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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
18.03.2013 Israele, in attesa della visita di Obama
Cronache di Davide Frattini, Bernardo Valli, Federico Rampini

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Davide Frattini - Bernardo Valli - Federico Rampini
Titolo: «Obama e Miss Israele, metti una sera a cena - Obama il quasi amico del governo di Israele - La prima volta del Presidente»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 18/03/2013, a pag. 17, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Obama e Miss Israele, metti una sera a cena ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-25, gli articoli di Bernardo Valli e Federico Rampini titolati " Obama il quasi amico del governo di Israele " e " La prima volta del Presidente ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Obama e Miss Israele, metti una sera a cena "


Davide Frattini   Yityish Aynaw, miss Israele (non era uno Stato di Apartheid?)

TEL AVIV — La sua agente starà ad aspettarla nel parcheggio come una madre al primo appuntamento della figlia, come la madre che Yityish ha sepolto in Etiopia. Hanno cercato di ottenere un secondo invito, un altro posto alla tavola più ambita, quella della cena in onore di Barack Obama allestita alla residenza di Shimon Peres, il presidente israeliano.
Più eccitata che impaurita, la ventunenne Yityish Aynaw dovrà cavarsela da sola. Prima di giovedì sera le lezioni di inglese sono intensificate, anche se non ha ancora pensato quale frase potrebbe dire al presidente americano. Che l'ha voluta inserire nella lista dei centoventi ospiti, tra ministri, ex direttori del Mossad, generali e celebrità da più tempo di lei che lo è diventata meno di un mese fa, quando è stata eletta Miss Israele, la prima ragazza di origine etiope a vincere il titolo assegnato da 63 anni (il concorso è nato due anni dopo lo Stato ebraico). «Abbiamo una storia simile — commenta —. Anche Obama ha dovuto conquistarsi tutto da solo, è stata dura per lui come è stata dura per me».
Durante le finali ha battuto le altre 19 concorrenti — ha spiegato l'organizzatrice Iris Cohen alla rivista Tablet — per l'attitudine («non era la più bella, ma quando sale sul palcoscenico non puoi non notarla, è alta quasi 1 metro e 80») e per le frasi che hanno colpito i giudici. Come eroe ha scelto Martin Luther King e all'ambasciata americana non può essere sfuggito.
Obama arriva mercoledì in Israele per un'operazione fascino, così ha chiesto di parlare agli studenti delle università invece che davanti ai parlamentari della Knesset. Non porta un piano di pace dettagliato — ripetono i portavoce della Casa Bianca — vuole rassicurare Benjamin Netanyahu di essere pronto a intervenire per impedire che l'Iran costruisca la bomba atomica. I tempi (e le linee rosse che Teheran non deve superare) restano però quelli definiti da Washington: l'obiettivo della missione è strappare al primo ministro appena reinsediato la promessa di aspettare.
Nel 2003 Yityish ha lasciato le montagne di Gondar dove i Bet Israel (Casa d'Israele) hanno sempre pregato di «poter rivedere le colline di Gerusalemme» e con il fratello ha raggiunto la nonna a Netanya, sulla costa a nord di Tel Aviv. Il padre è morto in guerra quando aveva 2 anni, la madre di malattia quando ne aveva 10. «Ho usato i soldi messi da parte durante il militare per volare ad Addis Abeba e visitare la tomba di mia mamma. Era devastata come il resto del cimitero, sono rimasta finché non l'hanno sistemata».
Nell'ufficio di Bat Cohen, la sua agente, sta appesa una foto in bianco e nero di Golda Meir, scarpe sportive e impermeabile, la prima (e ancora unica) donna a ricevere l'incarico di primo ministro proprio il 17 marzo di 44 anni fa. «La ammiro perché è stata capace di ammettere gli errori commessi durante la guerra del 1973 e di dimettersi». Da allora — sostiene Yityish — le israeliane hanno conquistato sempre di più la parità e porta come esempio il suo periodo da sergente nell'esercito: «Addestravo i maschi e tutti quelli intorno a me erano maschi, mi rispettavano e la mia squadra era tra le migliori».
Sono passati quasi trent'anni dai primi voli organizzati dai servizi segreti che hanno portato gli ebrei etiopi nel Paese. Non la disturba che ci sia voluto così tanto tempo per eleggere una reginetta e non pensa che gli israeliani siano razzisti. Nel 2006 è stato rivelato che le sacche di sangue donato dagli africani venivano gettate via per paura che fossero contaminate con il virus dell'Hiv, pochi mesi fa che le donne nei campi di transito erano state costrette a lasciarsi iniettare dosi di Depo-Provera, un contraccettivo a lungo termine.
«Anche la nostra comunità ha bisogno di aprirsi, spero che le storie come la mia aiutino a integrarci senza dimenticare chi siamo e da dove veniamo». Per questo non ha voluto cambiare il suo nome, come hanno fatto e fanno altri immigrati: Yityish in amarico vuol dire «guardare al futuro».

La REPUBBLICA - Bernardo Valli : " Obama il quasi amico del governo di Israele"


Bernardo Valli                 Bibi Netanyahu

Non manca il solito accenno alla 'questione palestinese'. L'articolo, in teoria, dovrebbe parlare del prossimo viaggio di Obama in Medio Oriente, ma non è possibile scrivere di Israele senza menzionare i palestinesi, evidentemente.
Per altro, visto l'accenno ai coloni, perché non scrivere anche del terrorismo palestinese? Su quello si glissa sempre, chissà come mai.
Ecco il pezzo:

Barack Obama non può farsi illusioni. Sa benissimo che in Israele è considerato, a memoria d’uomo, il meno amichevole dei presidenti americani. E non solo perché tra i suoi nomi c’è anche quello di Hussein. I suoi rapporti con Benyamin Netanyahu, il primo ministro appena rieletto, non potrebbero essere più freddi. Al contrario di Begin, che espresse la sua collera nei confronti di Carter in un consiglio dei ministri a porte chiuse e che poi fini col firmare gli accordi di Camp David, Netanyahu è andato a esprimere la sua aperta sfiducia in Obama negli Stati Uniti appoggiando in pubbliche manifestazioni il suo avversario, Mitt Romney, durante la campagna per la Casa Bianca dell’anno scorso. Tuttavia il presidente americano esprimerà amicizia e solidarietà allo Stato ebraico, e insisterà sull’indissolubilità del legame tra l’America e Israele, senza dimenticare la promessa di impedire all’Iran di realizzare armi nucleari. In una recente intervista a una televisione israeliana Obama ha valutato a un anno il tempo necessario a Teheran per raggiungere l’obiettivo atomico attribuito agli ayatollah. E il pronostico é risuonato a Gerusalemme come un impegno ad agire entro quella data se fosse necessario. Insomma parole di buona volontà, anche se non vincolanti, alla vigilia del viaggio. Netanyahu ricambierà esprimendo gratitudine per la comprensione americana nella recente azione israeliana contro i palestinesi di Gaza e per il contributo tecnico all’Iron Dome, lo scudo difensivo anti-razzi creato da Israele. Ci sarà insomma un momento dedicato alla liturgia, al fine di celebrare l’alleanza tra gli Stati Uniti e lo Stato ebraico, più che l’intesa politica tra la Casa Bianca e il governo israeliano. La prima, l’alleanza tra la superpotenza e il piccolo ma efficace Paese, visto come un “fortino” occidentale nel Medio Oriente insicuro, è strategicamente irrinunciabile. Ed è basata anche su sentimenti tenuti vivi dalla indimenticabile tragedia ebraica del Novecento. Né si può escludere la solidarietà per dei coloni in terra ostile, che ricordano agli americani la loro non tanto remota storia. Se non proprio inquinata, l’intesa tra chi governa a Washington e a Gerusalemme è nevrotizzata, tormentata, dalla questione palestinese. A renderla tale è la situazione in Cisgiordania, dove da quasi mezzo secolo le forze d’occupazione, militari e poliziesche, di un Paese con istituzioni e pratiche democratiche al suo interno, nega i diritti essenziali alla popolazione palestinese. I riflessi sul mondo arabo avvelenano i rapporti con la super potenza, alleata di Israele. In sintesi è il dramma di una terra contesa da due popoli. Un dramma che rifiuta il compromesso. Quindi la ragione, che, come dice Amos Oz, deve sempre condurre a valutare l’opinione del-l’altro, chiunque sia. In concreto l’interesse strategico dell’alleanza ha prevalso e prevale sull’incertezza dell’intesa politica tra Casa Bianca e governo israeliano. Dopo le pubbliche assicurazioni sulla solidità del rapporto tra i due paesi, Obama e Netanyahu arriveranno comunque a verità sgradevoli. Durante il primo mandato il presidente americano, dimenticando il promettente discorso iniziale del Cairo, si è piegato di fronte a Netanyahu, o ha schivato la sua riluttanza a far avanzare il processo di pace, e il suo rifiuto di mettere fine all’espansione delle colonie nei territori occupati, come chiesto dalla Casa Bianca. Obama non si è prodigato per smuovere quel logorante immobilismo e ha subito la disattenzione o gli sgarbi di Netanyahu. I difensori di Obama sostengono che la situazione mediorientale (l’abbandono dell’Iraq tutt’altro che pacificato, la guerra civile siriana, e l’avanzata dell’Iran verso il nucleare) ha relegato in seconda posizione la questione israelo- palestinese. Barack Obama non arriva a Gerusalemme con un nuovo piano per la coabitazione tra due Stati, quindi per la creazione di un vero Stato palestinese a fianco di quello israeliano, che resta l’obiettivo dichiarato di larga parte della società internazionale. Si limiterà a rispolverare le proposte di Clinton. Ma non troverà un terreno favorevole. A Ramallah, la provvisoria capitale dell’Autorità palestinese, dove farà una tappa importante, non incrocerà soltanto sorrisi. Gli Stati Uniti hanno tolto mezzo miliardo di dollari di aiuti dopo la promozione della Palestina a Stato osservatore all’Onu, che per Washington doveva essere raggiunta attraverso un negoziato con Israele e non con una singola candidatura. La conseguenza è che i funzionari palestinesi stentano a ricevere gli stipendi a fine mese. A Gerusalemme Obama trova un primo ministro indebolito dall’ultimo voto e con un governo non particolarmente interessato a creare uno Stato palestinese. Nel 2009 Benyamin Netanyahu dichiarò nel corso di una conferenza a Bar-Ilan, la più americana delle università israeliane, di condividere l’idea dei due Stati. Da allora non si è mai più espresso con entusiasmo in favore di quella soluzione. E due anni dopo, parlando al Congresso di Washington, disse tra gli applausi che Israele non avrebbe mai rinunciato all’intera sovranità su Gerusalemme. E questo escludeva di fatto i due Stati, poiché i palestinesi non accetterebbero mai una Palestina senza una presenza a Gerusalemme. Nel frattempo le elezioni di gennaio hanno condotto alla faticosa formazione del 33esimo governo di Israele (il terzo con Netanyahu primo ministro) in cui sono fortemente rappresentati i coloni di Cisgiordania, i più tenaci oppositori di uno Stato palestinese. Tutti i partiti che lo compongono, ad eccezione della piccola formazione di Tizpi Livni, l’ex ministro degli Esteri, non tengono in considerazione l’idea dominante fuori dai confini di Israele, e ufficialmente sostenuta da Barak Obama. Il partito di Benyamin Netanyahu (Likud), come quello dell’alleato Avigdor Liebermann (Beiteinu), sono molto più decisi dello sfuggente primo ministro nell’escludere uno Stato palestinese. In quanto al partito del giornalista Yair Lapid (Yesh Atid), grande sorpresa del voto di gennaio, otterrà i vantaggi fiscali per i suoi elettori delle classi medie, ma lascerà campo libero a Naftali Bennet (Habayit Hayehudi), fervente religioso e re dell’informatica, ma soprattutto guida dei coloni e favorevole alla loro moltiplicazione sul territorio che dovrebbe essere quello della futura Palestina. Il governo che accoglierà Barack Obama è probabilmente il più a destra nella storia di Israele. E’ dominato da ebrei askenaziti, originari dell’Europa orientale, laici, e per lo più appartenenti a classi agiate. Sono un cocktail di modernità e di intransigenza. L’idea di uno Stato unico a lungo tramontata, riemerge a sinistra e a destra, con motivazioni e interessi opposti. Gli estremisti dell’uno e dell’altro campo immaginano, sognano, uno Stato tutto musulmano, o uno Stato tutto ebraico. Entrambi gli obiettivi implicano odio, egemonia, sopraffazione. Il progetto di uno Stato unico binazionale apre la porta a progetti più elaborati. Per Barack Obama sarà facile spiegare che uno Stato binazionale sarebbe pericoloso soprattutto per Israele, tenendo conto del dinamismo demografico palestinese. Quindi la soluzione dei due Stati, con tutte le garanzie per gli uni e per gli altri, resta la più praticabile. Ostacoli enormi, come lo smantellamento delle colonie israeliane in territorio palestinese, potrebbero essere superati, mettendo quelle colonie sotto la sovranità palestinese ma con giurisdizioni particolari. Sono opzioni approssimative, ispirate da un irrilevante desiderio di imporre la ragione. Tanto non troveranno spazio nei giorni di Obama a Gerusalemme e a Ramallah. Dove prevalgono l’intransigenza, la frustrazione e la diffidenza. Ma il presidente americano deve affrontare una tragedia che finora ha trascurato e che è una polveriera in attesa di esplodere.

La REPUBBLICA - Federico Rampini : " La prima volta del Presidente "


Federico Rampini, Barack Obama

QUANDO Barack Obama sale sull’Air Force One domani sera, per la prima volta da quando lui è alla Casa Bianca i suoi piloti avranno come destinazione l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Nel primo mandato Obama fece un solo viaggio in quell’area: Cairo, giugno 2009. «Strana coppia», li definisce l’esperto di Medio Oriente Aaron David Miller del Woodrow Wilson International Center di Washington. «Ciascuno di loro — sostiene — ha tifato per la sconfitta dell’altro ». Nel caso di Netanyahu il tifo fu evidente a favore di Mitt Romney nell’elezione presidenziale del 2012. Oggi Obama è due volte più forte: perché in carica per altri quattro anni, e perché in un secondo mandato non ha bisogno di cercare voti tra le varie constituency. Mentre Netanyahu è indebolito dalle sue elezioni. A questo si aggiunge un “sisma geo-economico” di cui ancora si stenta a capire la portata. L’America è alle soglie dell’autosufficienza energetica, ha quasi smesso di importare petrolio dal Medio Oriente, ben presto le sue risorse supereranno quelle dell’Arabia saudita e gli Usa diventeranno esportatore netto. Questo non significa che l’America voglia ritirarsi: il ruolo di leader mondiale le impone di restare l’arbitro di ultima istanza in Medio Oriente, anche se a dipendere da quell’area per il petrolio saranno solo gli alleati europei, la Cina e l’India. Ma il fatto che l’America non dipenda più dal greggio arabo è una rivoluzione, dalle conseguenze profonde sul suo ruolo. Il basso profilo di Obama alla sua prima visita presidenziale in Medio Oriente provoca ironia. «E’ il primo presidente a fare solo turismo in Israele?» si è chiesto il columnist del New York Times, Thomas Friedman. L’itinerario include incontri col presidente palestinese Abu Mazen e ad Amman col re di Giordania, ma ha delle omissioni significative: a Gerusalemme non andrà alla Knesset (il Parlamento) preferendo parlare in un luogo meno politico come il centro congressi; visiterà la chiesa della Natività a Betlemme ma non il Muro del Pianto né la moschea Al Aqsa. Tappa obbligata il memoriale dell’Olocausto, Yad Vashem. Al suo arrivo all’aeroporto di Tel Aviv passerà in ispezione una batteria anti-missili, prova del concreto sostegno dell’Amministrazione Obama all’Iron Dome (“cupola d’acciaio”), la difesa d’Israele contro i missili di Hamas, e quelli che un giorno potrebbero piovere dall’Iran, dotati di testata nucleare. L’Iran sarà in cima ai colloqui Obama-Netanyahu. Il presidente americano ribadirà l’impegno a difendere Israele contro l’aggressione; e la sua determinazione a impedire che Teheran si doti della bomba. Obama non dimentica che Netanyahu minacciò di sconvolgere la pace mondiale — e l’elezione presidenziale americana — con un attacco preventivo all’Iran nell’estate-autunno scorso. Sulla questione palestinese la Casa Bianca conferma che non avanzerà nuove proposte. I più autorevoli collaboratori di Obama però citano il documentario israeliano “The Gatekeepers” presentato agli Oscar e uscito nelle sale Usa: un’impressionante raccolta d’interviste con gli ex capi del Shin Bet (servizi segreti israeliani) che ammettono il fallimento della politica seguita finora verso i palestinesi, e indicano il dialogo come unica soluzione. L’opinionista israeliano Ari Shavit sul giornale Haaretz assegna un ruolo decisivo a Obama per promuovere una Nuova Pace, spingendo in quattro direzioni: «Un congelamento dei nuovi insediamenti di coloni ebrei in Cisgiordania. Una cooperazione tra Egitto e Israele nelle reti idriche. Un accordo Turchia-Israele sul gas. Un piano saudita-israeliano- palestinese per finanziare con le risorse del Golfo la rinascita pacifica della Palestina». Le facili ironie sul “turismo” di Obama dimenticano i ripetuti fallimenti di tutti i suoi predecessori che si erano dati obiettivi ambiziosi. «Quattro presidenti americani — ricorda Rashid Khalidi, esperto del mondo arabo alla Columbia University — hanno voluto mediare un piano di pace, il risultato è che in 34 anni la pace è diventata più lontana e sfuggente di prima. Nel 1991, prima degli accordi di Oslo, la maggioranza dei palestinesi poteva ancora viaggiare liberamente, oggi un’intera generazione di palestinesi non ha mai potuto visitare Gerusalemme». Obama parte con aspettative ridotte, e un’agenda politica dominata dalla ripresa economica interna. In questo forse è più realistico di Jimmy Carter e Bill Clinton che vollero “passare alla storia”, e in Medio Oriente hanno lasciato un’impronta effimera.

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