Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/02/2013, a pag. 17, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Inferno a Damasco, strage di civili ", l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " L'ombra lunga dei qaedisti. E Obama non scioglie il rebus degli aiuti militari ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Bombe a Damasco. I ribelli sono in guerra con Hezbollah ".
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Inferno a Damasco, strage di civili"


Davide Frattini
GERUSALEMME — Il regime e l'opposizione per una volta sono d'accordo almeno nel definire l'attentato che ha ammazzato 53 persone nel centro di Damasco: «Terrorismo». I leader politici dei ribelli non etichettano i colpevoli, non incolpano il clan Assad di complotti (come in passato), temono la mano delle frange estremiste, i gruppi islamici che hanno infiltrato la rivoluzione. Il governo mette tutti insieme, non fa differenze: è dall'inizio dalla rivolta, quasi due anni fa, che accusa i manifestanti pacifici di essere alleati di Al Qaeda.
L'autobomba è esplosa nelle ore più affollate di una zona commerciale come il quartiere di Mazraa, l'obiettivo simbolico è la sede del partito Baath che da mezzo secolo domina il Paese. Simbolico perché i blocchi di cemento e le barriere fermano il kamikaze prima del palazzo: i morti sarebbero sette guardie, il resto civili. È l'attacco più sanguinoso nella capitale dopo quello doppio del 10 maggio 2012, quando le vittime erano state 55. I chili di tritolo e diserbante sono scoppiati vicino a una scuola, tra gli oltre 200 feriti ci sarebbero numerosi bambini. E' finito in ospedale anche Nayef Hawatameh, uno degli ospiti palestinesi (sempre più ridotti) di Bashar Assad: è il capo del Fronte democratico e il suo ufficio sta a cinquecento metri dal cratere lasciato dalla bomba. Qualche finestra dell'ambasciata russa, non lontana, è finita in frantumi.
Poche ore dopo due colpi di mortaio hanno centrato le caserme dello Stato Maggiore. L'assedio a Damasco continua, le operazioni militari dell'Esercito Libero Siriano cercano di prendere il controllo delle strade di accesso principali. I ribelli non vogliono venire identificati con gli attentati in stile Al Qaeda, sanno di poter perdere il sostegno popolare: la televisione di Stato manda in diretta la rabbia degli abitanti, «è questa la libertà che vogliono, è questo che chiamano Islam?».
I capi dell'opposizione sono riuniti in Egitto per discutere una proposta di trattativa. Sono disposti a negoziare con rappresentanti del regime «che non abbiano le mani sporche di sangue», escludono di poter accettare che il presidente resti e con lui i notabili alauiti — la minoranza al potere — che hanno coordinato la repressione della rivolta: i morti sono oltre 70 mila.
Anche la Russia, che non ha smesso di sostenere Assad, ormai spinge per trovare una soluzione. Il conflitto rischia di coinvolgere i Paesi confinanti. Gli ufficiali rivoltosi hanno minacciato ritorsioni contro le truppe di Hezbollah (il movimento sciita filo-iraniano e alleato di Damasco) che dalla valle della Bekaa, dall'altra parte della frontiera, bombarda le loro basi attorno alla città di Qusayr. Il gruppo libanese ha sempre negato di prendere parte alla guerra in modo ufficiale. Il leader Hassan Nasrallah ha solo ammesso che i suoi militanti combattono in Siria «come volontari, per scelta personale». Poco al di là del confine sono sparsi quattordici villaggi a maggioranza sciita che Hezbollah vuole proteggere. Lo scontro etnico e politico è esasperato attorno alla linea tracciata sulla mappa dal francese François Georges-Picot e dal britannico Sir Mark Sykes durante la Prima guerra mondiale.
Israele, che segue la crisi con preoccupazione dalle torrette militari sulle alture del Golan, avrebbe deciso proprio adesso di tentare lo sfruttamento petrolifero della zona catturata con la guerra del 1967. La società incaricata delle prime perforazioni avrebbe tra gli azionisti anche Rupert Murdoch, il magnate dei media, e come consulente Dick Cheney, l'ex vicepresidente americano. «Attribuire questa licenza — commenta il giornale economico Globes — causerà il dissenso e le critiche della diplomazia internazionale che considera il Golan territorio siriano occupato».
Il FOGLIO - " Bombe a Damasco. I ribelli sono in guerra con Hezbollah "

Bashar al Assad
Beirut. La capitale della Siria non è più “sicura”, anche se il regime impone agli abitanti di fare come se niente fosse. Ieri sono scoppiate quattro autobomba nel centro di Damasco, ma “i nostri capi ci costringono ad andare al lavoro e a portare i bambini a scuola come se nulla fosse”, racconta un’impiegata del ministero del Turismo raggiunta al telefono dal Foglio. Ieri ci sono stati almeno 50 morti e 300 feriti, tra cui anche molti bambini – le immagini trasmesse anche dalla tv siriana sono raccapriccianti, zainetti, grembiuli e corpicini accatastati – ma i numeri si sa che in questa crisi siriana non sono mai completi. Da giorni Damasco è diventata un bersaglio conquistabile: ieri è stato colpito il quartiere centrale e affollatissimo di al Mazraa, tra il checkpoint dell’ambasciata russa e una delle sedi delle partito del regime di Bashar el Assad, il Baath e anche il quartiere della vecchia stazione di Damasco. Ricostruendo la mappa degli attacchi, si dipana una linea che costeggia la zona ovest della città vecchia, il centro della medioborghesia che lavora in ambasciate, ministeri, scuole, caserme e uffici vari. E’ difficile capire chi siano i responsabili. Gli attentati dinamitardi in Siria si possono dividere in due categorie: quelli su larga scala, devastanti, fatti da esperti, e quelli artigianali con bombe composte in casa, spesso bombole del gas radiocomandate con un telefonino. I professionisti del terrore sono presenti sia tra i sostenitori del regime di Assad, noto per eliminare gli avversari politici con le autobomba, che tra i ribelli dell’Esercito siriano libero, infiltrato da una galassia non facilmente identificabile di jihadisti islamici. Tra questi il gruppo più attivo è quello di Jabhat al Nusra, diecimila uomini disseminati ovunque. Due giorni fa l’Esercito libero era riuscito ad attaccare uno dei palazzi presidenziali e lo stadio di Damasco dove è rimasto ucciso un calciatore durante gli allenamenti. C’è poi la tempistica degli attentati: è in corso al Cairo un incontro dell’opposizione siriana per discutere le condizioni delle eventuali trattative con il regime e la formazione di un governo di transizione. Il possibile accordo di pace esclude il presidente in carica dal negoziato, mentre il capo della Syrian national coalition, Moaz al Khatib, punta a un dialogo col vicepresidente siriano Farouk al Sharaa per evitare che ogni generale alawita crei la sua milizia nel dopo Assad.
L’ultimatum e la “pulizia dell’area”
L’organo politico dell’opposizione sembra però sempre più distante da quello militare, su posizioni molto più estreme. Basti pensare alla dichiarazione di guerra contro Hezbollah (alleato del regime di Damasco) del capo dell’Els, Selim Idris. Il generale Idris ha detto di essere pronto a bombardare le postazioni di Hezbollah, nel Libano, se la milizia del leader sciita Hassan Nasrallah non dovesse cessare immediatamente di lanciare mortai in Siria. L’ultimatum sarebbe scaduto ieri, ma racconta di una guerra nella guerra che ha tutta l’aria di una trappola. Hezbollah sta cercando di trascinare i ribelli in un altro conflitto che finirebbe per coinvolgere anche il Libano, visto che il Partito di Dio ha conquistato otto città sul confine siro-libanese. Da quando Israele ha attaccato con un missile mirato, alla fine di gennaio, il convoglio di razzi che da Damasco andava a Beirut, la strada del trasferimento delle armi dalla Siria al Libano secondo Hezbollah “dovrebbe” spostarsi verso nord: dovrebbe passare per Qusair (vicino Homs) dove però c’è l’ultimo baluardo dei ribelli siriani a dieci km dal confine libanese. Due giorni fa qui sono stati uccisi tre uomini di Hezbollah. Il Partito di Dio vuole “ripulire l’area” per aprirsi una strada diretta che permetta gli scambi di armi. Così mentre l’Economist mette di nuovo in copertina la crisi siriana con un’analisi inquietante sul paese che non c’è più (“The death of a country”), un conflitto diretto tra Hezbollah e i ribelli sembra quasi certo. Il Partito di Dio non può accettare l’ultimatum, e i ribelli non potranno lasciare impunite le prevedibili azioni di Hezbollah. La minaccia per la regione è evidente, anche se il neo segretario di stato americano, John Kerry, nel suo primo discorso non ha nemmeno citato la Siria: era troppo occupato a discettare di climate change.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " L'ombra lunga dei qaedisti. E Obama non scioglie il rebus degli aiuti militari "


Guido Olimpio al Qaeda
WASHINGTON — Gli oppositori, davanti alla nuova strage, hanno reagito con qualche distinguo. L'Esercito libero siriano — appoggiato dalla Turchia e in parte dall'Occidente — ha ripetuto la tesi d'ordinanza: è il regime che si è messo la bomba. Più sfumata la posizione dell'altra sigla, la «Coalizione nazionale», che ha parlato di «atto di terrorismo che va condannato senza riguardi per chi lo ha commesso». Frase che implica le due ipotesi: un inside job, un auto-attentato degli 007 siriani, oppure un attacco di un gruppo qaedista.
Gli smarcamenti parziali sono legati a tre elementi: l'imbarazzo per azioni indiscriminate, la necessità di placare le diffidenze occidentali, la «gelosia» verso formazioni sempre più forti. Posizioni non sempre nette, anche perché quando si combatte una guerra civile esistono convivenze e connivenze. Al tempo stesso la componente laica della rivolta non vuole vedersi accomunata a tendenze estremiste perché sa bene che sono anche questi attentati a tenere lontano gli americani dalla crisi. Washington ha paura di favorire i «radicali» e non vede con chiarezza gli sviluppi.
Nei mesi scorsi un pacchetto di mischia composto da Hillary Clinton, dal capo di stato maggiore Dempsey, dall'allora direttore dalla Cia David Petraeus era andato all'attacco del presidente: volevano che gli Usa inviassero armi ai ribelli. Una pressione che non ha dato risultati. Le cautele di Obama hanno prevalso. Al suo fianco c'era l'ambasciatore all'Onu, Susan Rice, che pure era stata decisiva nel sostenere l'impegno in Libia. Con il passare delle settimane, però, il tema è tornato al centro delle discussioni. E i consiglieri presidenziali non hanno escluso un ripensamento sul quale possono pesare gli sviluppi nel teatro.
Il problema è che gli insorti islamisti non stanno a guardare. I loro successi sono importanti, specie nel Nord del Paese. Hanno preso il controllo di basi, ora minacciano l'aeroporto di Aleppo. Usano i kamikaze non solo per richiamarsi al qaedismo ma come vera arma. Li lanciano a bordo di camion contro le difese esterne degli obiettivi: sono come dei missili da crociera umani. Le esplosioni aprono la strada alle unità ribelli integrate da molti volontari stranieri.
Sostenuti dai Paesi del Golfo, hanno creato di recente un fronte composto da Al Nusra (qaedisti duri), Suqur Al Sham e Kataib Ahrar Al Sham. Quest'ultima fazione è in crescita, è attestata su posizioni «pragmatiche», fa meno paura (in teoria) delle altre. Resta che l'obiettivo comune prevede l'instaurazione di uno stato islamico. E per arrivarci, oltre ad essere dei bravi combattenti, si preoccupano di assistere i civili nelle zone liberate. Così conquistano cuore e menti partendo dal basso, ad esempio con la gestione dei forni e la distribuzione equa del pane. Non è poco per una popolazione stremata dal conflitto e punita dai massacri del regime che bombarda con ogni cosa, compresi i missili terra-terra Scud. All'Ovest ora ci si accorge che sarebbe servito un aiuto più sostenuto ai laici per evitare che Al Nusra guadagnasse terreno. E, di recente, nuove armi prodotte in Croazia sono state inviate agli insorti che stanno lontani dalle bandiere nera della Jihad. Un tentato di bilanciare le forze che somiglia però ad un pentimento.
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