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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
21.02.2013 Siria : Assad continua con i bombardamenti
cronaca di Daniele Raineri. Intervista a Giulio Terzi di Paolo Valentino

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Daniele Raineri - Paolo Valentino
Titolo: «La rivoluzione laica vive ancora - Più aiuti militari ai ribelli siriani. Italia in prima fila, lo dirò a Kerry»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 21/02/2013, a pag. II, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " La rivoluzione laica vive ancora  ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'intervista di Paolo Valentino a Giulio Terzi dal titolo " Più aiuti militari ai ribelli siriani. Italia in prima fila, lo dirò a Kerry ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " La rivoluzione laica vive ancora "


Daniele Raineri

Il jet gira basso perché sta dando la caccia ai carri armati dei ribelli, o almeno è così che pensiamo. A soli tre chilometri c’è una base dell’esercito siriano sott’attacco da giorni, oggi le nuvole si sono aperte, questo Mig solitario è arrivato a bombardare la linea del fronte. Invece no. Punta le case dei civili. Il rumore di un jet che colpisce è così: rombo sulle case, poi un intervallo di silenzio perché l’aereo non accelera, si sta tuffando con il muso verso il basso per sganciare la bomba, poi di nuovo il rombo perché apre di nuovo i getti e riprende quota, a questo punto non importa più perché tutto è coperto dallo scoppio della bomba che è arrivata al suolo. In quell’intervallo c’è soltanto da sperare che non stia cadendo sul tuo tetto, tra tutti quelli che scorrono nella striscia indistinta di case e stradine che dev’essere la visuale verso il basso del pilota. Ci infiliamo in un sottoscala lontano dalle finestre, fuori da qualche parte una mitragliatrice dei ribelli spara una raffica contro il jet. Grida di “Allahu akbar”, “Allahu ak…”: esplosione. Secondo giro, l’aereo ripassa. Secondo rombo sulle case, di nuovo bruciatori che si spengono, secondo intervallo di silenzio, bomba invisibile e muta in caduta libera. Se piomba dritta sul terrazzo là sopra c’è poco da fare, in questo posto ci sono dei monumenti a cielo aperto che mostrano cosa succede a un edificio quando è centrato da un aereo. Dove c’erano tre piani, rimane una montagnola di calcestruzzo afflosciata. Raccontano di uno che è tornato dov’era casa, a mezzo chilometro da qui, ed è ammattito, quelle dei vicini erano perfettamente in piedi e la sua era sparita, come risucchiata da sotto, persino il livello del suolo era più basso. E’ successo anche dove c’erano le antenne dei telefoni cellulari, ora è restata soltanto la piattaforma di cemento pulita – e infatti i telefoni non prendono nel raggio di venti chilometri. Lo scoppio arriva, vicino ma non importa, vicino è diverso da dritto qui sopra, che è l’unica cosa che non deve succedere. Si corre a vedere. La gente un po’ scappa – “bombardano, bombardano” (ma l’aereo non si sente più) – e un po’ cerca di aiutare, porta via un “martire” e nove feriti, il morto è un nonno di sessantacinque anni con una protesi al posto di una gamba. Il figlio è chino dove c’era la porta, raschia con le mani una macchia rossa e mette altri resti di suo padre dentro un sacchetto giallo. Il velo di cemento sprigionato dall’esplosione ingrigisce tutto, pure i rami e gli alberi, una pisciatina d’acqua cade da una tubatura strappata a metà, allaga piano il vicolo in mezzo alle case, chi fugge passa radente ai muri. Dalla porta accanto escono tre bambine, guardano il posto svuotato. Dietro c’è il padre, mi avvicino per fare le foto in faccia alle figlie, non batte ciglio: che almeno fuori qualcuno sappia cosa succede qui. Il pilota siriano non ha scelto obiettivi militari, ha sganciato il carico in mezzo a case abitate da civili, ha ucciso un anziano senza una gamba perché questa è la strategia antinsurrezionale del governo, senza negoziati, senza compromessi, senza distinzioni tra civili e ribelli, riesce a manifestarsi soltanto come volontà di punizione. Due ore dopo, con un po’ di nervosismo per il bel cielo, finisce la preghiera in moschea e la gente si riunisce in piazza per la manifestazione come ogni venerdì. A novembre un aereo è passato sullo stesso posto e ha fatto trenta morti in un secondo. Quindi oggi si fa in fretta, in mezzo a tre edifici pericolanti. Si battono le mani a tempo, si scandiscono gli slogan, si srotolano gli striscioni, i due più grandi sono uno in inglese e uno in arabo con lo stesso messaggio, si cambia slogan, si scattano le foto e si fanno i video da caricare su Internet, e poi c’è ancora il tempo per qualche pacca sulle spalle tra conoscenti, prima di disperdersi. Questa piccola città si chiama Kafr Anbel, la fattoria, kafr, dei nobili, dall’inglese noble, poi arabizzato in nabl e diventato anbel. L’ex fattoria ha quindicimila abitanti, tra Idlib e Hama, e ha deciso deliberatamente di diventare il cuore dell’opposizione laica al governo di Bashar el Assad. Gli attivisti in tutto il paese la chiamano “la coscienza della rivoluzione”, è la culla degli slogan migliori, degli striscioni più sarcastici, delle parole d’ordine che poi fanno il giro di tutta la Siria. Kafr Anbel è all’altra estremità dello spettro della rivoluzione siriana rispetto agli estremisti: se volessimo trovare il suo opposto nei ribelli, sarebbe il Kataib al Muajirin, il “battaglione dei migranti”, un reparto formato da stranieri – molti sono ceceni – fanatizzati dalla causa islamista. Kafr Anbel combatte una guerra locale, qui e ora. Quegli altri sono venuti con le armi in Siria soltanto perché è il capitolo attuale della più vasta guerra permanente contro gli infedeli, una semplice tappa di un programma universale e atemporale per la creazione di uno stato governato dalla legge coranica. Se si vuole trovare il contrario sulla mappa è Mayadin, nell’est del paese, valle dell’Eufrate, in diretto collegamento con l’Iraq, finita sotto il controllo degli estremisti a gennaio – dove nessun giornalista è ancora riuscito a entrare. Kafr Anbel si è assunta con una scelta deliberata questo ruolo di portafiaccola della rivoluzione della prima ora, primavera 2011, quando ancora si chiedevano riforme politiche. C’è uno sforzo per farsi spazio tra le notizie. Muoversi nella guerra civile è complicato, spesso è il frutto di trattative complicate con i fixer locali, i reporter stranieri pagano anche trecento dollari per arrivare ad Aleppo e stare per un giorno allo stesso angolo, qui ci sono attivisti in abiti occidentali con un’automobile, “un amico l’ha prestata all’ufficio stampa della rivoluzione di Kafr Anbel, con la clausola che quando finirà tutto la restituiremo”, e provano a venirti a prendere a nord se fissi un rendezvous. E i soldi per la benzina? “Ci interessa che giornalisti e fotografi vengano a raccontare cosa stiamo facendo”. E’ un posto islamico diverso dai cliché che arrivano fuori, senza odio e senza troppe rigidità, è persino possibile mettere le mani su lattine di una bevanda energetica che contiene un 22 per cento di vodka – “una volta un posto di blocco dei ribelli islamisti mi ha fermato, ne stavo trasportando un cartone intero in macchina, me l’hanno preso, le lattine le avranno vuotate tutte una per una in un tombino”. L’elettricità è poca e divisa in turni fra i quartieri, tre ore sì e tre ore no, ma in molti smanettano su Skype e su Facebook, arrivano chiamate dal Washington Post, arrivano richieste da al Jazeera, se c’è in linea un contatto importante accendono il motore di un generatore. Ogni giovedì sera in una casa diversa vicino a una base che prima apparteneva ai soldati – “prima” vuol dire prima che fossero uccisi, trecento uomini del governo morti nella battaglia per liberare Kafr Anbel lo scorso agosto, e gli ultimi hanno ucciso i feriti prima di scappare – gli attivisti danno un’ultima occhiata alle notizie – per prendere ispirazione – stendono i lenzuoli, tracciano le righe a matita per scrivere dritto e ne ricavano i due grandi striscioni, quello inglese e quello arabo. A volte per internazionalizzare un po’ la faccenda si rivolgono al Papa, oppure alle Nazioni Unite, o al presidente americano Barack Obama. Tra chi segue la Siria il messaggio del venerdì di Kafr Anbel è diventato un appuntamento fisso. “Riceviamo donazioni, da tutta la Siria e anche da fuori, s’è creato un movimento esterno per far sentire la nostra voce”. Di sera, poco lontano, un comitato di 15 persone si riunisce al buio attorno alla stufetta a gasolio per stendere un nuovo codice di regole e far funzionare la vita della città anche nel post Assad. I membri sono stati nominati per chiara fama locale, ci sono gli insegnanti della scuola, un paio di avvocati. “Sto scrivendo le nuove regole prendendo qui è là”, dice un avvocato. “Dal Corano?”. “No, da Internet”. Domanda: ma i ribelli in città sono assoggettati al vostro potere? Spiegazione: quando controllano l’ordine in città sì, sono sottoposti. Quando sono coinvolti in operazioni militari contro il regime all’esterno, in coordinamento con il comando del Jaish al Hur (l’esercito libero di Siria), prendono ordini da loro. Kafr Anbel vuole essere la risposta secolarista al modello del dopo Assad avanzato dai battaglioni islamisti, sparsi un po’ dovunque nei paraggi. All’inizio della ribellione era la voce della maggioranza, lo si vorrebbe portare come esempio al mondo esterno per muoverlo finalmente agli aiuti decisivi. Ma più passa il tempo e più diventa un’eccezione minoritaria, una riserva di intelligenza politica che perde la capacità di farsi sentire nel resto del paese.

CORRIERE della SERA -  Paolo Valentino : " Più aiuti militari ai ribelli siriani. Italia in prima fila, lo dirò a Kerry "


Paolo Valentino                 Giulio Terzi

ROMA — All'incontro del «Gruppo di alto livello sulla Siria», in programma il 28 febbraio prossimo a Roma, l'Italia e i Paesi europei proporranno agli Stati Uniti «maggiore flessibilità» nelle misure in favore dell'opposizione al regime di Assad. In particolare, chiederanno che gli aiuti militari «non letali» vengano estesi fino a comprendere anche l'assistenza tecnica, l'addestramento e la formazione, in modo da «consolidare l'azione della coalizione».
Lo dice al Corriere il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata, in una intervista alla vigilia della conclusione del suo mandato alla Farnesina. Il vertice è stato organizzato dalla diplomazia italiana su richiesta del neosegretario di Stato americano, John Kerry, e vedrà la partecipazione degli 11 Paesi più coinvolti nella gestione della crisi siriana e dei rappresentanti dell'opposizione di Damasco.
«Il motivo della richiesta è che Washington ha visto la continuità e il rilievo con cui il governo italiano da più di un anno sta seguendo la crisi siriana. Abbiamo lavorato molto insieme all'inviato speciale per il Medio Oriente, incarico che ho creato al mio arrivo. Lo sforzo è stato di aiutare la nebulosa dell'opposizione a trovare una sintesi. E ci siamo riusciti. Ora esiste una piattaforma concreta, che rappresenta l'alternativa ad Assad sia in termini di proposte che di personale. Ma bisogna cercare di dare una soluzione politica alla carneficina: non possiamo aspettare altre decine migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Da parte americana c'è una constatazione di urgenza nella risoluzione della crisi».
Quali difficoltà incombono ancora sull'apertura del negoziato?
«L'uscita di scena di Assad è un tema dilaniante. Noi pensiamo che la trattativa potrebbe partire anche mentre il suo regime è ancora in piedi, coinvolgendo Russia e Cina, con la prospettiva di un phasing out, cioè in modo che l'uscita di scena del dittatore sia un punto di arrivo e non di partenza. Certo ci vogliono condizioni politiche: difficile che possa partire un negoziato mentre ci sono ancora bombardamenti, massacri, rifugiati, carceri piene. Occorrono gesti di disponibilità. Roma è quindi un passaggio importante, per la drammaticità della crisi».
L'altro appuntamento italiano per John Kerry è quello del 27 febbraio: il «Transatlantic dinner» con i ministri degli Esteri della comunità atlantica. Di cosa parlerete?
«Mi faccia dapprima dire che la visita di Kerry conclude un periodo segnato da un rafforzamento crescente del ruolo dell'Italia in Europa, nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in diversi Paesi africani. E questo è accaduto sicuramente anche come effetto dell'impegno diretto del capo dello Stato, dei suoi molti viaggi all'estero, della sua azione costante e presente. La riunione transatlantica è la prova concreta che come Paese abbiamo credibilità e possiamo fare la differenza su questioni centrali. Discuteremo dell'attualità internazionale, ma al primo posto metterei un grande tema di prospettiva: il lancio del negoziato per il Transatlantic Trade and Investment Partnership (l'accordo sul libero scambio, ndr), che sono convinto cambierà profondamente i rapporti tra gli Stati Uniti e l'Ue. È una trattativa complessa, ma è un percorso obbligato, la dimostrazione di come il pivot sull'Asia, di cui si è tanto parlato, possa diventare pivot sull'Atlantico. Significa riportare l'attenzione su tutto quello che può generare crescita, innovazione e ricerca nel mondo occidentale».
Ma l'Europa è pronta a misurarsi con i rischi di una simile partita?
«Ci sono sicuramente dossier molto critici, ma ho l'impressione che a Bruxelles ci sia un clima diverso. C'è la percezione che l'accordo sia una sfida necessaria di fronte alla grande debolezza delle nostre economie, perché secondo stime convergenti può generare un effetto di crescita di circa 250 miliardi di euro l'anno sul Pil, cioè quasi dell'1%. L'altro aspetto importante è che un esito positivo riporterebbe in campo occidentale la definizione di tantissime regole che riguardano commercio e servizi, dove in caso di fallimento saremmo tra qualche anno esposti a subire regole altrui».
Cosa significherebbe questo per l'Italia e come dovranno agire i governi futuri?
«La nostra sfida più grande è riportare la crescita attraverso politiche di formazione dei giovani, l'innovazione, la ricerca e consolidamento della competitività delle nostre università. Abbiamo bisogno di un cambio di paradigma culturale, che purtroppo da cittadino vedo del tutto assente dal dibattito elettorale in corso: sia pure per motivi comprensibili manca cioè ogni enfasi sul tema della cultura in quanto innovazione, ricerca, formazione, essenziale per la rinascita della nostra economia».
Qual è il posto dell'Italia in Europa e nel mondo?
«In Europa l'Italia deve riprendere un ruolo propulsivo sul piano dell'integrazione politica, guardare alla necessità d'Europa per il nostro Paese e nel mondo dobbiamo rispondere alla grande domanda d'Italia. Le due cose sono strettamente collegate».
È d'accordo che la mancanza di forti leader sia una delle cause principali della crisi europea?
«Sono d'accordo che di recente non siamo riusciti ad esprimere grandi statisti alla guida delle istituzioni comunitarie. Abbiamo perso velocità presso l'opinione pubblica, la tendenza nella formazione del consenso è piuttosto di registrarla invece di uscire dal mucchio e offrire nuove visioni. Soffriamo probabilmente della carenza di grandi idealità, di progetti politici e di società, siamo caduti in una sorta di entropia meditativa legata alle nostre condizioni materiali quotidiane. È inevitabile che sia così, ma rischiamo di avvitarci».

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