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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Libero Rassegna Stampa
13.06.2013 Turchia: Erdogan continua la repressione delle proteste
commenti di Antonio Ferrari, Carlo Panella, Roberto Tottoli

Testata:Corriere della Sera - Libero
Autore: Antonio Ferrari - Roberto Tottoli - Carlo Panella
Titolo: «Così il modello turco è andato in crisi - Europa e Usa, il trionfo dell’impotenza - La folla araba è lontana. Più vicini ai casi europei»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/06/2013, a pag. 15, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Così il modello turco è andato in crisi ", l'articolo di Roberto Tottoli dal titolo " Europa e Usa, il trionfo dell’impotenza ". Da LIBERO, a pag. 18, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " La folla araba è lontana. Più vicini ai casi europei ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Così il modello turco è andato in crisi "


Antonio Ferrari               Recep Tayyip Erdogan

Nessun leader di un Paese democratico è stato mai così vincente come il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Trionfare in tre elezioni consecutive vedendo ampliarsi, invece di una fisiologica contrazione, la propria base di consenso, può ovviamente produrre pericolose vertigini, e alimentare quel senso di onnipotenza che inevitabilmente, prima o poi, si manifesta. In verità, per il premier, la convinzione di essere praticamente invincibile è parte del suo patrimonio genetico. Neppure il grave rischio di un male incurabile di Erdogan, ricoverato e operato due volte all'intestino, che molti mesi fa aveva fatto tremare l'intero popolo turco (opposizione compresa) e numerose cancellerie, è riuscito a smussare l'impianto caratteriale di un uomo che è nato per essere condottiero.
Sarebbe però superficiale ritenere che quanto sta accadendo in Turchia, e in particolare a Istanbul, sia il parto di un'improvvisa e imprevista reazione emotiva di giovani che pretendono maggiore libertà e non tollerano l'arroganza del potere. Oppure ritenere, come fa il capo del governo, che si tratti di minoranze violente, quasi terroristiche, adombrando complotti internazionali per danneggiare la Repubblica. In realtà basterebbe rileggere, con un pò di metodo critico, la storia di questo decennio turco apparentemente trionfale per individuare le crepe nella popolarità del leader. Pur sapendo che, dopo il grande Kemal Ataturk e forse dopo il coraggioso Turgut Ozal, Erdogan è riuscito a risollevare le sorti di un Paese che solo vent'anni fa era indietro rispetto a tutti i suoi vicini, compresa la Grecia, e persino a qualche altro Stato balcanico.
La forza dell'attuale premier, cui non manca il fiuto, è quella che oggi si mostra come il suo limite: sfidare i vincoli e l'ideologia prevalente di un Paese ingessato senza cercare mai scelte condivise. E allora: correre per diventare membro dell'Unione europea ma prontissimo, da subito, a costruirsi l'alternativa. Un'ambiguità personalizzata da due ministri: il filoeuropeo Egemen Bagis, e il filo-ottomano Ahmet Davutoglu. Dichiarare guerra aperta all'impero dell'informazione laica, rappresentato dal gruppo Dogan, indebolito da una velenosa campagna su presunte irregolarità fiscali. Incoraggiare la miriade di piccoli imprenditori dell'Anatolia a scendere nelle città e a garantirsi lucrosi contratti. Screditare un segmento delle Forze armate, accusandole di complicità con il presunto piano Ergenekon, cioè un supposto «colpo di stato» per abbattere il governo dell'AKP. Rilanciare, fin dove possibile, la tradizione islamica, che i suoi avversari interpretano come la lenta marcia verso la Sharia, la legge coranica.
Non avendo avuto, per oltre un decennio, l'obbligo di superare ostacoli insormontabili, il leader ha commesso appunto l'errore più grave. Ritenendosi il più credibile conservatore democratico, ha evitato di «diventare più accomodante con le richieste emergenti soprattutto dai settori liberali e dalla giovane ala sinistra della società, esasperando la già profonda polarizzazione sociale», scrive in un saggio per il Cipmo Valeria Giannotta, giovane e brillante ricercatrice italiana presso il dipartimento di Scienze politiche dell'Università Sabahattin Zaim di Istanbul. «Ecco perché la rivolta di piazza Taksim è l'evento cha ha fatto traboccare un contenitore già colmo».
È vero però che anche l'opposizione, da sempre prigioniera della laica retorica kemalista, ha fatto ben poco per misurarsi con i nuovi vincitori, preferendo quasi sempre una posizione aventiniana a un'energica campagna per sostenere la democratizzazione e il rispetto dei diritti umani di un Paese che, nonostante i successi, ha ancora un lungo percorso da compiere. La Turchia non è soltanto candidata a un posto nel club di Bruxelles, è un pilastro della Nato e un alleato fondamentale degli Stati Uniti nella regione. È chiaro che nessuno dei partner e degli amici più sinceri di Ankara può accettare limitazioni draconiane alla libertà di stampa: censura e autocensura di giornali e Tv sulle manifestazioni e sulle conseguenti violenze. E certo non può ascoltare con comprensione il premier e i dirigenti del suo partito che si scagliano contro il web e i social network, sostenendo che Twitter e Facebook sono «peggio di un'autobomba». Come si può accettare poi che ben 70 giornalisti siano, in questo momento, in carcere in Turchia?
Erdogan non vuol sentir ragione. Non rinuncia al ruolo di duro. Con l'asprezza domestica cerca di far dimenticare non poche decisioni poco coerenti e a volte imbarazzanti in politica estera. Ma anche l'intransigenza deve avere un limite. Altrimenti, la protesta per salvare gli alberi del Gezi Park di Istanbul, si riprodurrà in fretta, questa volta minando il terreno sul cammino di un leader che oggi alcuni descrivono come «un re quasi nudo».

LIBERO - Carlo Panella : " Europa e Usa, il trionfo dell’impotenza "


Carlo Panella                         Piazza Taksim

Il biasimo, a dir poco, nei confronti della politica muscolare di Tayyp Erdogan è universale. Espressioni come «uso eccessivo della forza» ( Catherine Ashton), termine abitualmente impiegato per criticare le azioni militare di Israele contro i palestinesi, si badi bene, sono tra le più moderate. Ashton infatti continua: «Erdogan deve mostrare adesione ai principi democratici dell’Unione Europea: Non dissimili le parole del ministro degli esteri Bonino. Angela Merkel è più pesante: «Il governo tedesco segue con grande preoccupazione la situazione in Turchia; le immagini che ci arrivano da piazza Taksim sono inquietanti: il governo turco sta inviando un messaggio sbagliato al Paese e all’Europa». Insomma, Ashton, Bonino e Merkel, non velatamente, inviano aErdogan un messaggiominaccioso: se non la smette con la repressione si chiude ogni porta per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, suo fondamentale obbiettivo strategico a medio termine. Duro anche il messaggio recapitato ad Ankara dal portavoce diBarack Obama: «Il nostro interesse è il sostegno alla libertà di espressione e di assemblea, compreso il diritto di manifestare pacificamente». Implicita la condanna per un premier turco che spregia palesemente questi diritti, seguita da un forte “avvertimento”: «Crediamo che la stabilità a lungo termine della Turchia sia meglio garantita sostenendo le libertà fondamentali e la libertà dei media». Sotto il diplomatichese è evidente il rovente messaggio implicito di Obama: se la Turchia continua nello “stile Taksim” conculca le libertà fondamentali e mette in pericolo la stessa alleanza storica con gli Usa. Il problema però è che con tutta evidenza Tayyp Erdogan - che pure sino a due settimane fa era considerato da tutti questi interlocutori tra i più saggi e moderati leader del Mediterraneo - non dà nessun peso a questi rimbrotti. Non solo, fa sempre peggio: continua a bastonare selvaggiamente imanifestanti e arriva sino a far multare pesantemente una piccola televisione, la Halk tv perché «ha trasmesso immagini di manifestazioni che sono dannose per lo sviluppo fisico emorale dei bambini e dei giovani». La ragione di questo “fin de recevoir”, di Erdogan, di questo infischiarsene -c ome si puòliberamente tradurre - delle critiche di pur autorevolissimi leader mondiali, è semplice: il premier turco sa bene che l’in - terventismo umanitario è scomparso dalla scena mondiale, essenzialmente a causa delle strategia sviluppate nell’ultima fase dell’Amministrazione Obama. Si è infatti passati dall’eccesso di umanitarismo che nel febbraio 2011 - a fronte di poche decine di morti a Bengasi e Tripoli (cinicamente gonfiati da al Jazeera) - ha scatenato Usa, Inghilterra, Francia e Nato nella guerra di Libia che da umanitaria si è poi trasformata in caccia spietata a Gheddafi (incluso suo il vergognoso linciaggio finale), alla più sorda, incredibile indifferenza. I 90.000 e passa civili siriani maciullati in due anni da Beshar al Assad in Siria hanno prodotto una montagna di condanne verbali e di esecrazioni concluse poi con un nulla di fatto. Erdogan, lo ripetiamo, non è paragonabile a Assad, ma è indubbio che in questi giorni sta dimostrando un volto autoritario -“staliniano” lo definiscono imedia turchi d’opposizione - tanto incline alla violenza quanto inquietante. Ma il mondo “multilaterale” e “dialogante volutodaBarack Obama si mostra disarmato, anche a fronte di uno stretto alleatoNato quale è la Turchia. Così come volta da due anni le spalle al macello siriano. Trionfo dell’im - potenza.

CORRIERE della SERA - Roberto Tottoli : " La folla araba è lontana. Più vicini ai casi europei "


Roberto Tottoli        Piazza Taksim          

I rapporti tra mondo arabo e turchi sono una lunga storia di vicende comuni, ma anche contrasti e divergenze, sebbene tutte sotto la bandiera dell'islam sunnita. Le vicende di questi giorni ricordano solo in apparenza le primavere arabe di oltre due anni fa, dato che se ne differenziano per molti fattori. E' una protesta nelle piazze come quelle arabe, ma le ragioni e le forze in campo sono diverse, parlano linguaggi diversi. In Turchia non solo la forza politica islamica è già al potere, ma la protesta laica, e con slogan democratici, è assai più strutturata e dà voce a un ceto medio che in Turchia esiste. Nulla di più diverso, quindi, dal mondo arabo, con cui il mondo turco ha sempre avuto un rapporto complesso.
Provenienti dalle steppe dell'Asia Centrale i turchi entrarono in contatto con il mondo arabo prima dell'anno 1000. Erano schiavi o truppe mercenarie, abili nella guerra, che nel volgere di qualche generazione irrobustirono i ranghi dei potentati dell'Impero islamico dal Mediterraneo all'India, acquisendo fin dai primi tempi ruoli sempre più importanti e raggiungendo i massimi vertici del potere in molte regioni. L'Impero ottomano ne fu l'esempio più importante. Dal 1500 conquistò, dopo i Balcani, anche tutto il mondo arabo, con cui il rapporto fu sempre conflittuale. Gli ottomani, specie in chiave anti-persiana, furono i difensori e propugnatori dell'islam sunnita, di rito hanafita, che imposero pressoché ovunque. Eppure rimasero sempre per gli arabi dei dominatori stranieri, dei conquistatori che in età moderna verranno considerati dagli stessi arabi la causa stessa dell'arretratezza rispetto all'Europa.
Per tutto il diciannovesimo secolo la modernizzazione turca avvicinò il sultanato di Istanbul a realtà come l'Egitto. Ma tale consonanza durò ben poco e si sarebbe spezzata con la rivoluzione kemalista negli anni 20 del secolo scorso. Fautore di una laicizzazione di stato, imposta con la forza e senza mediazioni, Kemal Ataurk cambiò l'alfabeto arabo della lingua, soppresse fondazioni pie e ordini sufi, proibì manifestazioni evidenti della fede e diede vita alla Turchia moderna. Questo avvenne anche sulla spinta di idee che guardavano ben oltre il mar Mediterraneo, come il panturchismo che volgeva lo sguardo alle popolazioni di etnia turca dell'Asia Centrale e aveva rapidamente sostituito precedenti ideali musulmani di unione sovranazionale.
Nel frattempo il mondo arabo viveva la stagione coloniale e le prime spinte verso l'indipendenza delle realtà nazionali che uscivano dalla dominazione europea. Nell'immaginario religioso arabo e musulmano di tutto il ventesimo secolo la Turchia divenne, a causa delle riforme kemaliste, una nazione in pratica de-islamizzata; forze e movimenti come i Fratelli musulmani o i wahhabiti l'hanno sembra additata ad esempio dei mali dell'occidentalizzazione, saldando a questi sentimenti i vecchi rancori per la dominazione ottomana. Mentre lo sguardo turco si volgeva infatti verso la comunità europea o la Nato, i paesi arabi del Mediterraneo vedevano invece con sospetto una nazione ormai solo formalmente islamica ma in cui i segni dell'islam andavano scomparendo. E che questo avvenisse nella nazione erede della potenza ottomana, alfiere dell'islam sunnita maggioritario, non faceva che approfondire le differenze e le distanze tra turchi e arabi.
L'avvento di Erdogan e la presa del potere da parte di un partito di ispirazione islamica ha cambiato radicalmente le cose. Il governo ha perseguito una sintomatica immissione di aspetti religiosi nella vita pubblica e soprattutto dopo il 2007 ha decapitato i vertici delle forze armate, l'unica forza custode dell'ortodossia kemalista e in grado di contrastare il potere politico centrale. I simboli dell'islam, più digeribili nelle realtà tradizionali locali, dove in parte si erano mantenuti, investono su un'opinione pubblica laica e una borghesia occidentalizzata sempre più forte, dando voce a una protesta più simile a quelle europee che a quelle delle primavere arabe. Grazie al successo del suo modello economico e alla re-islamizzazione, Erdogan ha perseguito una politica di riavvicinamento al mondo arabo. Ha cercato di accrescere le sue credenziali come potenza di tutto il Mediterraneo, di tornare a volgere lo sguardo verso sud e di diventare ancora una volta un esempio per tutto l'islam sunnita della regione.
Le proteste e i disordini di piazza complicano non poco questo percorso e lasciano a Erdogan il dilemma se privilegiare l'immagine reale di una Turchia democratica e con una componente laica che protesta, trattando politicamente un compromesso, oppure se mostrare al mondo islamico che il suo percorso di re-islamizzazione deve proseguire, a dispetto delle spinte diverse e le proteste diffuse. In un caso o nell'altro è indubbio che il destino dei rapporti tra Turchia e mondo arabo è destinato ancora a complicarsi e a mostrare tutte le differenze tra realtà assai diverse, seppur accomunate dall'islam sunnita.

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