che gli ebrei sono un popolo, non una religione, guarda quanti laici in giro: chiama Israele 'Stato degli Ebrei', co­me l'Italia ' Stato degli Italiani' o lo Sta­to Palestinese 'Stato dei Palestinesi'. Metti fine alla cultura dell'odio nei li­bri di scuola o alla tv, se quei bambini cui insegnate che gli ebrei sono sprege­voli e mostrate com­e eroi i terroristi do­mani dovessero essere la generazione della pace, come accetteranno una vi­ta normale? Lascia il 'diritto al ritor­no' quattro generazioni più tardi, Isra­ele non può accettare un'immensa in­vasione di nipoti dei nipoti, pensa se gli indiani e i pakistani facessero lo stesso. Devi commensurare la richie­sta di terra al buon senso: finché Ha­mas spara missili, non puoi chiedere confini a ridosso dell'aeroporto inter­nazionale. Non far balenare il ricono­scimento dell'Onu se non si ubbidisce alle vostre richieste: è un ricatto. Un po’ di buon senso, auguri».
E a Bibi: «Si dice sempre che la de­stra può condurre a compromessi im­possibili per la sinistra. Begin fece la pace con Sadat. Tu vuoi passare alla storia come colui che consegna a Israe­le maggiore sicurezza, la Siria e l'Iran premono, qualche passo con i palesti­nesi sarebbe una rassicurazione. So che sei assediato dalla critica di quelli che pensano che Abu Mazen punti al­la scomparsa di Israele. Ma lo sai: se di­ci, come hai detto 'sono per due Stati' subito lo spazio alla tua destra viene oc­cupato. Non te ne curare, vai avanti, ve­di se i palestinesi vengono al tavolo. Il rilascio dei prigionieri è molto impor­tante per loro, è difficile ma l'hai fatto
per Shalit, sai come affrontarlo. Gli in­sediamenti sono la grande precondi­zione: un blocco delle costruzioni pub­bliche proclamato pubblicamente cambierebbe le cose. Se vuoi l'amici­zia degli Usa, che a causa dell'Iran è im­portante, procedi. Hai ragione quan­do dici che non rischierai la vita dei tuoi cittadini: te lo dico perché so cos'è stata l'Intifada. Mi sono accorto che quando si spinge troppo verso un ac­cordo le trattative diventano violenza.
Decelera, ma vai avanti. Come scrive Alessandro Manzoni in spagnolo, 'adelante con juicio'. Mi raccoman­do: insisti molto di più sull'insegna­mento dell'odio, il mondo non ne sa niente. Quello, secondo me è il vero ostacolo. All'Onu, vi daremo una ma­no. Mi dispiace che l'ultima volta ci sia­mo tirati indietro, Monti era molto confuso sull'argomento, io no».
Chissà, forse glielo dice.
www.fiammanirenstein.com

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Sarà un referendum a decidere sulla futura pace con i palestinesi "


Davide Frattini                Bibi Netanyahu

GERUSALEMME — L’ultimo incontro è durato sette ore, fino alle quattro del mattino. Benjamin Netanyahu ha visto John Kerry tre volte da giovedì e ieri. Il segretario di Stato americano è rimbalzato tra gli israeliani e i palestinesi, Gerusalemme-Ramallah (e ritorno). Sta premendo perché ripartano i negoziati di pace fermi da tre anni, prima di andarsene annuncia «progressi», ammette: non c’è stata una svolta.

A tarda sera, dall’ufficio del primo ministro israeliano esce John McCain, il senatore americano repubblicano coinvolto nelle questioni mediorientali, ed entra l’assistente con il vassoio: panino alla carne da insaporire con la salsa di tabasco. Il Likud, il partito conservatore del premier, ha appena nominato i nuovi capi e si è spostato più a destra. Tra i favoriti — non di Netanyahu — c’è Danny Danon, viceministro della Difesa, contrario alla soluzione dei due Stati. Naftali Bennett, leader dei coloni e ministro dell’Economia, la pensa allo stesso modo: «Il progetto di fondare una nazione palestinese sulla nostra terra è fallito».

Con il nuovo mandato ottenuto alle elezioni di gennaio, Netanyahu è diventato il politico che ha totalizzato più anni sulla poltrona di premier dai tempi di David Ben-Gurion. Prova a rintuzzare le voci dissidenti nel governo che potrebbero disturbare le orecchie di Kerry: «Abbiamo un sistema parlamentare — risponde — è normale che visioni e opinioni diverse vengano espresse. Alla fine è il primo ministro che detta la linea in politica estera e se raggiungeremo un accordo di pace, lo sottoporrò a referendum popolare. Saranno gli israeliani a decidere su una questione di portata storica».

Un ministro del suo governo ha detto al quotidiano Haaretz: se verrà raggiunta un’intesa, Netanyahu è pronto al ritiro dal 90 per cento della Cisgiordania e a evacuare numerosi insediamenti.

«È l’opinione di quel ministro, non so neppure chi sia, nell’articolo era anonimo. In questo momento non siamo concentrati sulla fine dei negoziati ma sul loro inizio. La cosa più semplice da fare è rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono la ripresa del dialogo. Gli sforzi di Kerry vanno sostenuti: se dovesse decidere di piantare una tenda a metà strada tra il mio ufficio a Gerusalemme e quello di Abu Mazen a Ramallah, ci entrerei immediatamente e ci resterei fino a quando non troviamo una soluzione al conflitto».

I palestinesi ripetono che prima di rilanciare le trattative il suo governo deve fermare le costruzioni nelle colonie in Cisgiordania. Proprio in questi giorni il ministero dell’Edilizia sta pianificando 930 nuove unità ad Har Homa, nella parte araba di Gerusalemme.

«Non abbiamo cambiato la nostra linea di condotta: crediamo che la questione degli insediamenti vada discussa assieme ad altre durante i negoziati. La gente si focalizza sugli insediamenti per le ragioni sbagliate, non sono la causa del conflitto. Le comunità ebraiche venivano bersagliate quando lo Stato israeliano non era neppure nato e lo Stato israeliano è stato attaccato quando non esisteva neppure un insediamento. Qual era il propulsore del conflitto allora? Lo stesso motore che lo muove adesso: il rifiuto di riconoscere lo Stato d’Israele, dentro qualunque confine. Otto anni fa abbiamo lasciato la Striscia di Gaza, abbiamo sradicato gli insediamenti e i 10 mila israeliani che ci vivevano, abbiamo lasciato ogni centimetro quadrato. Quella mossa ci ha portato la pace? No, i razzi continuano a essere sparati da Gaza. Quando chiediamo ai palestinesi: perché lanciate i missili? Rispondono: per liberare Tel Aviv. La vera origine dello scontro è la volontà di non riconoscere lo Stato ebraico».

Anche da parte di questa leadership palestinese?

«La società palestinese è divisa in due. Una parte, quella sotto il dominio di Hamas a Gaza, invoca apertamente la distruzione di Israele e utilizza il terrorismo per quello scopo. L’Autorità palestinese a Ramallah, guidata dal presidente Abu Mazen, non pratica il terrorismo ma evita di affrontare l’altra metà a testa bassa. Abu Mazen si rifiuta di proclamare che riconoscerà uno Stato ebraico. Spero cambierà idea. Voglio precisare: non è una precondizione per i negoziati. Ma credo sia impossibile porre fine al conflitto senza un reciproco riconoscimento: da parte israeliana di uno Stato per i palestinesi, da parte loro di Israele come la nazione del popolo ebraico».

Sta dicendo che gli unici a porre condizioni per far ripartire le trattative sono i palestinesi?

«È così, noi non ne abbiamo espresse. Abbiamo le nostre idee su come l’intesa dovrebbe strutturarsi e siamo pronti a presentarle. Dovrebbero farlo anche i palestinesi. L’unico modo di trovare un accordo è cominciare a discuterne».

Considera il presidente Abu Mazen un interlocutore serio?

«Spero lo sia, spero rimuova le sue precondizioni e parli con me. Sarebbe nell’interesse della pace e sono convinto anche nell’interesse dei palestinesi».

Dopo le elezioni in Iran, Emma Bonino, il ministro degli Esteri italiano,ha detto: «Confidiamo che con il nuovo governo del presidente Hassan Rohani sia possibile lavorare allo sviluppo delle relazioni bilaterali e avviare una stagione di dialogo costruttivo tra Teheran e la comunità internazionale».

«Non ci sono dubbi che le elezioni abbiano espresso una profonda ostilità del popolo iraniano verso il regime, prima di tutto a causa delle difficoltà economiche e anche per la mancanza di libertà. Ma non credo sia avvenuto il profondo cambiamento che gli iraniani desiderano: vorrebbero sbarazzarsi di tutto il regime. La figura che continua a governare l’Iran, a guidare i suoi progetti atomici e la sua strategia di terrorismo internazionale è Khamenei. Rohani è parte di questo sistema, è stato il capo dei negoziati sul nucleare e il cambiamento che porta è nello stile non nella sostanza. Nel 2004 ha raccontato di aver usato l’inganno con gli occidentali (una faccia sorridente, un atteggiamento meno aggressivo) per permettere al programma nucleare di progredire. Questo è quello che scrive: “Mentre stavamo parlando con gli europei a Teheran, installavamo le apparecchiature nella centrale di Isfahan. Aver creato un’atmosfera tranquilla ci ha permesso di completare i lavori”».

Le sanzioni stanno funzionando?

«Rohani resta fedele al progetto atomico: vuole farlo avanzare. L’embargo non va ammorbidito, anzi va rafforzato. Le richieste devono essere presentate all’Iran molto chiaramente: stop all’arricchimento di materiale nucleare, rimozione dal Paese di tutto l’uranio arricchito, smantellamento della centrale nucleare illecita a Qom. L’Iran dev’essere giudicato per quello che fa, non per quello che dice».

Oggi lei incontra Enrico Letta, il primo ministro italiano, gli chiederà di appoggiare l’inserimento di Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’Unione Europea?

«Certamente. Se Hezbollah non è un gruppo terrorista, allora non so chi lo sia. Uccidono ovunque, anche su territorio europeo, come in Bulgaria. Controllano una rete internazionale terrorista assieme all’Iran. Adesso stanno massacrando i civili in Siria per conto di Bashar Assad. L’unico modo di combattere il terrorismo è chiamarlo con il suo nome per togliergli qualunque tipo di immunità, anche morale».

L’Egitto è di nuovo nel caos.

«Come tutti siamo preoccupati dalla situazione. Per trent’anni abbiamo avuto un’ancora di pace e stabilità in Medio Oriente rappresentata dall’accordo di pace tra Israele ed Egitto. Speriamo che quell’intesa sia mantenuta. Se guardiamo alla vasta striscia di terra che va dall’Oceano Atlantico al Pakistan, ci rendiamo conto che c’è un solo Stato moderno, pluralistico e democratico: Israele. Vorremmo che ne esistessero di più qua attorno, per ora non purtroppo non è così».

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