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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Il Giornale Rassegna Stampa
20.12.2012 Libia: strage all'ambasciata americana,la verità sta venendo a galla
la denuncia delle colpe dell'amministrazione Obama per la morte di Chris Stevens

Testata:Il Foglio - Il Giornale
Autore: Daniele Raineri - Gian Micalessin
Titolo: «Il rapporto sulla strage di Bengasi - L’inchiesta su Bengasi è un siluro contro Hillary»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 20/12/2012, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "Il rapporto sulla strage di Bengasi". Dal GIORNALE, a pag. 15, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " L’inchiesta su Bengasi è un siluro contro Hillary ".

Per maggiori informazioni sull'attacco all'ambasciata americana a Bengasi e sulle responsabilità di Hillary Clinton, e dell'Amministrazione Obama nel suo insieme, cliccare sui link sottostanti

http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=46799
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=46869
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=2&sez=120&id=47229

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Il rapporto sulla strage di Bengasi"


Daniele Raineri        Chris Stevens

Sintesi: la Libia è quasi una zona di guerra, al dipartimento di stato avreste dovuto trattarla come tale. Ieri è arrivato un atteso rapporto indipendente – mostrato in anticipo al Congresso – della commissione d’indagine sulla strage di Bengasi dell’11 settembre. La parte pubblica è lunga 39 pagine e sostiene che l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani quella notte furono uccisi perché la protezione delle due ville che ospitavano la missione diplomatica in quella periferia libica era “terribilmente inadeguata” alle circostanze. L’attacco dei terroristi ha avuto successo perché il dipartimento di stato è incapace di farsi trovare pronto, e questa sua incapacità è dovuta alle falle “nella gestione e nella leadership” dentro due uffici – quello che tratta il medio oriente e quello che si occupa della sicurezza dei diplomatici –, al coordinamento scarso tra i suoi uomini e anche alla “grande confusione” a Washington su chi deve prendere davvero le decisioni in materia di sicurezza. Il rapporto ammette che gli americani non avevano capito la situazione in Libia nel post rivoluzione contro Gheddafi: il paese è diventato un contesto pericoloso, infestato da milizie armate fuori controllo e la minaccia di attacchi s’è fatta presente e concreta. Non era necessario, c’è scritto, ricevere un avviso specifico in anticipo su un attentato contro l’ambasciatore per proteggerlo di più, era lecito aspettarselo a prescindere. Era necessario pensare alla sicurezza di Stevens come se fosse stato in movimento in uno degli altri contesti a rischio in cui sono presenti gli americani (come l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan).

Il rapporto ha toni durissimi ma non fa nomi, soprattutto quello del segretario di stato in uscita, Hillary Clinton, che subito ha reagito dicendo che accetta e metterà in pratica le 29 raccomandazioni in appendice: per esempio, i diplomatici americani vanno e vengono dalla Libia e restano troppo poco per capire davvero cosa succede, alcuni meno di quaranta giorni, i loro turni dovrebbero essere allungati a un anno di tempo. Il rapporto potrebbe essere una macchia sul curriculum della senatrice se dovesse decidere di presentarsi come candidata alla presidenza nel 2016, ma il suo impatto è ridotto. L’assistente segretario di stato per la sicurezza diplomatica, Eric Boswell, la sua vice Charlene Lamb e un terzo funzionario dell’ufficio per il medio oriente si sono dimessi dopo che il rapporto è stato reso pubblico. Teste minori, e il vederle rotolare non soddisfa la polemica su Bengasi alimentata dai repubblicani durante la campagna presidenziale. E’ stato detto che quella notte erano a disposizione rinforzi militari per correre in soccorso della missione attaccata e che “la catena di comando” americana rispose con uno “stand down”, non intervenite, alle richieste di aiuto degli assediati. La commissione d’indagine guidata dall’ex segretario di stato, Thomas Pickering, sgombra il campo da illazioni e rende un grosso favore all’Amministrazione: fu fatto tutto il possibile per salvare gli americani. Però smentisce una volta per tutte la prima versione data dalla Casa Bianca: quella sera si trattò di un attacco terroristico pianificato e deliberato, e non di una protesta di massa simile a quella che al Cairo nelle stesse ore minacciava il muro di cinta dell’ambasciata americana – questa prima versione smentita dai fatti è costata a Susan Rice, ambasciatrice alle Nazioni Unite, il posto di segretario di stato.

Il rapporto chiude i conti politici, non la caccia ai responsabili di al Qaida. La traccia s’interrompe alla fine di ottobre, all’ultima missione all’estero di David Petraeus, ex direttore della Cia, volato al Cairo per incontri riservati con i capi dei servizi segreti egiziani. Una settimana prima le forze di sicurezza – su indicazione americana – avevano fatto un raid in un appartamento a Nasr City, quartiere satellite a est della capitale. Il raid ha portato ad altri arresti e alla scoperta di legami tra l’attacco a Bengasi, le proteste contro gli americani al Cairo e la nascita di un nuovo fronte di al Qaida in Egitto, formato da ex detenuti liberati dopo la caduta del presidente Hosni Mubarak. Il fronte gestisce un campo d’addestramento in Libia, ha traffici nel Sinai e ruota anche attorno alla figura di Mohammed al Zawahiri, fratello di Ayman, capo di al Qaida, e figura carismatica e simbolica  per i salafiti egiziani.

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " L’inchiesta su Bengasi è un siluro contro Hillary"


Gian Micalessin             Hillary Clinton

Hillary Clinton se la fila. Ma con vergogna e disonore. Il rap­porto sul disastro di Bengasi, co­sta­to la vita all’ambasciatore Chri­stopher Stevens e ad altri tre ame­ricani, la inchioda alle sue respon­sa­bilità proprio alla vigilia dell’ad­dio alla Segreteria di Stato. E tra­scina nel fango anche il capo della sicurezza del Dipartimento di Sta­to e altri due funzionari costretti alle dimissioni subito dopo la pub­blicazione dell’inchiesta. Il docu­mento di 39 pagine, realizzato dal­l’Accountability Review Board, è un vero atto d’accusa contro un Dipartimento colpevole di aver sottovalutato l’esplosiva situazio­ne di Bengasi.
Il documento critica la decisio­ne di delegare la sicurezza del con­solato a milizie locali e sottolinea come nessuno si sia curato di met­ter a disposizione dell’ambascia­tore una scorta adeguata e prepa­rata. Ignorando le richieste di di­slocare in Cirenaica un maggior numero di guardie armate e di mi­gliorare il sistema di sorveglianza del Consolato, i funzionari di Washington avrebbero di fatto condannato a morte il diplomati­co e la sua squadra. Anche perché il Dipartimento guidato dalla Clinton avrebbe sistematicamen­te sottovalutato l’esplosiva situa­zione di Bengasi prestando poca importanza ai segnali di pericolo. Primi fra tutti un attentato allo stesso consolato e l’assalto a una colonna di diplomatici inglesi ve­rificatisi nelle precedenti settima­ne. «I sistematici errori, le inade­guatezze nella gestione e nella conduzione ad alto livello hanno generato - scrive il rapporto - una situazione inadeguata per Benga­si e assolutamente inidonea a ge­stire un attacco come quello verifi­catosi ».
Di fronte all’atto d’accusa reso pubblico ieri, ma circolato da tem­po ai vertici dell’amministrazio­ne e del Dipartimento, Hillary Clinton contrappone una resa in­condizionata. In una lettera al Congresso il Segretario di Stato uscente sottoscrive tutte le 29 con­clusioni dell’inchiesta, comprese cinque particolarmente gravi te­nute segrete a causa della loro de­licatezza politico­
strategica. «Per onorare adeguatamente quelli che abbiamo perduto - scrive la Clinton - dobbiamo offrire una miglior protezione a coloro che in tutto il mondo continuano a ga­rantire i valori e i vitali interessi na­zionali ». Come dire: ho sbagliato e me ne vado, ma chi mi seguirà cerchi almeno di non ripetere i miei stessi errori.
Il rapporto non distrugge solo l’immagine della Clinton, ma an­che quella dell’ambasciatrice al­l’Onu Susan Rice, considerata in precedenza uno dei possibili suc­cessori di Hillary. Per avvalorare l’imprevedibilità dell’attacco e di­fendere l’Amministrazione la Ri­ce attribuì l’assalto alla diffusione di un film anti-islamico realizza­to negli stati Uniti. La relazione di­mostra che mentiva e ne pregiudi­ca definitivamente la carriera.

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