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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
22.01.2013 Oggi si vota in Israele. Bibi Netanyahu dato per vincente
cronache e commenti di Vittorio Dan Segre, Davide Frattini, Giulio Meotti, Francesca Paci, Fabio Scuto

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - Il Foglio - La Stampa - La Repubblica
Autore: Vittorio Dan Segre - Davide Frattini - Giulio Meotti - Francesca Paci - Fabio Scuto
Titolo: «Israele rivuole Netanyahu ma il falco ha perso le ali - Israele va alle urne. La destra è favorita. Le donne decisive - Bibi, un muro sul Golan per vincere le elezioni - Israele al voto, la carica dei religiosi record di rabbini nella nuova Knesset»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 22/01/2013, a pag. 12, l'articolo di Vittorio Dan Segre dal titolo " Israele rivuole Netanyahu ma il falco ha perso le ali ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Israele va alle urne. La destra è favorita. Le donne decisive ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Il volto di Israele ". Dalla STAMPA, a pag. 15, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Bibi, un muro sul Golan per vincere le elezioni ". Da REPUBBLICA, apag. 14, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo " Israele al voto, la carica dei religiosi record di rabbini nella nuova Knesset ", preceduto dal nostro commento.

Non riportiamo i pezzi pubblicati sul Manifesto perché sono le sole mosche cocchiere che esprimono wishful thinking invece di dire le cose come stanno.
Non riportiamo nemmeno il pezzo di Ugo Tramballi sul Sole 24 ORE perché non dissimile da quelli pubblicati.
Il commento di IC sulle elezioni è contenuto nell'articolo di Deborah Fait pubblicato in altra pagina della rassegna
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=70&id=47805


Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Vittorio Dan Segre : " Israele rivuole Netanyahu ma il falco ha perso le ali "


 Vittorio Dan Segre        Bibi Netanyahu

Una caratteristica delle elezioni legislative di Israele in cui oggi 34 liste lotteranno per assicurarsi i 120 seggi del parlamento unicame­rale di Gerusalemme è il disinte­resse dell'opinione pubblica in­ternazionale. Ritiene che i gio­chi siano ormai fatti, che il pre­mier uscente Netanyahu sarà rie­letto per la terza volta alla guida del paese. È vero ma non è detto che riuscirà a formare un nuovo governo. Questo per 5 ragioni. La prima: il trucco preelettorale dell'unione del partito Likud con quello degli immigrati russi guidato dal ministro degli Esteri Lieberman (Israel beitenu) non è piaciuto all'elettorato di centro destra. Nelle intenzioni di Netan­yahu avrebbe dovuto garantire alla nuova lista 46 seggi mentre ora scende nei pronostici a 32.
Seconda ragione: l'elettorato si è decisamente spostato più a destra del Likud indebolendo ancora di più i partiti di centro si­nistra ( laburisti, laici, pro palesti­nesi) incapaci di formare un fronte anti Netanyahu. Il quale ha inoltre deluso il pubblico per la sua interferenza nelle elezioni presidenziali americane a favo­re del candidato repubblicano
battuto da Obama. I perdenti non piacciono mai e l'aver mes­so in gioco il rapporto con gli Sta­ti Uniti come su una roulette (con l'appoggio finanziario di un miliardario ebreo americano arricchitosi con le case da gioco in America e in Cina) ha ridotto la sua immagine di astuto politi­co. La sua oratoria anti iraniana e in favore di massicci nuovi inse­diamenti a Gerusalemme non seguita da azione ne hanno rive­lato la debolezza.
Terza ragione: l'emergere sul­la scena di un politico pressoché sconosciuto - Naftali Bennet 40 anni, nato in Israele da famiglia americana, ottimo ufficiale che ha rinunciato a una brillante car­riera militare per creare una so­cietà tecnologica venduta per 145 milioni di dollari - sembra il rappresentate di una nuova ge­nerazione di politici arricchiti con le proprie capacità (come il sindaco di Gerusalemme Barkat) per dedicarsi alla politi­ca fuori degli schemi partitici contrariamente alle generazio­ni di politici (e dei generali) en­trati in politica per arricchirsi. È significativo che per la prima vol­ta non ci sono (con l'eccezione del partito Kadima) ex generali alla testa di partiti. Bennet è un giovane religioso, nazionalista, contrario alla politica di territori in cambio di pace. Piace ai giova­ni promet­tendo a ciascun solda­to smobilitato un terreno statale per costruirsi una casa. Molti elettori laici vedo­no in lui il leader capace di oppor­si all'influenza de­gli ortodossi.
Quarta ragio­ne: in Israele l'ec­o­nomia tira ma per
questo la questio­ne sociale non tanto legata alla disoccupazione e alla povertà ri­dotta quanto allo strapotere delle «18 famiglie» che dominano il mercato finanzia­rio è di grande attualità. Con l'ar­rivo delle prime forniture di gas sottomarino scoperto davanti al­le coste nazionali, la questione della ripartizione della «torta» economica diventa prioritaria per il bisogno di modernizzazio­ne delle strutture nazionali con l'accento agli investimenti nella ricerca, nell'educazione supe­riore, nella sanità e nello svilup­po del settore arabo israeliano che interessa il 20% della popola­zione di 8 milioni. Problemi su cui Netanyahu ha fatto promes­se non o male realizzate anche a causa della sua dispendiosa pre­parazione a un attacco contro l'Iran criticato tanto da Washin­gton che dai massimi dirigenti militari e dei servizi di sicirezza israeliani.
Quinta ragione: stranamente la politica estera e la sicurezza non sono il fulcro di interesse. L'elettorato è convinto che i ne­goziati per la creazione di uno stato palestinese siano privi di fu­turo, sia per le divisioni interne del palestinesi, sia per il crescen­te convincimento che alla fine l'accordo si farà con Hamas piut­tosto che con il debole e corrotto
al Fatah. Quanto ai rapporti con l'America e con l'Europa si pen­sa- a torto o a ragione- che saran­no condizionati più dal fonda­mentalismo anti occidentale, anti cristiano, islamico che dalla simpatia dell'occidente per i pa­lestinesi. Di certo in queste ele­zioni c'è solo il fatto che Israele ne uscirà diverso da come vi è en­trato.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Israele va alle urne. La destra è favorita. Le donne decisive "


Davide Frattini                Shelly Yachimovich

TEL AVIV — La donna che David Ben-Gurion chiamava «l'unico vero uomo nel governo» ha dovuto aspettare trentasette anni perché ne arrivasse un'altra a dirigere i laburisti. La severa Golda Meir — alla guida del partito tra il 1969 e il 1974 — si sarebbe stupita nel vedere Shelly Yachimovich distribuire palloncini colorati all'uscita dell'asilo (con buffetti di approvazione «per l'educazione socialdemocratica» ai bambini che lo scelgono rosso) e di sapere che le donne sono diventate la speranza della sinistra. «Voi potete battere Netanyahu», incita il volantino distribuito dai militanti, con quel «voi» che in ebraico è declinato e suona al femminile.
Yachimovich ha scelto questo angolo di strada dietro alla baldoria colorata e permissiva di via Sheinkin per provare a convincere le indecise, mamme agganciate ai passeggini che fanno parte di quelle 500 mila elettrici — calcolano i sondaggi interni del Labour — ancora ondeggianti. È a loro che tutti i partiti si sono rivolti nelle ultime ore della campagna elettorale, prima del voto di oggi. A loro e agli altri incerti che rappresentano tra il 20 e il 30 per cento: il premier conservatore Benjamin Netanyahu è dato vincente, quanto stabile sarà la sua coalizione dipende dalle scelte di questi dubbiosi.
Shelly è accompagnata dalle candidate Stav Shaffir, leader delle proteste sociali di due anni fa, e da Merav Michaeli, giornalista-diva televisiva al debutto in politica. Pantaloni e camperos neri, Michaeli è la più alta in lista dopo la presidentessa ed è sicura di entrare alla Knesset dove porta il suo stile impetuoso. Fidanzata con il comico Lior Schlein, è contraria al matrimonio «perché limita le donne» e cinque anni fa ha mostrato il reggiseno in diretta per protestare contro l'allora presidente Moshe Katsav, accusato di stupro e poi condannato.
Quarantasei anni, senza figli, invita le madri a seguire l'esempio delle Quattro che alla fine degli anni Novanta hanno ispirato le manifestazioni contro la prima guerra del Libano. «Come possono i genitori mandare i loro ragazzi a combattere, quando i governi israeliani non cercano davvero la pace?». Anche Tzipi Livni — alla guida di Hatnuah, il Movimento — parla di figli per convincere le mamme ed è implicito nel suo messaggio che una donna sia più incline a lavorare per un'intesa con i palestinesi (ci ha già provato da ministro degli Esteri nel governo di Ehud Olmert) e che l'approccio di Netanyahu sia macho/militarista: «Ho deciso di entrare in politica perché sono preoccupata da quale tipo di nazione vogliamo lasciare in eredità. Dovreste esserlo anche voi».
Michaeli resta seduta sul divano bianco, mentre in pochi applaudono l'avversaria Tzipi Hotovely: ha appena calpestato «i vaneggiamenti di quelli che credono ancora nella soluzione dei due Stati». Al dibattito in uno degli hangar postmoderni del Namal, l'imborghesito porto di Tel Aviv, Merav gioca in casa. Hotovely è vestita come poche da queste parti, la gonna lunga e le calze bianche spesse, il piglio di chi due anni fa ha avuto il coraggio — da donna religiosa — di sedersi nei posti «riservati» agli uomini su uno degli autobus pubblici usati dagli ultraortodossi.
Nel 2009 è diventata la parlamentare più giovane di sempre (a 31 anni) e il Likud di Netanyahu l'ha messa a presiedere la commissione Pari opportunità. «Voglio evitare la nascita di uno Stato palestinese e di uno Stato israeliano stalinista come vorrebbero i laburisti», incalza. Michaeli risponde: «Dove Netanyahu vede spese da tagliare, noi vediamo investimenti sui cittadini».
Da laica attacca «la dittatura dell'ortodossia che impedisce le coppie di fatto», eppure — isolata anche rispetto ad altri partiti dell'opposizione — non pretende che gli studenti delle scuole rabbiniche prestino il servizio militare obbligatorio: «La loro presenza in caserma comporterebbe la segregazione delle donne». Hotovely è più preoccupata dalle minacce che della convivenza nelle basi militari: «L'esercito ha bisogno di tutti perché questo Paese deve ancora lottare per la propria sopravvivenza».

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Il volto di Israele "


Giulio Meotti        David Ben Gurion

"Oom, Shmoom”, ripeteva David Ben Gurion. Traducibile, in ebraico, con “l’Onu, e chi se ne frega”. Una massima che riassume bene lo spirito con cui oggi Israele va al voto. Al di là della coalizione di governo che andrà a guidare il paese, lo stato ebraico non è più lo stesso che abbiamo conosciuto. Benjamin Netanyahu dovrebbe confermarsi “the king”, come nell’ormai celebre copertina di Time. Ma dalle urne uscirà un Israele mai visto prima. Senza i kibbutz, il pilastro della costruzione dello stato che non ricorda più le fotografie di Robert Capa con i pescatori che alla sera leggevano Dostoevskij, le ragazze in sella al trattore che imbracciano il fucile o Konrad Adenauer con Ben Gurion nel Negev e due bicchieri vuoti sul tavolo. Oggi i kibbutz non sono più rappresentati dalla sinistra, ma dalla destra di Naftali Bennett, che la stampa europea con il Nouvel Observateur in testa definisce “l’inquiétant”. Secondo Haaretz, “la prossima Knesset sarà la più religiosa della storia israeliana”. Cambiano gli slogan. Non più “land for peace”, ma “peace for peace”, o al massimo “land for land”. Cambiano i volti. Non più gli occhi glauchi e il volto glabro di Yitzhak Rabin, ma le barbe e gli occhi di brace dei timorati. Il paese si sposta verso gli esterni, l’oriente con la grande componente sefardita (marocchini, libici, iracheni, iraniani) nota per una posizione più dura nei confronti degli arabi, e l’immigrazione ideologica dagli Stati Uniti, che combatte l’assimilazione e ha una percezione rituale dell’Olocausto e dell’antisemitismo. Non c’è più il Labour di Rabin, guidato oggi da Shelly Yachimovich, la seconda donna a prendere la leadership dopo Golda Meir e che ha abbandonato la piattaforma basata su “sicurezza e diplomazia” a favore di un’agenda social-economica. La nuova sinistra è la middle class che non si identifica più con la comunità agricola (i kibbutz) o militare (Ehud Barak). Un cambiamento non da poco, tanto che un simbolo dell’élite intellettuale come Amos Oz ha detto che “Yachimovich è peggio di Barak. Barak diceva: ‘Non c’è soluzione’. Yachimovich dice: ‘Non c’è problema’”. Con Ariel Sharon in coma ed Ehud Barak fuori (per ora) dalla vita politica, si interrompe la stirpe dei combattenti in politica. E il politico con il maggior numero di stellette viene da destra, il generale Yair Shamir, pilota e pioniere dei droni con un nome che è di per sé un programma politico, “Yair”, nom de guerre del comandante armato clandestino di destra più ricercato dal Mandato britannico. Non ci sarà il Likud di una volta, fondato sui principi identitari di Zeev Jabotinsky. Sarà il Likud della destra nazionalista del giovane outspoken Danny Danon (il programma satirico “Eretz Nehederet” lo ritrae con l’acne). Dice Nahum Barnea, commentatore politico, che sono le elezioni dei “kippot srugot”, dei copricapi religiosi. “La vecchia élite laica è scomparsa, sostituita da una generazione di nazionalisti religiosi politicamente ambiziosa”, dice Barnea. “E’ il loro tempo”. Per tornare alla massima di Ben Gurion, sarà un Israele meno compiacente con la comunità internazionale, più diviso all’interno, più spregiudicato, più isolazionista, più eroico. E più consapevole di avere di fronte nemici che non conoscono green ma “blue line”. Quella del Mediterraneo, dove l’Iran e gli islamisti vogliono buttare a mare gli ebrei. Si dice che nel 2013 Israele tornerà allo spirito del 1973, l’anno dello Yom Kippur, quello “della guerra e dell’espiazione”.

La STAMPA - Francesca Paci : " Bibi, un muro sul Golan per vincere le elezioni"

Di fianco all'articolo di Francesca Paci, uno schemino riassume la situazione delle alture del Golan, definendole 'territori contesi'. Il Golan non è conteso, non è oggetto di trattative. Israele l'ha annesso nel 1981. Paci non lo specifica, ma, quando era ancora in mano alla Siria, veniva utilizzato per bombardare le città israeliane sottostanti, un esempio di "menzogna omissiva", non averlo scritto priva il lettore di un dato fondamentale per poter conoscere.


Francesca Paci

Aprima vista quel baluginio dietro i filari di meli e viti non sembra una recinzione. Bisogna spingersi fino all’ultimo terrazzo di Merom Golan, il primo kibbutz edificato sulle alture occupate dopo il ’67, per osservare da vicino la barriera di 4,5 m tirata su in fretta e furia da Israele, 65 km di reticolato elettrico come quello sulla frontiera con l’Egitto per contenere la guerra di Assad al di là dei minareti di Quneitra.

«Se l’hanno fatto a scopo elettorale è una spesa inutile, per quanto il regime di Damasco alzasse la voce gli è sempre mancato il coraggio di attaccarci da solo e nessuno si è mai sentito minacciato da questo confine, neppure ora» sentenzia il 78enne Yehuda Harel, occhi vivaci come la camicia a quadri, pioniere di Merom e del movimento collettivista a cui ha dedicato il saggio «Il nuovo kibbutz». Lui che è passato dall’ammirazione per Nenni e Togliatti a votare Netanyahu, seppure per mancanza d’alternative, non si stupisce della svolta a destra del Paese, dell’affermazione dei coloni col fucile a tracolla sui socialisti visionari dei kibbutz: «Dopo il XX congresso del Pcus ho smesso di credere nello Stato forte, i kibbutz esistono ancora ma si sono trasformati in aziende private». Un po’ come il vicino Ein Gev, avamposto israeliano nel ’48 e oggi resort per fanatici della pesca lacustre.

Lungo la strada che s’arrampica sul Golan costeggiando uno dei confini più minati del mondo (ma finora privo di barriere), i temi di queste elezioni, il raddrizzamento dei conti pubblici e la sicurezza, si sovrappongono come la memoria storica, le caserme della leva siriana del 1973 e i modernissimi tank israeliani schierati due mesi fa dopo i colpi di mortaio sparati ad Alonei Habashan.

«Il problema sicurezza esiste, ma non nei termini isterici della destra di Bibi e degli altri, la vera sicurezza di cui dovremmo preoccuparci è quella dei siriani che stanno vivendo un Olocausto», osserva la 50enne Edith Kimchi seduta al Blueberry caffe di Katzrin, la «capitale» del Golan a 15 km dalla frontiera sui cui muri l’unico manifesto elettorale è quello di Netanayahu. E’ arrivata nel 2006 per dirigere il dipartimento educativo e lavorando con i più piccoli dell’altopiano dove vivono 23 mila israeliani e 20 mila drusi ha rafforzato la convinzione che il welfare conti più del dossier Iran o Siria: «Voterò Am-Shalem, il partito del rabbino che ha lasciato lo Shas per fare campagna contro l’esonero dei religiosi dal militare e dal lavoro. Sono laica ma voglio contribuire a dare due seggi in Parlamento a chi, da ortodosso, denuncia quell’assurdo spreco di risorse pubbliche». E’ il paradosso israeliano: sebbene alla periferia dell’impero come a Tel Aviv l’economia mobiliti gli elettori più della politica estera, la sinistra che la sponsorizza (anche perché disillusa rispetto alla pace con i palestinesi) uscirà probabilmente acciaccata dalle urne a tutto vantaggio della galassia di destra (7 kibbutz del Golan hanno già scelto Bennett).

«Assad era la soluzione più stabile, la migliore per noi, il problema adesso è capire cosa succederà se viene sconfitto perché più che di siriani dall’altra parte s’inizia a parlare di arabi, musulmani, sunniti, sciiti, drusi» ragiona Ramona Bar Lev, coordinatrice del comitato residenti del Golan. Applausi alla recinzione, allora? «Precipitosa».

Annesse nell’81 da Begin con un atto non riconosciuto dalla comunità internazionale, le alture sono un nodo cruciale della politica israeliana interna e estera, fortino strategico nel momento in cui si temono le armi chimiche di Damasco e gli Usa prendono le distanze dal Medioriente ma anche grande risorsa nazionale giacché attirano ogni anno circa 3 milioni di turisti. Così qui Netanyahu, diversamente da quanto fatto in Sinai, fortifica la frontiera senza fare troppa propaganda.

«La differenza rispetto agli insediamenti in Cisgiordania è che noi siamo stati più bravi nelle pubbliche relazioni e abbiamo provato a non essere estremisti come a Hebron» butta là Yehuda Harel. Sul Golan la coabitazione coatta ha evitato la violenza: è l’unico argomento su cui concorda Salman Fakkreem, responsabile del centro per i diritti umani degli arabi nel Golan al Marsad e memoria storia di Majad Shams, la cittadina drusa rimasta in Israele dopo la partizione del ‘67.

«La barriera non ci riguarda come non ci riguardano queste elezioni, perfino il manifesto di Lapid all’ingresso di Majad Shams è stato affisso a uso dei turisti» afferma Salman. Qui, dove ogni famiglia ha parenti in Siria e tutti i venerdì ci sono manifestazioni pro e contro Assad, nessuno andrà a votare. «E’ tanto se si recheranno alle urne 50 dei 10 mila abitanti» calcola l’impiegato comunale Hassan, nell’ufficio affacciato sul reticolato che sorge sulla collina da cui prima di Internet i parenti si gridavano a vicenda saluti e notizie.

Era davvero necessario costruire una nuova barriera che con quella cisgiordana ed egiziana (più quella di separazione con l’amica Giordania) isola anche fisicamente Israele dalla regione? L’esperto di sicurezza e di Siria Meir Elran è convinto di sì: «E’ una misura preventiva, servirà». Intanto Bibi ha blindato la sua rielezione.

La REPUBBLICA - Fabio Scuto : " Israele al voto, la carica dei religiosi record di rabbini nella nuova Knesset "


Fabio Scuto                      Naftali Bennett

La Repubblica continua ad insistere sulla forza degli ultraortodossi, attribuendo loro un successo elettorale che non rispecchia la realtà. I sondaggi specificano chiaramente che a votare Naftali Bennett non sono gli ultraortodossi, ma i laici, perciò associare i suoi risultati elettorali ai partiti religiosi non ha nessun fondamento.
Ecco il pezzo:

GERUSALEMME—Corre con la certezza che dal voto di oggi in Israele, otterrà il suo quarto mandato da premier Benjamin Netanyahu, ma non sarà quella vittoria trionfale che "King Bibi", soltanto tre mesi fa, si aspettava. La sua formazione Likud-Beitenu, con il nazionalista Avigdor Lieberman, uscirà — ci dicono i sondaggi israeliani che però non azzeccano una previsione dal 1999 — come partito di maggioranza relativa con 33-35 seggi sui 120 della Knesset. Un'erosione rispetto al 2009, quando i due partiti separati portarono a casa 42 deputati, provocata dalla forte aspettativa per la novità nella destra del panorama politico: "Focolare ebraico", il partito nazionalista religioso animato dal milionario Naftali Bennett, ex capo dello staff di Netanyahu, si appresta a diventare ilterzopartitocon 14 seggi in Parlamento. Bennett, portavoce per anni dei coloni, fra le altre cose sostiene che sia «inevitabile» l'annessione del 60 per cento della Cisgiordania palestinese. È con questa "nuova destra" e con i famelici partiti religiosi Shas e United Torah Judaism (15 seggi previsti) che Netanyahu dovrà trovare una maggioranza che affronti prima di tutto i seri problemi economici che attraversa Israele, come chiede la maggioranza degli elettori. Sul fronte dell'opposizione risale, sull'onda delle grandi proteste sociali dell'estate 2011, il Labor guidato dall'ex giornalista ShellyYachimovich (16- 18 seggi) e "Hatnua" — il neo-partito guidato da Tzipi Livni (7-9). Ma anche con il sostegno dei tre partiti arabi un fronte anti-Netanyahu che unisca tutta l'opposizione sembra destinato a restare inchiodato ai 55-57 seggi. Fino  a ieri sera per tutti, da Netanyahu alla Yachimovich, è stata caccia all'ultimo voto, perché come titolava il quotidiano Haaretz ieri mattina c'è ancora il 15 per cento di indecisi. Una fetta elettorale che vale 18 seggi. Non può passare inosservata in queste elezioni la forte presenza di candidati religiosi. Gli ebrei ortodossi hanno lasciato i partiti di nicchia per unirsi al Likud e agli altripartitiprincipali, sfidando il dominio laico fra i politici e infondendo alla politica israeliana un fervore religioso e certamente una linea più dura nel negoziato con palestinesi. Tutti i partiti, di destra, di centro e di sinistra, hanno candidato rabbini epersonalitàreligioseortodosse. Le previsioni indicano che la 19esima Knesset avrà un record di 40 deputati religiosi, in quella uscente erano 25 e solo una ventina di anni fa si contavano sulle dita di una mano. Mentre alcuni settori della società israeliana gioiscono, ha molti timori invece la maggioranza laica. Perché la tendenza può alterare l'identità di una nazione che non ha mai segnato i delicati confini fra religione e Stato, e che al suo interno ha anche una sostanziale minoranza araba musulmana. Una inchiesta condotta lo scorso anno indica che solo il 22 per cento degli ebrei israeliani si dichiara osservante—ortodosso o ultra-ortodosso—mentre ben il 78 per cento si dichiara laico. I religiosi si troverebbero a esercitare quindi un ruolo e un'influenza sproporzionata nella società israeliana. Stando a molti sociologi israeliani i movimenti religiosi che cercano di espandere gli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata e che negano ai palestinesi uno Stato, stanno soppiantando, come simbolo auto-dichiarato della missione di Israele, i potenti kibbutz di una volta. E quest'ascesa nella società israeliana è stata alimentata dalla diffusa disillusione sul negoziato di pace con i palestinesi, e dall'esito delle rivolte arabe che negli ultimi due anni hanno portato al potere gli islamisti, facendo sembrare fragile anche il trattato di pace di Camp David con l'Egitto del 1979.

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