lunedi` 12 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
03.06.2013 Turchia: una rivolta contro l'islamizzazione strisciante di Erdogan
cronaca e intervista a Francesco Giavazzi di Monica Ricci Sargentini. Commento di Gilles Kepel

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Monica Ricci Sargentini - Gilles Kepel
Titolo: «Si infiamma Ankara. I giovani non lasciano la piazza di Istanbul - Una rivolta contro l'islamizzazione strisciante»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/06/2013, a pag. 12, gli articoli di Monica Ricci Sargentini titolati " Si infiamma Ankara. I giovani non lasciano la piazza di Istanbul " e " Una rivolta contro l'islamizzazione strisciante ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-13, l'articolo di Gilles Kepel dal titolo " La primavera di Istanbul ", preceduto dal nostro commento.
Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Monica Ricci Sargentini : " Si infiamma Ankara. I giovani non lasciano la piazza di Istanbul "


Monica Ricci Sargentini

Mentre nelle piazze di molte città turche continuano gli scontri tra manifestanti e polizia, le tv del Paese trasmettono senza sosta le dichiarazioni del primo ministro: ieri eravamo al quarto discorso in diretta tv in sole 36 ore. Recep Tayyip Erdogan, al potere da un decennio, non sembra affatto accomodante verso la protesta: chiama i manifestanti «saccheggiatori»; difende la legge contro gli alcolici «sto solo cercando di proteggere i giovani — dice — chiunque beve è un alcolizzato»; accusa Twitter di essere «la peggior minaccia per la società perché veicola bugie» e l'opposizione di manipolare l'opinione pubblica «per meri fini politici»; assicura che al posto del parco Gezi a piazza Taksim sorgerà una moschea, «non chiederò certo il permesso all'opposizione o a una manciata di saccheggiatori».
Le parole del premier, però, non fermano la folla. Ieri piazza Taksim, un simbolo del Paese laico e cosmopolita, appariva tranquilla ma non certo spenta: migliaia di persone la riempivano intonando slogan contro il premier, sventolando bandiere turche, mostrando ritratti del fondatore della patria, Atatürk, ed esibendo bottiglie di birra. Ma gli scontri sono proseguiti nel vicino quartiere di Besiktas dove la polizia nella notte ha usato i cannoni ad acqua e i gas lacrimogeni per tenere lontano la folla dagli uffici del premier. In segno di appoggio ai manifestanti le macchine suonavano i clacson e dalle finestre la gente sbatteva pentole e padelle. Stesse scene ad Ankara in piazza Kizilay, a Smirne e ad Adana, la terza e la quarta città del Paese. Ieri Amnesty International è tornata a biasimare il comportamento delle forze dell'ordine a piazza Taksim: «Anche la nostra sede è stata raggiunta dai fumi dei lacrimogeni — ha detto il portavoce dell'organizzazione in Italia, Riccardo Noury — decine di feriti, tra cui alcuni bambini, sono stati curati dai nostri volontari». Le persone arrestate, circa 1.750 per il ministro degli Interni Muammer Güler, non sono state trattate con umanità: «I manifestanti fermati — ha aggiunto Noury — sono stati tenuti anche 12 ore nei blindati della polizia senza acqua, cibo e senza servizi igienici». Amnesty ieri aveva parlato di due morti e cinque persone in fin di vita ma la notizia non è stata confermata: «Pretendiamo dal ministero della Sanità turco informazioni precise sul numero di persone rimaste ferite».
Per Erdogan è il momento più critico da quando è salito al potere nel 2002. Lo riconosce anche il quotidiano Zaman, considerato vicino al governo. «Nulla sarà più come prima — scrive Bülent Kenes —. Ora l'esecutivo ha davanti a sé due strade: o rispetta le sensibilità dell'opinione pubblica e apre canali di comunicazione o diventa repressivo e tirannico». Un altro analista politico del giornale, Sule Kulu, sostiene che il premier «si è sparato una pallottola in un piede creando una nuova opposizione, formata da diversi settori della popolazione, anche da quelli che lo hanno appoggiato pienamente in passato». «Erdogan non è più onnipotente», è la constatazione di Murat Yetkin sull'Hurriyet, uno dei quotidiani più diffusi del Paese, che spesso si è scontrato con il governo. Ora bisognerà vedere come l'opposizione gestirà la protesta. Finora il leader del Partito repubblicano del popolo (Chp), Kemal Kiliçdaroglu, è stato abile nel non farsi identificare come il leader del movimento del parco. Anzi i suoi uomini hanno negato di aver orchestrato la rivolta: «Le persone che scendono in piazza in tutta la Turchia — ha detto Mehmet Akif Hamzacebi, un vecchio esponente del Chp — provengono da tutte le forze politiche. Invece di dare a noi la colpa, Erdogan farebbe meglio a trarre una lezione dall'accaduto».

CORRIERE della SERA - Monica Ricci Sargentini : " Una rivolta contro l'islamizzazione strisciante "


Francesco Giavazzi              Recep Erdogan

«Ci sono mille ragioni per cui finora non abbiamo voluto la Turchia nell'Europa, però chiediamoci veramente come sarebbe l'Unione Europea se avesse vicino un Paese che assomiglia all'Iran». Francesco Giavazzi, professore di Economia alla Bocconi ed editorialista del Corriere, è arrivato a Istanbul sabato scorso nel mezzo della protesta contro il governo Erdogan: si è recato in piazza Taksim, ha parlato con la gente che manifestava ed è rimasto impressionato dall'atmosfera che si respira nel Paese. «Di sicuro — dice al telefono — quello che sta succedendo non ha nulla a che fare con il parco Gezi e con gli alberi. Qui se uno si guarda in giro vede tante donne, anche anziane, che ce l'hanno con il primo ministro per il suo tentativo di far diventare la Turchia uno Stato islamico».
L'impressione è che Erdogan stia diventando proprio come Putin, un autocrate insofferente: «La gente di questo se ne accorge. Ho visto ragazzi che vanno in giro con le lattine di birra per sfidare il divieto sull'alcol e ragazze che mostrano il capo scoperto in segno di sfida. Ma come? La Costituzione voluta da Atatürk vietava il velo in ufficio e ora diventa quasi un obbligo? Molte donne mi hanno detto che a scuola costringono le bambine a indossarlo».
Anche negli ambienti universitari c'è molta preoccupazione per il futuro. Giavazzi in questi giorni terrà delle lezioni di politica fiscale alla Koç University: «Mi hanno detto — racconta — che Erdogan preme per diventare il nuovo sultano del Medio Oriente, che insiste con gli americani perché entrino in Siria. Il problema è che quando un Paese cresce economicamente la gente è pronta a chiudere gli occhi su molte cose ma le ultime decisioni hanno un po' passato il limite».
Secondo i sondaggi Erdogan ha ancora fra il 40% e il 50% delle intenzioni di voto. Ma il suo elettorato non è monolitico. Ci sono i religiosi, le grandi masse dell'Anatolia cui il governo islamico ha ridato orgoglio e parola, ma c'è anche una fetta di elettori che lo vota perché dal 2002 ha dato stabilità al Paese, triplicato il reddito pro capite, fatto della Turchia la 17esima economia mondiale. «Queste persone — dice Giavazzi — non sono pronte a rinunciare alla laicità per una Repubblica islamica. È interessante vedere che cosa accade all'élite perché finora ha accettato di avere un Paese un po' più musulmano in cambio di buoni affari ma oggi non ci sta più e manda le figlie a studiare all'estero per non far mettere loro il velo».
Anche la crescita potrebbe essere illusoria. «Stanno costruendo dappertutto forsennatamente ma la Storia ci dice — è l'analisi del professore — che questi grandi boom immobiliari poi finiscono male se dietro non ci sono istituzioni che funzionano. È un po' quello che accade in Cina con la differenza che qui la democrazia c'è ma sempre di meno. Oggi il numero di giornalisti in prigione nel Paese è secondo solo alla Russia».
Le colpe di quanto sta accadendo sono anche dell'Europa. «Sicuramente la decisione di Bruxelles di non lasciar entrare Ankara nell'Unione o di rallentarne il processo di adesione ha messo la Turchia sulla strada dell'Islam radicale. Un ragazzo mi ha detto: se diventiamo come l'Iran sarete voi i responsabili, se ci aveste lasciato entrare nella Ue oggi saremmo un altro Paese».

La REPUBBLICA - Gilles Kepel : "La primavera di Istanbul "


Gilles Kepel

Persino Gilles Kepel, da sempre sostenitore della Turchia di Erdogan, si è reso conto che il modello della 'democrazia' turca è andato a ramengo.
Non esiste una democrazia islamica, il fatto che ora anche in Turchia ci siano proteste, ne è la conferma.

Le manifestazioni a Istanbul, Smirne e Ankara sono il primo esempio di una massiccia disobbedienza civile nei confronti del potere di Erdogan. E anche nei confronti del partito islamico Akp che dirige il Paese da più di dieci anni. Queste manifestazioni che potrebbero rappresentare l’inizio di una “primavera turca” costringono il premier a ridisegnare l’immagine e il ruolo della Turchia, tenendo conto delle sue pretese di servire come esempio “islamo-capitalista” a quei Fratelli musulmani che hanno conquistato il potere in Egitto e Tunisia. Paradossalmente, però, se per quei regimi arabi nati con le recenti rivoluzioni la Turchia è diventata il modello di sviluppo economico da imitare, le rivolte di Istanbul, Smirne e Ankara evocano le manifestazioni del Cairo contro l'autoritarismo del presidente Morsi o quelle di Tunisi dopo l’assassinio dell'avvocato laico Chokri Belaid da parte di un gruppo islamico radicale. La prosperità turca si è infatti scontrata a diversi ostacoli interni e regionali, che hanno rotto gli equilibri di quella “democrazia islamica” che predicava Erdogan, spingendo il Paese verso una deriva dittatoriale e un coinvolgimento sempre più rischioso nella guerra in Siria. Sul piano interno, ad allontanare le classi medi democratiche che avevano votato l’Akp, e a farle scendere nelle piazze, sono state sia le leggi recentemente annunciate per limitare severamente la vendita di alcol, sia la volontà di Erdogan di presentarsi nel 2014 alle elezioni presidenziali (e, una volta eletto, trasformare la costituzione in modo da gestire da solo tutto il potere). Ora, il successo dell’Akp fu provocato dal rifiuto del popolo turco dell’onnipotenza dei militari, i quali dagli inizi della repubblica, e con un guanto di ferro, avevano controllato ciò che i turchi stessi chiamano “lo Stato profondo”. A queste ragioni interne di scontento e di timore si sono aggiunti gli interrogativi sui rischi che fa correre alla Turchia un suo coinvolgimento sempre più importante nel conflitto civile che sta dilaniando la Siria e che ormai sconfina un po’ ovunque dal suo territorio. Basterebbe citare il fatto che le forze del presidente Bashar al Assad hanno effettuato più volte dei provocatori bombardamenti sul territorio turco e che l’esercito di Ankara, fino a pochi anni fa sovraequipaggiato dalla Nato, è sempre stato colto di sorpresa, fino allo schieramento sul suo confine di una batteria di missili Patriot. L a situazione è tanto più preoccupante che oggi gran parte dei generali dello Stato maggiore turco è in prigione, dove l’ha rinchiuso l’Akp per il ruolo svolto dai militari nello “Stato profondo”. La Turchia si trova confrontata a una crisi che potremmo definire di “crescita” e bisognerà vedere se riuscirà o meno a far coincidere le sue ambizioni con le realtà economiche, sociali e politiche del momento. E soprattutto se potrà mantenere la sua compattezza interna e il suo ruolo di Paese dominante tra Paesi vicini, in un ambiente regionale profondamente minacciato dal potenziale di destabilizzazione della crisi siriana. Detto ciò la Turchia è uno degli elementi chiave dell’improbabile alleanza che sostiene la rivoluzione siriana e che è composta da attori diversissimi tra loro. Tra questi si contano infatti le petro-monarchie del Golfo (all’interno delle quali c’è l’enorme conflitto tra Qatar e Arabia Saudita per il dominio del mondo arabo), le democrazie occidentali ma anche Israele. A loro si oppone il fronte dell’alleanza pro-Assad, nel quale si tengono per mano la Russia, l’Iran, parte dell’Iraq e l’Hezbollah libanese. In questo complicato scenario geopolitico, la Turchia potrebbe interpretare il ruolo del gendarme con l’intento di garantire alla regione una pax turca. Sempre che piazza Taksim non si trasformi in piazza Tahrir.

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT