Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Quale sarà il futuro della Siria ? Bibi Netanyahu incontra re Abdallah di Giordania. Cronache di Francesca Paci, Daniele Raineri
Testata:La Stampa - Il Foglio Autore: Francesca Paci - Daniele Raineri Titolo: «Israele e Giordania, asse per il dopo-Assad - In Siria Putin lavora per togliere agli occidentali ogni ragione d’intervento»
Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 28/12/2012, a pag. 15, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Israele e Giordania, asse per il dopo-Assad ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " In Siria Putin lavora per togliere agli occidentali ogni ragione d’intervento ". Ecco i pezzi:
La STAMPA - Francesca Paci : " Israele e Giordania, asse per il dopo-Assad"
Bibi Netanyahu con re Abdallah di Giordania
Francesca Paci
Sebbene tre mesi fa sembrasse pronto a gettare la spugna, l’inviato dell’Onu e della Lega araba Brahimi è tornato a Damasco chiedendo «un cambio vero» e la nascita di «un governo provvisorio con pieni poteri». Il rinnovato impegno della comunità internazionale nella soluzione della crisi siriana, però, non significa che la diplomazia sia destinata a trionfare. Anzi. L’incontro segreto tra il premier israeliano Netanyahu e il re giordano Abdullah II suggerisce piuttosto come i vari attori regionali lavorino dietro le quinte per garantirsi un riparo dal terremoto in corso anche a costo di alleanze temporanee quanto ardite.
Quasi due anni di guerra civile e oltre 45 mila morti insegnano che quella siriana è una partita aperta, per capire la quale non bastano le due squadre in campo. Mentre la Coalizione nazionale siriana, principale gruppo dell’opposizione, dichiara a Brahimi la propria disponibilità a qualsiasi transizione che escluda Assad, le voci di una richiesta di asilo politico in Venezuela da parte della famiglia del presidente suggeriscono che neppure lui prenda davvero in considerazione l’ipotesi di restare fino al termine del suo mandato a dicembre 2014. Anche l’ammissione del vicepresidente siriano Farouq al-Shara che nessuno dei contendenti possa vincere militarmente conferma la ricerca di Damasco d’una exit strategy. Ma quale, escludendo ormai che Bashar Assad (non la moglie e i figli) possa fuggire?
Se il signore di Damasco pensasse di battersi fino all’apocalisse troverebbe sulla sua strada Netanyahu che, rivelano media israeliani, avrebbe incontrato Abdullah II per discutere, mappe alla mano, la possibilità di attaccare gli arsenali chimici siriani (bocciata da Amman) o d’inviare una forza internazionale di 8 mila uomini a occuparsi delle armi non convenzionali. Israele, che sta costruendo una nuova barriera di 54 km tra le alture del Golan e la Siria, teme l’impiego di gas nervino forse più del caos post Assad. Ma anche il sovrano hashemita non dorme sonni tranquilli, anche perché nel frattempo fronteggia una rivolta interna contro il caro gas e per le riforme, che le elezioni parlamentari iniziate domenica non placheranno facilmente. L’asse israelogiordano sintetizza l’urgenza e l’eterogeneità del fronte anti-siriano con la Turchia atlantica e le monarchie del Golfo ben felici di lasciare ad Amman l’onere di parlare con Netanyahu (ed eventualmente a Israele il lavoro sporco di bombardare gli arsenali siriani).
Scartato lo scenario zelota di Assad che si barrica con gli alawiti nella zona di Latakia, restano i negoziati. Ieri il viceministro degli esteri siriano Faisal Muqdad ha preceduto Brahimi a Mosca per sondare l’amico russo che da giorni pare tentato dallo scaricare Damasco.
Difficile credere a questo punto che la dittatura siriana frani entro febbraio, come si vagheggia nel Golfo calcolando che la guerra costa a Assad un miliardo di dollari al mese (gliene sarebbero rimasti solo due) e che gli Usa vorrebbero dotare i ribelli di missili Stinger. Ma, che imploda, esploda o si smorzi senza il botto, il regime di Damasco sembra aver passato il punto di non ritorno.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : "In Siria Putin lavora per togliere agli occidentali ogni ragione d’intervento"
Bashar al Assad con Vladimir Putin (foto di archivio)
Daniele Raineri
Roma. La Russia toglie ai paesi occidentali ogni possibile ragione d’intervento in Siria in modo sistematico e preventivo. Crescono i rumor sulle chance di un’azione militare di Washington per mettere in sicurezza i depositi delle armi chimiche che rischiano di uscire dal controllo dell’esercito siriano e di cadere nelle mani dei gruppi ribelli? Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, dice ai giornalisti – sabato, su un volo di ritorno da Bruxelles – che “le armi chimiche della Siria sono state portate al sicuro, in uno o due posti, dall’esercito, che opera con l’aiuto di consiglieri militari russi”. Questa valutazione è stata condivisa anche dal governo israeliano, che ha detto: “In questo momento le armi sono al sicuro, non c’è il rischio che cadano in mano ai ribelli” – una rassicurazione significativa, considerando che nei mesi scorsi (la data non è stata specificata) il rischio era stato così alto che il primo ministro Benjamin Netanyahu è stato in Giordania per convincere il governo di Amman a dare l’assenso a uno strike aereo israeliano preventivo contro i siti delle armi chimiche. Ora, pare, non ci sarebbe più motivo, e in questo campo il parere degli israeliani è considerato Cassazione. La Nato schiera sulla frontiera tra Turchia e Siria sei batterie di missili Patriot, capaci se fosse il caso anche di colpire gli aerei dei piloti di Damasco dentro lo spazio aereo siriano? Esce la notizia speculare del rafforzamento del sistema di difesa antiaereo del governo, grazie all’arrivo di sistemi d’arma dalla Russia, che sarebbero sorvegliati e maneggiati da staff di militari russi – notizia pubblicata sul Guardian del 23 dicembre. “I missili di Putin complicano ogni eventuale piano d’intervento americano in Siria”, commenta il quotidiano britannico. Le navi da guerra americane abbandonano le acque al largo della Siria? Arrivano quelle russe, un po’ perché – come spiega l’agenzia Interfax – Mosca vuole essere pronta in caso di evacuazione di massa dei russi dalla Siria, e un po’ per una grande manovra militare nelle acque del Mediterraneo, anche nella base di Tartous sulla costa siriana. Nelle ultime due settimane Mosca ha mandato segnali forti al presidente Bashar el Assad: non deve riporre speranze nell’aiuto russo, non c’è alcun sostegno cieco e incondizionato da parte del Cremlino. Anzi, Vladimir Putin nella conferenza stampa di fine anno ha detto di considerare il cambiamento a Damasco inevitabile dopo “quarant’anni al potere di una sola famiglia”. Queste dichiarazioni, assieme al ping pong militare descritto sopra, formano la dottrina russa nella fase terminale del governo Assad: la priorità è in ogni caso tenere i paesi stranieri alla larga dalla Siria, se è il caso anche aiutando il governo a mettere in sicurezza le armi chimiche. Il presidente Bashar è funzionale a questa dottrina, ma non è indispensabile. Ci sono altri membri dell’establishment che possono offrire garanzie di collaborazione con Mosca. Per questo la Russia si è posizionata al centro dei nuovi colloqui per trovare una soluzione alla crisi. Due giorni fa il viceministro degli Esteri siriano, Faisal al Miqdad, è andato via terra a Beirut per volare a Mosca (l’aeroporto internazionale di Damasco non è più agibile, causa combattimenti con i ribelli troppo vicini). Miqdad ha incontrato Lavrov. Sabato è atteso a Mosca anche l’algerino Lakhdar Brahimi, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, dopo cinque giorni passati a Damasco. Da quanto trapela, pare che la nuova proposta di trattativa parta dal negoziato di Ginevra di giugno, poi abortito rapidamente, che prevedeva la formazione di un governo di transizione di cui farebbe parte anche il presidente Assad, condizione che fu rifiutata dall’opposizione. L’esistenza di un piano di pace congiunto russo-americano è stata smentita dai russi e anche da Brahimi: “Vorrei che esistesse davvero”, ha detto l’inviato Onu. Una disperata battaglia urbana a Damasco Se il negoziato russo fallisce, cosa che pare assai probabile dal momento che Mosca è considerata troppo vicina al governo siriano dai ribelli, si va verso l’opzione peggiore: una lunga, disperata battaglia urbana a Damasco, sul modello di quella che non è ancora finita a nord, ad Aleppo, ma anche più cruenta, perché sarebbe quella decisiva e finale. Già il bollettino quotidiano delle vittime indica uno spostamento della guerra, ora la maggioranza dei civili uccisi cade nei dintorni della capitale, e non più nel centro e nel nord del paese: è il segno che la battaglia sta arrivando al centro del potere.
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