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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Corriere della Sera Rassegna Stampa
10.05.2013 Afghanistan-Pakistan: tra alleanza con Obama ed elezioni
cronache di Maurizio Molinari, Francesco Battistini

Testata:La Stampa - Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari - Francesco Battistini
Titolo: «Nove basi Usa sigillano il patto Obama-Karzai - Pakistan a un voto storico. Ma Bin Laden resta un tabù»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 10/05/2013, a pag. 16, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "Nove basi Usa sigillano il patto Obama-Karzai". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Pakistan a un voto storico. Ma Bin Laden resta un tabù ".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Maurizio Molinari : "  Nove basi Usa sigillano il patto Obama-Karzai"


Maurizio Molinari, Hamid Karzai con Barack Obama

Parlando all’Università di Kabul il presidente afghano Hamid Karzai si è detto favorevole al mantenimento di nove basi americane dopo il 2014, quando Washington porrà fine alle operazioni militari iniziate nel 2001 in risposta agli attacchi dell’11 settembre. «Accettiamo di dare loro tali basi perché è nell’interesse dell’Afghanistan, quando loro saranno pronti a firmare dandoci garanzie economiche e di sicurezza, lo faremo anche noi» ha promesso Karzai, enumerando in pubblico le località dove si troveranno le installazioni: Kabul, Bagram, Mazar-iSharif, Jalalabad, Gardez, Kandahar, Shindand, Helmand ed Herat. Il passo di Karzai nasce anzitutto dalla consapevolezza che le forze regolari afghane non saranno in grado di garantire da sole la sicurezza nazionale quando le truppe Usa e Nato se ne saranno andate ma c’è dell’altro. Il presidente che ha guidato Kabul dall’indomani della caduta dei taleban si dimostra consapevole che le basi americane possono giovane all’Afghanistan su più fronti: garantendo entrate economiche, ingenti e costanti, sull’intero territorio come nessun investimento straniero riuscirebbe a fare nel breve periodo; assicurando una stabilità politica interna altrimenti in bilico in vista delle nuove presidenziali a cui proprio Karzai non si candiderà; attribuendo all’Afghanistan la possibilità di competere con il rivale Pakistan per il ruolo di alleato privilegiato di Washington nell’Asia del Sud. Se chiede in cambio «garanzie economiche e di sicurezza» è perché vuole evidenziare tali aspetti. Per la Casa Bianca di Barack Obama è l’occasione di incassare a Kabul il risultato mancato a Baghdad, dove il governo di Nuri al Maliki non ha voluto mantenere alcuna base americana. All’incrocio fra Medio Oriente e Asia Centrale, crocevia dei nuovi equilibri energetici, l’Afghanistan si ritaglia un ruolo strategico regionale che richiama alla mente quello avuto dalla Germania nel cuore dell’Europa nell’immediato Dopoguerra. L’intesa tuttavia ancora non è stata sottoscritta e dunque la prudenza è d’obbligo: restano soprattutto da conoscere gli aspetti legali del patto bilaterale e in particolare se Kabul ha accettato di garantire ai soldati americani un’immunità da procedimenti penali simile a quella prevista dagli accordi «Sofa» che tutelano le truppe di Washington schierate nei Paesi europei alleati.

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Pakistan a un voto storico. Ma Bin Laden resta un tabù "


Francesco Battistini

SULLA STRADA PER ABBOTTABAD — Osama chi? Dopo la casa, hanno raso al suolo la memoria. Il maggio di due anni fa c'era il mondo, su e giù per questo asfalto che portava all'ultimo rifugio di Bin Laden. Ora ci trovi solo un ufficiale di polizia che, venti chilometri e diciotto check-point fuori Islamabad, blocca per mezz'ora il traffico, lui a scostarsi per telefonare e noi a sudare fra gli scarichi neri dei pullman Niazi Express e gli eunuchi che vendono fazzoletti, finché non decide di tornare sui suoi passi, restituirci l'inutile pass di plastica appena rilasciato dal ministero dell'Informazione, scusarsi quasi: «Sir, serve un'autorizzazione speciale del governo per andare ad Abbottabad. E poi, sir, là non c'è più niente…». Bin Laden non c'è più: nei due mesi d'una delle campagne elettorali più spietate che il Pakistan ricordi — 110 morti e 1.185 attacchi armati, i talebani che promettono altri kamikaze, i candidati laici costretti a nascondersi, perfino il figlio dell'ex premier Gilani rapito ieri mattina mentre comiziava — in ore di talk show sulla minaccia terroristica e fra milioni d'appelli contro la violenza, non uno che ancora si chieda, e chieda al governo, che cosa ci facesse ad Abbottabad il terrorista più ricercato del mondo. Morto e cancellato: «Osama interessa all'estero, non ai pakistani — spiega Rahimullah Yusufzai, l'ultimo giornalista che riuscì a intervistarlo —. Appartiene al passato, come Benazir Bhutto e i troppi simboli che ci portiamo dietro. Queste elezioni sono diverse perché non si votano i fantasmi». Si vota domani. Ed è una serie di prime volte: in 65 anni di Pakistan e di golpe, il primo governo civile che finisce i cinque anni di mandato e si rimette al giudizio popolare; le prime elezioni che non vedono i generali sulla scena; le aree tribali, dove mogli e figlie di solito non osano nemmeno uscire di casa, figurarsi votare, che stavolta hanno in lista qualche donna; pure un paio di transessuali che si candidano a Karachi, sfidando gl'islamici più duri… Per non dire dei grandi e piccoli assenti: il boicottaggio elettorale proclamato dall'eterno generalissimo Pervez Musharraf, rientrato dall'esilio di Dubai e subito arrestato; i comizi via Skype del figlioletto della Bhutto, Bilawal, presidente del partito al governo (Ppp) e primogenito del presidente Zardari, spedito a Dubai in grande fretta pochi giorni prima che un sicario in motorino ammazzasse chi indagava sull'assassinio di mamma Benazir. Sono novità che altrove non sarebbero notizia, già molto in un Paese congelato da caste religiose, etnie inferocite e clan familiari, paralizzato dalla paura di trentacinque ammazzati alla settimana, fermato diciassette ore al giorno dai blackout elettrici e tutto l'anno da un debito greco, monitorato dagli osservatori internazionali che s'aspettano brogli e scambi (25 euro a scheda), dove i fondamentalisti si danno battaglia anche sulla toponomastica (accade a Lahore: scontri e feriti perché s'è dedicata una rotonda a un simbolo delle rivolte coloniali e non a un eroe islamico). Qualche diplomatico cita l'Italia, quando analizza le forze in campo, i protagonisti sempre gli stessi e lo scenario che si potrebbe creare: tre partiti uguali e contrari - la favorita Lega musulmana del wahabita Nawaz Sharif, non invisa ai talebani, ora all'opposizione; il Ppp ora al governo, orfano dei Bhutto e senza un vero leader, troppo chiacchierato Zardari e troppo «british» il giovane Bilawal; l'antisistema Imran Khan, l'ex playboy delle notti londinesi, feroce oppositore dei clan e dei costi della politica, precipitato da un montacarichi durante un comizio e, dopo gli spot girati dal letto d'ospedale, salito nei sondaggi - tre leader costretti al puzzle delle coalizioni e a far fronte contro crisi e attentati. «Molti sospettano che i giochi siano fatti - dice Bushra Gohar, la leader del piccolo partito liberale Anp, 700 attivisti sterminati negli attacchi fondamentalisti - avremo uno scambio alla pari: Zardari ancora presidente e Nawaz premier. Ma il problema resta la violenza sullo sfondo, la politica ambigua verso i talebani: anche Imran Khan, così filoccidentale a parole, cerca un dialogo con loro. Dicono che questo sarà il primo voto veramente democratico. Ma di che democrazia si parla? Hanno provato a uccidermi tre volte. Ho fatto campagna elettorale solo in tv o in casa di qualche amico. E mia figlia, per non piangerla, l'ho mandata all'estero».

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