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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera-La Stampa Rassegna Stampa
23.12.2012 L'Egitto sotto il tallone di Morsi
Cronache di Cecilia Zecchinelli, Francesca Paci

Testata:Corriere della Sera-La Stampa
Autore: Cecilia Zecchinelli-Francesca Paci
Titolo: «Egitto verso il sì alla Carta, nuove dimissioni eccellenti-Nella Luxor dell'era Morsi i turisti sono solo un ricordo»

L'Egitto, sotto il tallone del Presidente Morsi, procede a tutta velocità verso il baratro grazie alla Shari'a trionfante e al crollo dell'economia dovuto alla crisi del turismo. Una fine più che prevedibile, come si evince dai pezzi di Cecilia Zecchinelli sul CORRIERE della SERA di oggi, 23/12/2012, a pag.13, e di Francesca Paci sulla STAMPA a pag.15.

Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " Egitto verso il sì alla Carta, nuove dimissioni eccellenti"

L'Egitto domani annuncerà l'approvazione della nuova Costituzione, con un margine ancora non precisato ma salvo colpi di scena ormai certo, dopo il referendum conclusosi ieri in 17 province. Una vittoria per il raìs Mohammed Morsi e la Fratellanza musulmana che lo ha portato al potere, ma il clima sul Nilo non è certo di festa. Il Paese è sempre più diviso, lo scontro politico più acceso, la crisi economica più drammatica. Ieri, a poche ore di distanza, due collaboratori eccellenti di Morsi si sono dimessi (anche se sul secondo manca la conferma ufficiale), dopo almeno un mese di tentativi da parte del raìs per convincerli invece a restare. Il vicepresidente Mahmoud Mekki ha lasciato senza spiegazioni, ma tutti sanno che questo giudice riformista, grande difensore dei magistrati sotto Mubarak, non ha accettato l'ultimo accentramento di poteri di Morsi che il 22 novembre per decreto ha scavalcato anche i giudici. Nella nuova Costituzione il ruolo di vice-raìs non è nemmeno previsto e le sue dimissioni sarebbero una mossa preventiva. Ma fonti del Cairo precisano: «Mekki ha capito di essere stato usato, non ha mai avuto nessun potere effettivo. È furioso e può solo andarsene».
L'altro dimissionario, effettivo o comunque potenziale dopo che la notizia è stata data dalla tv di Stato e poi smentita, è una figura ancora più cruciale. Il governatore della Banca centrale egiziana, Farouk Al Oqda, da nove anni a capo dell'istituto di emissione, non vuole più restare al suo posto. Anche lui si è più volte scontrato con Morsi che finora l'ha trattenuto. Alla base del contrasto c'è la recente crisi che ha lasciato il raìs e la Fratellanza isolati, il prestito ormai concordato con il Fmi per 4,8 miliardi di dollari e poi sospeso per la crisi, gli aiuti della Ue bloccati per lo stesso motivo. La lira egiziana è sotto attacco e si parla di svalutazione (come chiesto dal Fmi), nonostante gli interventi della Banca centrale: per l'economia è allarme rosso. E Al Oqda, si dice in Egitto, non vuole assumersi più responsabilità nell'assenza di possibilità di manovra.
In questo contesto conta così relativamente l'approvazione della nuova Carta, che l'opposizione respinge perché carente sui diritti umani e troppo ambigua sulla sharia mentre denuncia brogli nei due turni del referendum. Anche se il 56% di «sì» toccato nelle prime province settimana scorsa sarà alla fine superato, il Paese è spaccato e le elezioni parlamentari che dovrebbero tenersi entro due mesi porteranno solo a ulteriori divisioni dell'Egitto. E a un aumento dell'instabilità.


La Stampa-Francesca Paci:" Nella Luxor dell'era Morsi i turisti sono solo un ricordo"

Non si vede più nessuno, il turismo è morto come i Faraoni», sospira il tassista Hamdi Fatahalla Ebai indicando la colonna di carrozzelle parcheggiate lungo la corniche di Luxor. Da mesi Hamdi fa la spola con l’aeroporto un paio di volte al giorno, briciole rispetto alle venti corse quotidiane del 2010: «La crisi tra il presidente Morsi e l’opposizione ha messo in fuga anche i pochi stranieri che iniziavano a riaffacciarsi, per noi è una catastrofe». Qui, nel più grande museo all’aperto del mondo, tra i colonnati dell’antica Tebe e la tomba di Tutankhamen, la transizione egiziana alla democrazia pesa come una biblica traversata del deserto.

«Sono un rivoluzionario della prima ora e non mi pento perché capisco che ci vuole tempo, ma da queste parti l’unica risorsa economica è il turismo», spiega la guida Ahmed Aziz, che oggi, se va bene, guadagna 40 euro al giorno per 4/5 giorni al mese. Escluse le scolaresche che sciamano nel cortile di Ramses II, i visitatori del tempio di Luxor si contano sulle dita. Sebbene il ministro del Turismo Hisham Zaazou parli di recupero, 8 su 10 dei colleghi di Ahmed sono disoccupati.

«Gli stranieri stanno tornando, ma solo a Sharm El Sheik e a Hurghada, nei villaggi sulla spiaggia isolati dalla comunità locale e percepiti come più sicuri», ragiona il presidente del sindacato delle guide Moataz Elsayed, seduto nella hall dell’hotel Sonesta, dove la melodia di «Do They Know It’s

Christmas» e il menù degli alcolici sviano dalla reale nazionalità dei pochi ospiti. «Abbiamo soprattutto clienti egiziani», ammette la cameriera Karima di ritorno dal riordino delle stanze, solo il 40% delle quali occupate. Nei due anni seguiti alla caduta del regime, i turisti del Golfo hanno gradualmente sostituito i timorosi europei ma, sottolinea Moataz, «gli arabi preferiscono il mare all’archeologia, tanto che nonostante l’incremento dei voli tra Dubai e il Cairo il Museo egizio è passato dai 10 mila biglietti al giorno del 2010 ai 3 mila attuali».

La protesta della capitale contro i Fratelli Musulmani ha un’eco distorta in piazza Abu al-Hagag, la Tahrir locale. E non solo per la distanza di oltre 650 km. Dei circa 12 milioni di egiziani che direttamente o indirettamente dipendono dal turismo, parecchi vivono a Luxor, dove nel 2010 la biglietteria del tempio di Karnak staccava 16 mila ingressi al giorno (oggi, teoricamente in piena alta stagione, non arriva a duemila). Per questo, nonostante la poca simpatia per gli islamisti (il 20% della popolazione è cristiana), la richiesta di ordine che sale dal colorato quanto deserto suq al Talaat prevale di gran lunga sull’ambizione alla democrazia.

«La chiave del turismo è politica e si chiama sicurezza, ma i nuovi potenti non possono capirlo perché sono passati dalle galere al Parlamento», nota Hafiz Hussein, general manager del tour operator Viking dopo vent’anni trascorsi a capo della polizia turistica di Luxor. Le cifre in suo possesso rivelano che la crisi è più grave di quella causata dagli attentati del 1997, quando la ripresa arrivò dopo 4 mesi: «Nel 2010 l’Egitto poteva contare su 9 milioni di turisti l’anno che rendevano 12 miliardi di dollari. Con Mubarak sono stati cacciati i corrotti ma è svanita la prosperità. Oggi 230 delle 288 barche di Luxor sono ferme, 36 mila delle 40 mila camere d’albergo sono vuote e i tour settimanali della Viking sono passati da 500 a 50».

Hafiz passeggia nella valle dei templi, magica nella sua spettralità, e saluta i suoi ex dipendenti, rivelando che gli agenti in borghese sono quasi più numerosi dei visitatori: «Ai tempi d’oro il turismo rappresentava il 12% per cento del pil, significa che rilanciandolo il governo potrebbe perfino evitare il prestito del Fondo Monetario Internazionale necessario a colmare il deficit dell’11%. Ma i Fratelli Musulmani sono estremisti e, anche se dissimulano, considerano il turismo haram, vietato, senza capire che la loro vera sfida è l’economia».

Raccontano che quando ad agosto Morsi è venuto in visita a Luxor, alcuni residenti di origine inglese si sono prestati a fingersi turisti, su richiesta delle autorità locali, per stringergli la mano e segnalare il bisogno di sentirsi protetti.

«Da uno Stato di sicurezza ci siamo trasformati in uno Stato senza sicurezza, la polizia turistica c’è ma la polizia vera e propria è sparita dopo la rivoluzione lasciando gli stranieri in balia di ambulanti ed eventuali borseggiatori», nota l’egittologo Francis Amin Mohareb passeggiando lungo il viale delle sfingi, 3 km per 996 statue che collegano il tempio di Luxor a Karnak. Gli scavi che prevedono l’abbattimento delle case a ridosso delle rovine dovevano essere inaugurati a febbraio 2011, quando l’unica incognita era la partecipazione dell’allora premier italiano Berlusconi. Invece è uscito di scena Mubarak e l’archeologo Mansour Boraik, direttore generale del Dipartimento di Luxor, supervisiona oggi il cantiere chiuso: «Avevamo già spostato 160 famiglie, ora è tutto fermo». Il Paese, polarizzato tra islamisti e anti-islamisti, insegue la democrazia: Luxor ha il tempo contato.

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