Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 12/06/2013, a pag. 14, l'articolo di Marta Ottaviani dal titolo " Erdogan: tolleranza zero. E la polizia caccia i giovani da piazza Taksim ". Da LIBERO, a pag. 16, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " I destini paralleli di Assad e Erdogan ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-27, l'articolo di Bernard Guetta dal titolo " Il destino dell' islamismo ", preceduto dal nostro commento.
La STAMPA - Marta Ottaviani: " Erdogan: tolleranza zero. E la polizia caccia i giovani da piazza Taksim "


Marta Ottaviani
Lo sapevano che sarebbero arrivati. La polizia ha fatto irruzione in piazza Taksim ieri mattina presto, quando i giovani avevano iniziato a svegliarsi. Erano due giorni che Gezi Parki, l’area verde da cui è partita la più grande protesta nella storia recente della Turchia, era stata circondata da una sensazione strana, la consapevolezza che qualcosa sarebbe accaduto presto.
Per giorni il servizio d’ordine ha protetto l’area da infiltrati, gente di provenienza non chiara. Ma ieri mattina a Taksim a un certo punto la situazione è diventata ingestibile. I poliziotti in tenuta antisommossa sono arrivati in forze e all’improvviso, scortando gli idranti bianchi delle forze dell’ordine, che di rassicurante hanno solo il colore. C’è voluto poco perché alcune decine di persone iniziassero a tirare molotov contro la polizia e gli idranti, facendo passare il punto di non ritorno a una protesta che fino a questo momento aveva colpito il mondo per la sua dignità e la sua compostezza. Un’escalation che ha permesso al premier Erdogan di alzare ancor più i toni, ergendosi come uomo d’ordine e promettendo «tolleranza zero» contro i «vandali».
In poche ore sono state distrutte le strutture che fungevano da bancarelle delle varie associazioni, dove fino a lunedì sera venivano distribuiti materiale informativo e libri. Quello che fino a lunedì sera era il teatro di una protesta pacifica e organizzata nei minimi particolari, adesso è il regno del caos e dopo la manifestazione di ieri sera l’impressione è che possa solo peggiorare. Stando agli ospedali della zona, in poche ore sono arrivate 340 persone avvelenate dai gas, un attacco cardiaco, 14 traumi cranici, 11 fratture, 6 ustionati gravi da gas, attacchi di epilessia e 5 accoltellati.
La polizia è entrata in Gezi Parki solo di sfuggita e per un breve giro di ricognizione, intorno alle due del pomeriggio. Si è trattenuta nel parco non più di 15 minuti, circondata da un gruppo di giovani che urlava agli agenti di uscire. Il prefetto di Istanbul Avni Mutlu ha assicurato che a chi si trovava nell’area verde non gli sarebbe stato torto un capello. A metà pomeriggio alcuni manifestanti hanno denunciato il lancio di lacrimogeni anche all’interno del parco.
Ma l’impressione è quella di una situazione sempre più fuori controllo, dove le appartenenze di piazza non sono più ben definite come nei giorni scorsi e dove delle istituzioni non ci si può assolutamente fidare. Venti deputati dell’opposizione hanno trascorso la notte accampati nel parco per rendere più difficile un intervento della polizia contro i ragazzi che occupano l’area. Il leader del partito nazionalista Kemal Kilicdaroglu ha accusato il premier di essere «un dittatore». I manifestanti sono convinti che la polizia ha inviato agenti sulla piazza con il compito di aizzare gli animi: a lanciare le molotov sarebbero stati loro. Le forze dell’ordine hanno risposto rivelando le identità di chi ha compiuto il gesto, ma non è bastato a placare gli animi e a sedare i sospetti. Le immagini dell’agente che spara contro i manifestanti e dei 50 avvocati arrestati mentre si trovavano a palazzo di Giustizia, alcuni con ancora indosso la loro toga, sono entrate negli occhi di tutti.
Così come girano ormai voci incontrollate su molestie della polizia nei confronti delle donne, torture nelle caserme contro le persone arrestate. Fatti che riportano il Paese drammaticamente indietro nel tempo, ai tempi dei colpi di Stato militari, soprattutto quello del 1971. E dove non si salva nessuno. Ieri alcuni giornalisti stranieri sono stati aggrediti da persone che si sono presentate come appartenenti alla protesta. Li hanno accusati di aver ignorato quello che era successo in Turchia per 30 anni. Potevano essere chiunque, infiltrati dei servizi o appartenenti a gruppi eversivi, che hanno tutto l’interesse a mettere le proteste in cattiva luce.
Erdogan sta sfruttando la situazione per spaccare la piazza e il Paese. Sono giorni che il primo ministro avvisa che la pazienza dell’esecutivo «è finita» e lo sgombero di piazza Taksim di ieri arriva quasi come l’ultimo avvertimento prima del colpo di grazia a Gezi Parki. Il premier ha distinto con forza fra una Turchia che costruisce, quella sua e del suo partito, e una che distrugge, riferimento fin troppo chiaro alla piazza, che il capo di governo è sempre più intenzionato a fare passare come un gruppo di delinquenti, proprio oggi che ne dovrebbe incontrare una delegazione.
Se l’è presa con tutti Erdogan ieri, anche con la stampa straniera, accusata di aver organizzato un «attacco coordinato contro la Turchia», che con lui «ha acquisito diritti e libertà impensabili 10 anni fa». Un cameraman della Cnn ha denunciato di essere stato preso a calci e pugni dalle polizia. I toni del premier sono quelli di chi, nonostante il pesante calo dei consensi nei sondaggi, non intende arretrare di un millimetro, pronto a sopprimere una protesta che per la prima volta ne ha messo in dubbio il primato. È una lotta a chi resiste di più. E mentre ieri sera calavano le tenebre su piazza Taksim altra gente arrivava a sfidare la polizia. Ricominciavano gli scontri, e il braccio di ferro fra le due Turchie.
LIBERO - Carlo Panella : " I destini paralleli di Assad e Erdogan "


Carlo Panella Recep Erdogan con Bashar Al Assad (foto di archivio)
Il dittatore siriano Bashar al Assad ha trovato il tempo, tra un massacro e l’altro di civili, di prendere in giro il premier turcoTayyip Erdogan protestando per il modo feroce con cui la polizia turca ha represso il movimento di Gezi Park. Parole grottesche, quelle di un capo del regime siriano che osa parlare di rispetto della democrazia dopo che le sue forze speciali hanno ucciso 90.000 cittadini siriani e si accingono ora ad un nuovo massacro ad Aleppo. Diversissimi, senza alcun punto di contatto - anche se per 5 anni alleati- il siriano Beshar al Assad e il turco Tayyip Erdogan sono al vertice l’uno della feroce dittatura quarantennale di Damasco, instaurata da un golpe militare, l’altro dell’uni - ca democrazia consolidata e di lunga storia del mondo islamico ed è al potere non per la forza, ma legittimato dal 50%dei voti democraticamente espressi nel 2011. Ma l’uno e l’altro stanno dimostrando una caratteristica comune: rispondono alle contraddizioni sociali e politiche senza sapere percorrere la strada delle riforme e delle mediazioni, ma basandosi essenzialmente sull’uso della forza, dipingendo gli avversari come «terroristi e mestatori«. Certo, il pugno di ferro di Assad che insanguina le strade siriane - e che distrugge letteralmente con l’aviazione e i carri armati le stesse città - non sono paragonabili alla violenza cieca che dispiega la polizia turca a piazza Taksim e altrove in Turchia. Ma il nodo politico di fondo è simile: un autoritarismopolitico che innerva tutto ilmondopolitico arabo-musulmano. Assad, va detto, è l’erede di un movimento, il Baath, che si formò negli anni ’30 del novecento in aperta e rivendicata imitazione delnazismo:«Leggevamo il Mein Kampf di Hitler e ne eravamo entusiasti», ricordava il fondatoredel Baath, Michel Aflaq. Erdogan, invece, ha fondato un partito islamista il Akpche sostiene di rispettare il principio della laicità dello Stato e che è stato legittimato per tre volte da un maggioritario e indiscutibile voto popolare. Ma l’Islam politico, che permea anche il Baath che si vuole laico («Il nazionalismo arabo è il corpo, ma la sua anima è l’Islam», diceva Aflaq), trascina ora anche il democratico Erdogan verso una china autoritaria pericolosa. Per di più, i due, dal 2005 al 2011 sono stati “storici alleati”, nel tentativo di pacificare le tensioni tra i due paesi che avevano una storia che ha le sue radici nell’Impero Ottomano e nel novecento (la Siria è sempre stata alleata di Mosca, la Turchia di Washington ed è membro della Nato). Ma l’alleanza si ruppe nel 2012 quando Erdogan decise - a ragione - di schierarsi a fianco dei manifestanti che combattevano il regime dell’ex “storico amico”, ospitando anche in Turchia, a ridosso del confine siriano, la Free Syrian Army, l’esercito dei disertori siriani ribelli e armandolo. Da due anni, dunque, Erdogan ed Assad si contrastano in ogni modo, ma inaspettatamente, proprio nel momento in cui Assad iniziava a riuscire schiacciare le forze rivoluzionarie, Erdogan è stato azzoppato dalla rivolta di piazza Taksim.Di colpo, il suo grande prestigio personale nel Mediterraneo e nei confronti degli Usa - che lo considerano l’alleato più prezioso in Medio Oriente- si è sbriciolato. Il fatto è che Assad e Erdogan hanno le loro radici nell’aspetto jihadista che permea l’Islam politico contemporaneo. Jihadismo che nonè solo - lo è anche - sinonimo di terrorismo, ma che è una concezione della politica basata non sulla mediazione e sul compromesso, ma sulla sopraffazione dell’avversario. Assad è un jihadista criminale e sanguinario, Erdogan si rivela un jihadista democratico - sinora - anche se assolutamente autoritario. Una assonanza che riporta alla dimensione culturale e politica della storia dell’Islam, dalla pòlis fondata alla Medina da Maometto a oggi. L’unica speranza, per quanto riguarda la Turchia, è che il jihadismodi Erdogantrovi un freno dentro il suo stesso partito islamista. A oggi è infatti purtroppo assodato che non troverà un freno nei partiti turchi laici, un tempo egemoni, ma oggi marginali.
La REPUBBLICA - Bernard Guetta : " Il destino dell' islamismo "


Bernard Guetta
L'articolo è un esempio illuminante di quanto sia possibile non comprendere il mondo islamico.
Secondo Guetta il jihadismo sarebbe in 'crisi'. Basta guardare che cosa succedei nei Paesi islamici. Stanno forse trasformandosi in democrazie? Egitto, Tunisia, Libia, Siria, Iran, Arabia Saudita,...il modello islamista sarebbe in declino? Diciamo piuttosto che si manifesta per quello che è.
Ecco il pezzo:
Recep Erdogan ha fatto la sua scelta contro la Turchia. Facendo evacuare, ieri, piazzaTaksim, e rispondendo con la forza alla rivolta pacifica delle giovani generazioni che respingono in massa il suo autoritarismo e puritanesimo. 1 primo ministro turco ha preferito il rischio di aggravare la divisione del suo Paese a quello di deludere i duri dell'Akp, il partito islamo-conservatore da lui portato al potere tredici anni fa. In tal modo ha demolito una volta per tutte il relativo consenso di cui godeva grazie ai suoi successi economici. Si apre così in Turchia una nuova pagina politica; ma al di là dei suoi confini, in questa crisi è in gioco la sorte dell'islamismo. All'inizio della sua lunga storia, nell'Egitto degli Anni 20, l'islamismo era un movimento non violento fondato da un religiosissimo insegnante, con l'obiettivo di combattere la laicità europea e l'imitazione dell'Occidente. Era convinto che nessuna delle ideologie europee, di destra o di sinistra, avrebbe consentito all'Islam di ritrovare la perduta grandezza; e che il rinascimento dei mondo arabo dovesse passare per un ritorno alla sua identità religiosa. In sintesi, si trattava di contrapporre all'Occidente la riaffermazione di una religione capace di cementare l'unità dei credenti, in un panarabismo senza altri confini che quelli della vera fede. Quest'ambizione ebbe un tale successo che partendo da zero, alla fine della guerra i Fratelli musulmani egiziani contavano più di 200.000 militanti. La loro influenza si era estesa a tutto il Medio Oriente. Tra le forze politiche pana-rabe, erano i più coerenti; ma il loro programma, a fronte di un così rapido progresso e delle grandi attese suscitate, non era più all'altezza della potenza internazionale che ormai rappresentavano. Come orientarsi? Allearsi con gli Stati Uniti contro il comunismo? Perseverare nel rifiuto della violenza contro gli dell'islamismo Stati laici nati dalla decolonizzazione, che li combattevano dopo il fallito tentativo di integrarli? Brandire rivendicazioni democratiche contro quelle dittature, o arroccarsi nel rifiuto della democrazia, convinti come sono che il potere da instaurare sia quello di Dio, e non del popolo? I Fratelli non hanno risposte chiare a queste domande. Sono esitanti, e al tempo stesso rafforzati dalla repressione nei loro confronti, quando quattro eventi di vasta portata mutano radicalmente le prospettive dell'islamismo. In primo luogo, il clero iraniano confisca la Rivoluzione democratica che aveva rovesciato lo scià. È lo sciismo, l'altra grande religione dell'islam, a realizzare il programma dei sunniti - cioè dei Fratelli musulmani - creando una teocrazia che seduce anche nel mondo arabo, esporta la sua rivoluzione a colpi di attentati e lancia una sfida strategica, oltre che agli Stati sunniti, agli stessi Fratelli, inventori dell'islamismo. In secondo luogo, Al Qaida, «la rete» nata nei ranghi delle brigate internazionali dell'islam organizzate a suo tempo dagli Stati Uniti, dal Pakistan e dall'Arabia Saudita per contrastare l'Urss in Afganistan, dichiara guerra all'Occidente e ai suoi alleatiarabi. Il sangue scorre a fiumi, innanzitutto nelle terre dell' Islam. Trasformato in jihadismo assassino daOsama Bin Laden, l'islamismo suscita repulsione. E i Fratelli, benché non implicati, subiscono una repressione crescente, soprattutto dopo l'11 settembre. Terzo: alla fine degliAnni 90 gli islamisti turchi rompono con la violenza e aderiscono alla democrazia, grazie alla quale accedono al potere nel 2002; da allora sono costantemente rieletti e presiedono, in alleanza col padronato, alla spettacolare crescita economica della Turchia. È il «modello turco », che affascina i Fratelli per il suo successo, ma al tempo stesso li divide perché ha accettato la laicità. Infine, le primavere arabe, frutto delle tensioni sociali e della rivolta di una gioventù urbana che aspira alla libertà: un movimento che non deve nulla ai Fratelli, i quali però se ne avvantaggiano, vincendo le prime elezioni libere celebrate da allora- dato che oggi le società arabe sono in maggioranza tradizionaliste e religiose. Eppure, benché i Fratelli siano al governo in Egitto e in Tunisia, l'islamismo è sempre più in affanno, in tutte le sue versioni. Quasi ovunque sconfitto, il jihadismo è in declino. La teocrazia iraniana sopravvive solo usando la forza, contro una popolazione con un alto livello di istruzione, che la respinge massicciamente. Al Cairo come a Tunisi, l'esercizio del potere logora i Fratelli, sempre più divisi tra chi ha optato convintamente per il modello turco, e chi lo considerava solo come una via traversa. Nulla più regge in questa crisi, che ha raggiunto ormai anche la Turchia. Divenuti «islamo-conservatori», gli islamisti dell'Akp sono oggi divisi in due correnti la cui convivenza appare sempre più difficile. Gli uni si propongono di ricentrare questo partito liberale e puritano per farne una formazione di lungo corso, sull'esempio delle democrazie cristiane europee. Gli altri, Recep Erdogan in testa, vorrebbero invece riaffermare la loro identità religiosa re,-islamizzando la società, e instaurando un ordine morale che almeno metà dei cittadini turchi rifiuta assolutamente. Credendosi immune dalle contestazioni in ragione del notevole miglioramento del livello di vita dal 2002 ad oggi, Recep Erdogan si era lanciato troppo avanti, e con troppa fretta, in questa direzione. E ha suscitato così le spettacolari manifestazioni contro una destra dai sentori ottocenteschi. Quali che siano gli sbocchi di questa prova di forza, il modello turco, speranza degli islamisti, si sta incrinando.
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