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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
13.05.2013 Siria: Erdogan contro Assad. Obama dov'è ?
commento di Franco Venturini, cronaca di Redazione di Repubblica

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Franco Venturini - Redazione di Repubblica
Titolo: «E' Putin l'ultima carta di Obama per la Siria - Erdogan accusa Assad per la strage delle autobombe»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/05/2013, a pag. 1-28, l'articolo di Franco Venturini dal titolo " E' Putin l'ultima carta di Obama per la Siria ". Da REPUBBLICA, a pag. 14, l'articolo dal titolo " Erdogan accusa Assad per la strage delle autobombe ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : "E' Putin l'ultima carta di Obama per la Siria "


Franco Venturini       Vladimir Putin          Bashar al Assad

Mentre in Siria continua il massacro e una serie di attentati con autobombe semina morte appena oltre il confine turco, a Washington e nelle altre capitali d'Occidente si gioca a braccio di ferro: intervenire o non intervenire, sostenere l'opposizione o temere le sue componenti qaediste, ritenere superata la «linea rossa» delle armi chimiche oppure attendere una improbabile verifica del loro utilizzo. L'Europa è divisa come sempre, Obama tenta di prendere tempo, ma il tormento di entrambi è ormai alle corde davanti all'urgenza di una necessità politica che riguarda tutti: dopo ventisei mesi di impotenza bisogna «fare qualcosa» per porre fine alla mattanza siriana. Dopo 70.000 morti (in realtà si pensa siano molti di più), dopo cinque milioni di rifugiati tra interni e riparati all'estero, dopo chiarissimi segnali di allargamento del conflitto, chi vuole contare nel mondo non può più rimanere alla finestra. E chi conta, nel mondo, più degli Stati Uniti?
Alla dinamica classica di una superpotenza che ha paura di logorare la propria immagine e la propria influenza nella passività, Barack Obama prova a contrapporre argomenti razionali. La politica dichiarata della Casa Bianca, per cominciare, è di disimpegnarsi dalle guerre, non di farvisi coinvolgere. L'Iraq e l'Afghanistan fanno testo, la prudenza in Libia pure. E poi ci sono tre ostacoli non da poco. Primo, se l'America si muove lo deve fare in grande e con risultati sicuri (pur rimanendo escluso l'invio di truppe di terra se non per azioni di commando). Secondo, diventerà inevitabile l'elargizione di armi sofisticate (missili anti-aerei e anti-carro) ai gruppi di opposizione, i più forti e i più efficaci dei quali sono composti da potenziali futuri nemici jihadisti e qaedisti. Terzo, una partecipazione anche indiretta alla guerra civile siriana porrà gli Usa al centro della lotta sunniti-sciiti che avvolge ormai l'intera regione, anticiperà uno scontro con l'Iran che Washington ancora non vuole, e renderà molto difficile un futuro disimpegno.
Eppure l'emergenza umanitaria è diventata insostenibile. Eppure l'America non può, non può più, starsene con le mani in mano lasciando che ad aiutare i ribelli anti-Assad siano Qatar e Arabia Saudita (sunniti, appunto). Lo spazio di manovra si restringe, deve aver pensato Obama, ma una ultima carta da giocare esiste: la Russia. Il coinvolgimento di Putin, cioè, in una nuova conferenza di Ginevra sul modello di quella dello scorso giugno, con la presenza di oppositori e di governativi, avente per obbiettivo il varo prima di un cessate il fuoco e subito dopo di una fase politica transitoria. È attorno a questa comune volontà di Washington e di Mosca (la prima dall'inizio della crisi) che si sta lavorando freneticamente, è questo il progetto che traccia gli itinerari di John Kerry — la sua lunga sosta a Roma ha sottolineato il ruolo di «facilitatore» che sulla Siria e su altri contenziosi sta svolgendo l'Italia — ed è attorno a questo inedito patrocinio Obama-Putin che già si agitano scontente le opposizioni siriane e si mostrano prudenti Turchia, Qatar e Arabia Saudita.
La partita diplomatica, infatti, si annuncia difficile. Dopo tanto sangue e con tanta paura di non sopravvivere, davvero Assad e i suoi avversari saranno ancora disposti a negoziare? Chi garantisce le scelte di Putin, ora che il suo ministro Lavrov si è mostrato molto ambiguo sulla consegna a Damasco dei micidiali missili anti-aerei S-300? E soprattutto, se la sorte di Assad resta nel vago come è rimasta sin qui proprio per non riaprire i contrasti russo-americani, in che modo si eviterà che Ginevra II somigli a Ginevra I, rimasta tragicamente lettera morta?
Le speranze non vanno mai escluse e sono le nostre, ma la loro fragilità risulta evidente. Ed è chiaro anche qualcos'altro: la conferenza sponsorizzata da Stati Uniti e Russia sarà l'ultima spiaggia della prudenza di Obama. Non sarà possibile, in caso di fallimento, continuare a tergiversare, per quanto solide siano le argomentazioni sin qui sostenute dalla Casa Bianca. Se non altro Obama potrà dire di averle tentate tutte, e ricordare implicitamente che lui era contrario. Ma il volto dell'America, quello che viene visto dal resto del mondo, avrà soltanto la scelta tra forniture di armi, interventi aerei, creazione di no-fly zones, di aree-cuscinetto, di corridoi umanitari. Andrà tutto bene, perché l'importante sarà «fare qualcosa».

La REPUBBLICA - " Erdogan accusa Assad per la strage delle autobombe"


Recep Erdogan

ANKARA — È tensione altissima fra Turchia e Siria, dopo gli attentati che hanno straziato la città frontaliera di Reyhanli, uccidendo 46 persone e ferendone un centinaio. La Turchia punta il dito con la massima decisione contro il regime di Bashar Assad. «Damasco cerca di trascinarci verso uno scenario catastrofico», ha attaccato il premier turco, Recep Tayyp Erodgan. Le autorità di Ankara hanno arrestato nove cittadini turchi, accusati di avere organizzato gli attentati in collegamento con i servizi di sicurezza siriani. Ma Damasco respinge le accuse: «La Siria non ha compiuto e non avrebbe mai compiuto un atto simile, non perché non ne abbia la capacità ma perché i suoi valori non lo permettono », ha dichiarato il ministro dell’Informazione, Omran al-Zohbi. Secondo il ministro, è a Erdogan, definito «un assassino», e al suo partito che si dovrebbe chiedere di render conto dell’attacco. Damasco accusa Erdogan di aver sostenuto i miliziani qaedisti che combattono contro Assad e che, dice Zohbi, sono responsabili degli attentati. Il primo ministro turco ha comunque assicurato che «la Turchia non si farà trascinare nel pantano della guerra». «Dobbiamo mantenere il sangue freddo di fronte agli sforzi e alle provocazioni mirati a trascinarci nel pantano in Siria», ha aggiunto Erdogan, «presto o tardi chi ha attaccato la Turchia sarà chiamato a renderne conto». Il governo di Ankara sembra molto sicuro nel puntare il dito contro il regime siriano: secondo il vicepremier Besir Atalay, gli attentati sono «una provocazione per creare risentimento verso i profughi siriani». Attorno al villaggio di Reyhanli vivono 25.000 profughi siriani e alcuni di loro sono stati aggrediti dopo l’esplosione delle autobombe. Manifestanti hanno attaccato le auto siriane, sfasciandone i finestrini e chiedendo a gran voce la partenza di tutti i siriani dalla zona. Dopo l’inizio della guerra oltre confine, la Turchia ha accolto più di 300.000 rifugiati, per lo più accampati lungo i 900 chilometri della frontiera con la Siria. Anche il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu ha accusato la Siria: secondo lui, gli arrestati fanno parte di una vecchia organizzazione terroristica di ispirazione marxista, legata al regime di Assad. Il ministro si è detto certo che gli attentatori di Reyhanli siano gli stessi che hanno colpito nella cittadina siriana di Banias, una settimana fa, uccidendo 62 persone. Banias, sulla costa, è una piccola comunità sunnita, circondata da una robusta enclave alauita. Davutoglu ha anche denunciato l’inazione della comunità internazionale sul conflitto siriano: «Gli ultimi attacchi dimostrano che una scintilla si trasforma in incendio quando la comunità internazionale resta in silenzio e il Consiglio di sicurezza dell’Onu non agisce»», ha dichiarato il capo della diplomazia di Ankara.

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