Dal SOLE24ORE-Supplemento Domenica da Collezione- riprendiamo l'articolo di David Bidussa sugli intellettuali nel Terzo Reich. Dal CORRIERE della SERA- Supplemento La Lettura- il pezzo di Pierluigi Battista sulle responsabilità degli intellettuali oggi, nella recensione del libro di Agnese Silvestri " Il Caso Dreyfus e la nascita dell'intellettuale moderno", pubblicato da Franco Angeli editore.
Il Sole24Ore-Domenica da Collezione- David Bidussa: " Quei 'patrioti'nelle SS'


David Bidussa
«Chiedo che la Corte tenga conto del fatto che gli imputati qui presenti sono entrati nelle loro unità convinti di essere sostenuti, spinti da un'autentica e vera forza morale. Hanno pensato che il loro lavoro fosse necessario anche se andava contro le proprie inclinazioni e interessi, perché l'esistenza del loro popolo era mortalmente minacciata. Erano gli stessi buoni cittadini che si trovano a milioni in ogni Paese. (...) Hanno sentito di essere stati proiettati in una guerra gigantesca, inevitabile, orribile che non avrebbe deciso solo della sopravvivenza della loro nazione, della loro famiglia e di loro stessi. (...) Non erano nella condizione di giudicare la necessità e i metodi di questa guerra. (...). Non ho mai perso la fede in Dio presente nella storia anche se noi non possiamo comprendere le Sue vie, ...».
È uno dei passi salienti della dichiarazione che Otto Ohlendorf, capo del SD – il servizio di informazione delle SS – tra il 1939 e il 1945, pronuncia il 13 febbraio 1948 a Norimberga, prima che la corte si ritiri per emettere la sentenza contro di lui. Ohlendorf è uno dei responsabili delle centinaia di migliaia di esecuzioni di massa, perpetrati tra 1941 e 1945 in Europa orientale, soprattutto in Unione Sovietica, nel corso della guerra. Una guerra che ha l'obiettivo di riscrivere la geografia umana del continente: non solo dove devono stare alcuni individui, nella scala gerarchica e nel territorio, ma anche dove altri individui non devono stare più e per i quali non c'è un altrove, ma solo la morte: rapida, veloce, industriale, di massa. A costo zero, se possibile.
Come commenta Christian Ingrao (pag. 342) in quelle parole distaccate, oggettive, "patriottiche", volte a sottolineare il senso del dovere, apparentemente aliene da una professione ideologica, sta la quinta essenza del «credo nazista».A quel credo, alla costruzione della sua retorica, ma soprattutto al passaggio dalle convinzioni alle azioni, dal dire al fare – e visti i numeri degli sterminati al realizzare – è dedicato il libro di Christian Ingrao, testo che si concentra sul percorso biografico, mentale, culturale e operativo di un gruppo ristretto di figure. Oggetto dell'indagine sono ottanta "funzionari" e dirigenti intermedi delle SS che hanno alcune caratteristiche specifiche: non nascono come militanti di partito, anzi spesso entrano nel SD senza essere iscritti al partito; non ne hanno attraversato la fase movimentista; non hanno partecipato se non in misura minima alle sue organizzazioni laterali; hanno un'infanzia vissuta durante la prima guerra mondiale da cui escono traumatizzati e in competizione con i loro padri, sconfitti; hanno un percorso di formazione universitaria, in gran parte definito intorno a discipline come diritto, economia, scienze sociali. In breve sono degli intellettuali tecnici.
Ma il loro rapporto con il SD e con l'ideologia nazista non è "burocratico". Come dimostra Ingrao quel percorso culturale, politico, diviene militante e fondato su due percorsi che rappresentano l'adesione allo spirito programmatico del nazismo.
Il primo: la convinzione che l'espansione a Est, la costruzione del Reich, il "riscatto" della Germania, implichi un recupero della sua dignità sottomettendo le popolazioni slave, collocandole nello scalino più in basso, per "liberare" le popolazioni di origine tedesca dall'oppressione che avrebbero subito da quelle popolazioni, dopo la disfatta del Reich guglielmino nel 1918. È quello che Ingrao denomina come progetto securitario.
Il secondo: l'adesione convinta a una guerra totale contro ciò che la propaganda nazista ha definito la minaccia all'esistenza della Germania rappresentata dal binomio ebrei-comunisti. È il passaggio dalla conquista con degrado delle popolazioni vinte, caratteristica della prima fase della guerra, all' annientamento che inizia sistematicamente prima nei confronti degli ebrei e poi anche di una parte consistente delle popolazioni slave, soprattutto russi, dal giugno 1941. È quello che Ingrao denomina come progetto genocidario.
Un'azione in cui l'ideologia del presunto accerchiamento della Germania sostenuto dal nazismo (e assorbito dai funzionari) produce la pratica dello sterminio visto come l'atto liberatorio da una minaccia altrimenti mortale. Un processo in cui sterminare è un dovere da compiere. Il segno di un lavoro ben fatto, tecnicamente riuscito, compiuto senza emozioni. Un gesto burocratico preventivo e una guerra sterminativa per legittima difesa in nome della salvaguardia del proprio mondo e per i quali «fare il genocidio» non costituisce problema.
Una convinzione che assorbe questo nucleo di "tecnici" e intorno a cui Ingrao scava con attenzione. Un percorso che nasce dentro l'adolescenza, si origina dalla frustrazione della sconfitta all'uscita della Prima guerra mondiale - quando la maggior parte di loro ha tra i 13 e i 16 anni. Una conseguenza di essere stati traumaticamente «bambini della guerra».
Una condizione che non è l'effetto dello spirito del tempo di cui dopo dissero di essere vittime, perché di esso furono i creatori, più che i sostenitori. Uno spirito di cui il nazismo rappresenta ai loro occhi una risposta cercata, più che una proposta trovata.
E che non si chiude allora. Si chiede, infatti, Ingrao, alla fine, se quella condizione non ritorni anche anni dopo, nei traumi di chi da bambino, negli anni'40 ha visto e subìto le azioni di Hermann Behrends responsabile della divisione SS "Handschar" – composta da croati, bosniaci e kossovari musulmani, operativa in Serbia e Montenegro –, in luoghi per noi oggi carichi di sangue e di ferocia come Monstar, Tuzla, Bihác. Chissà che anche lì non si siano generati altri "bambini della guerra" che in anni recenti hanno iniziato il loro progetto genocidario. Una catena difficile da spezzare definitivamente.
Corriere della Sera-Lettura-Pierluigi Battista: " Fiori all'occhiello del potere, il loro impegno è capovolto "


Un tempo le firme degli intellettuali in calce all'ennesimo appello per una Buona Causa incutevano rispetto e timore. Oggi, un po' meno. Un tempo il D'Accuse di Zola scombussolò la Francia antisemita che aveva condannato l'innocente Dreyfus. Oggi i grandi «funzionari dell'Umanità», come un tempo venivano ironicamente definiti gli intellettuali, firmano e firmano. Ma non è poi che abbiano tutto questo seguito. Al massimo, pare che alzino un po' l'audience dei programmi tv. p La storia dell'intellettuale moderno comincia un po' meno di tre secoli fa, nelle strade di Parigi. P Non che prima non esistessero i còlti adusi a lavorare con l'intelletto. Ma erano studiosi appartati, eruditi, amanti del sapere. Platone a parte, che inventò l'utopia politica governata dai filosofi onniscienti, a nessun intellettuale era venuto in mente di fare «l'intellettuale». Nella Francia pre-rivoluzionaria del Settecento nasce invece l'intellettuale battagliero che vuole illuminare le tenebre della superstizione, demolire l'ordine sociale consacrato dalla Tradizione e creare un mondo tutto nuovo, facendo tabula rasa del passato. L'intellettuale moderno, talvolta come Voltaire venerato come un prezioso consigliere dai monarchi illuminati come Federico il Grande, molto più Servitù volontaria Stalin telefonava a Pasternak di notte per terrorizzarlo, Mussolini mise a libro paga l'intellighenzia italiana spesso costretto a sopravvivere con gli scarsi proventi della propria produzione culturale, nasce in Occidente. Come ha scritto Joseph Schumpeter, nasce per criticare tutto e dunque per criticare la società che gli dà la possibilità di parlare. Nelle società immobili, i mandarini della cultura servono il Potere. Nelle società dinamiche e instabili della modernità, gli intellettuali si pongono come antitesi del Potere. In realtà diventano potere culturale e influenzano l'opinione pubblica. Ma la fonte del loro potere è di essere «contro». In un libro uscito in questi giorni, Il caso Dreyfus e la nascita dell'intellettuale moderno (Franco Angeli, pp. 416, 17), Agnese Silvestri spiega con documentato gusto del dettaglio come si forma e si plasma una figura destinata a esercitare una potentissima influenza fino a pochi anni fa. Ma Zola accusò con il suo celebre articolo il Potere che aveva condannato un innocente per sfogare l'odio verso gli ebrei. Avesse scritto a favore del Potere, come molti altri «intellettuali» anti-dreyfusardi pure fecero, non sarebbe diventato il simbolo dell'intellettuale-profeta, dello scrittore, dell'artista, del filosofo, del musicista che non sale in cattedra, ma sale su un podio per sferzare le ingiustizie della società, per farsi ammirare e per mettere paura ai potenti. L'intellettuale militante ha bisogno di un pubblico vasto. Karl Marx non avrebbe probabilmente avuto l'enorme influenza che si guadagnò con il Manifesto del partito comunista, se si fosse limitato a scrivere un'opera ponderosa come Das Kapital. Per non essere un «chierico» rinchiuso nelle biblioteche, il topo d'archivio che si perde nella polvere di tomi inaccessibili, per diventare l'intellettuale che non si limita a interpretare il mondo, ma vuole cambiarlo e anzi rovesciarlo, bisogna parlare a vasti strati della società. L'intellettuale, per essere un vero intellettuale, deve essere «interventista», dire la sua, godere di un prestigio immenso. Ovviamente, la storia è ironica e beffarda e ha fatto sì che l'intellettuale, nato contro il Potere, diventasse nel corso del Novecento un servitore zelante del Potere che trae invece la sua legittimità dall'aver rivoluzionato l'assetto dell'Ancien Régime. Ecco allora le schiere degli intellettuali che hanno accarezzato il pelo dei dittatori, che hanno cantato le lodi del totalitarismo, che hanno esaltato la potenza delle polizie segrete, dei campi di concentramento e di sterminio. Servitù volontaria, non solo coatta. Stalin sadicamente buttava giù dal letto con telefonate notturne Boris Pasternak per terrorizzarlo. Mussolini mise a libro paga del regime praticamente la quasi totalità dell'intellighenzia italica. Hitler aveva bisogno dell'architetto Albert Speer per eternizzare le realizzazioni del Reich millenario. Ma il fatto clamoroso era che gli intellettuali che non avevano bisogno di adulare i potenti si sottoponevano lo stesso all'autocensura ideologica, alla caccia al reprobo dissidente. Jean-Paul Sartre, il filo- sofo, scrittore e drammaturgo che affascinava la Parigi ribelle del dopoguerra e con il suo «impegno» aveva costruito la retorica giusta per dare all'intellettuale il senso di una missione, nello stesso tempo voleva imporre ad Albert Camus il silenzio complice sugli orrori del Gulag. Eppure un paio di generazioni di «intellettuali» videro nel sartrismo una nuova religione e in Camus un molesto «deviazionista» che osava mettere in discussione l'integrità del Dogma. *** In Italia gli intellettuali hanno avuto la loro epopea, i loro caffè, le loro riviste, i loro partiti. Hanno trovato nella cultura «impegnata» un modo per dare un senso di pienezza e di ricchezza spirituale al loro lavoro. Se ne sono avvantaggiate la sinistra e anche (minoritariamente) la destra, più abituate al lessico ideologico, più legate a un'idea della cultura come «prender parte». Dalle parti della Dc invece no, gli intellettuali militanti non erano particolarmente graditi (molti dirigenti erano straordinariamente còlti, ma non era questo il punto). La sinistra aveva una casa editrice come l'Einaudi, la Dc al massimo le Edizioni Cinque Lune. Gli intellettuali hanno bisogno dei «domani che cantano», e quando i domani non cantano più e subentra la disillusione, allora anche il ruolo dell'intellettuale militante e impegnato si appanna e si indebolisce. Ecco perché gli intellettuali diventano sempre più dei fiori all'occhiello, delle figure fisse nel casting del nuovo potere. Lo aveva capito Pasolini, e infatti gli intellettuali, quando PPP era in vita, lo sbranarono. Oggi, non fanno paura più a nessuno.
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