Molte le interpretazioni sul risultato della breve guerra tra Israele e Gaza. Secondo Pio Pompa, sul FOGLIO, ha vinto Teheran, opposto il parere di Yasha Reibman- che condividiamo- sullo stesso giornale. Federico Steinhaus traccia vari scenari, mentre il Foglio in un editoriale, esamina la questione Onu-Stato palestinese, per finire su REPUBBLICA due analisti americani sostengono che Israele ha testato i suoi sistemi di difesa in previsione dell'attacco all'Iran.
Ecco gli articoli:
Il Foglio-Pio Pompa: " Ha vinto Teheran"

Ahmadinejad
Secondo alcune fonti diplomatiche altamente accreditate, la vera vittoria di Barack Obama non sarebbe stata tanto quella su Mitt Romney, quanto l’aver saputo congelare per oltre un anno – tramite un’offensiva politica e diplomatica senza precedenti – qualsiasi cosa potesse incidere sulla sua campagna elettorale, mettendone in discussione la rielezione. Un’offensiva percepita chiaramente – e spesso subita – sia dalle agenzie d’intelligence americane sia da quelle straniere. Così è potuto accadere che, complici i rapporti segreti stabiliti con Washington, l’Iran continuasse indisturbato il cammino verso l’atomica e che Israele procrastinasse ogni iniziativa militare nei confronti di Teheran e non reagisse nell’immediato – e almeno fino al 6 novembre – al crescente lancio di razzi dalla Striscia di Gaza. Il tutto mentre la crisi siriana continuava a espandersi. Il risultato conseguito è ora sotto gli occhi di tutti e sarà difficilissimo, se non quasi impossibile, porvi rimedio nel breve termine. “Ai vertici di importanti organismi internazionali – confida al Foglio una fonte d’intelligence occidentale – c’è addirittura chi auspica da parte di Teheran l’annuncio del suo ingresso tra le potenze nucleari, ritenendolo l’unico deterrente in grado di porre fine all’eterno conflitto israelo-palestinese”. Il governo israeliano, prosegue il nostro interlocutore, “sarebbe costretto a trattare e a scendere a più miti consigli”. David Petraeus, nel corso della sua breve permanenza a capo della Cia, “aveva ripetutamente avvisato – carte alla mano – l’Amministrazione Obama dei gravi rischi cui esponeva Israele e gli stessi equilibri mediorientali con le sue scelte di politica estera. Quasi ogni giorno – spiega la nostra fonte – venivano inoltrati appunti e dispacci sui progressi del nucleare iraniano, sulla deriva endemica della crisi in Siria, sul rafforzamento del fronte jihadista uscito vittorioso dalla primavera araba e sulle minacce che si addensavano sullo stato d’Israele. Ma la tendenza era quella di minimizzare sistematicamente il tutto, nascondendolo nelle pieghe vischiose delle informative di routine. Qualsiasi cosa doveva essere piegata e adattata alle esigenze politiche e diplomatiche. Un esercizio che a Petraeus non piaceva, al punto da entrare più volte in rotta di collisione con le altre agenzie federali, a cominciare dall’Fbi e dal suo direttore Robert Mueller, fino ai dissidi con il direttore nazionale dell’Intelligence, James Clapper. Lo stesso che, approfittando dell’oggettivo indebolimento di Petraeus, lo ha di fatto costretto a rassegnare le dimissioni da direttore della Cia. Il limite principale dell’ex generale è di aver obbedito troppo. Ha obbedito quando diede il nulla osta al rapporto sui fatti di Bengasi che nella versione originale, fornita dalla Cia, parlava chiaramente di un attentato terroristico pianificato con largo anticipo da elementi di al Qaida. Ha obbedito anche quando ha omesso di dire, durante la sua deposizione alle commissioni d’Intelligence di Camera e Senato, che il rapporto originale della Cia – che la Casa Bianca ha poi ammesso di aver revisionato – rispondeva esattamente a quelli forniti subito dopo l’attentato da altri servizi segreti presenti in Libia, tra cui l’MI6 e il Dgse francese”, continua il nostro interlocutore. La principale vittima dell’operato di Obama resta Israele, costretto a mediare con il presidente egiziano, Mohammed Morsi – che ha accusato Gerusalemme “di crimini contro l’umanità” e diventato ora garante della fragile tregua raggiunta mercoledì sera – ma anche con il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, secondo cui: “Israele dovrà rendere conto dei massacri a Gaza” e, infine, con l’emiro del Qatar, Khalifa Al Thani, uno dei principali finanziatori di Hamas. Quest’ultimo “è stato il regista, a Doha, di un incontro segreto tra emissari di Morsi, di Teheran e del dipartimento di stato americano, senza il quale la tregua tra Israele e Hamas non sarebbe stata possibile. In pratica – afferma la nostra fonte – si è ceduto alle prerogative del regime degli ayatollah, nonostante l’ammissione di aver fornito armi a Hamas. Ecco perché riconoscere, da parte statunitense, il diritto d’Israele a difendersi appare solo un atto dovuto”
Il Foglio-Yasha Reibman: " Netanyahu non ha perso la guerra di Gaza (che non era elettorale)

Bibi Netanyahu ha forse compiuto una scelta impopolare pur di essere popolare. Sebbene il 70 per cento degli israeliani non condividano la conduzione della guerra e soprattutto del cessate il fuoco, Israele ne esce vincitore. Sgombriamo il campo dagli equivoci, purtroppo questo non è tempo di pace, ma solo di tregue, tocca accontentarsi. I critici di professione hanno accusato Netanyahu di non aver tenuto conto del nuovo scenario in medio oriente e di aver portato Israele a un maggior isolamento. E’ vero il contrario. L’Egitto del nuovo faraone Mohammed Morsi era una mina vagante, oggi è garante della tregua. Un Egitto più forte ridimensiona la Turchia di Recep Tayyip Erdogan e magari il primo ministro turco rivaluterà la propria retorica anti israeliana. Hamas ha ottenuto un riconoscimento diplomatico, ma questo dopo la primavera araba e la vittoria dei Fratelli musulmani era inevitabile. Hamas esiste ed esisteva già. Finora era un problema solo per gli israeliani, che son dovuti correre nei rifugi dodicimila volte per i missili lanciati dal 2006, e per i sostenitori di Fatah, sconfitti e fatti fuori nel 2007 a Gaza. Da allora Hamas è padrone della Striscia, ma adesso è entrato nel gioco della politica. Hamas ora ha qualcosa da perdere. Non è Netanyahu ad aver isolato il presidente Abu Mazen, ma è la realtà concreta a dire che Gaza e Anp sono due realtà distinte. Può dispiacere gli affezionati degli anni 90 e del processo di pace culminato nei falliti accordi di Camp David, ma parlare di Palestina come unica entità sembra un’astrazione. Dai combattimenti, Hamas esce indebolito militarmente, i depositi di missili sono stati in gran parte distrutti. Se la tregua regge, Israele ha tranquillizzato il fronte sud. E’ stato anche sfatato il mito della supposta alleanza Hezbollah- Hamas. Per ora non c’è. Dal Libano non si è visto un missile, nel nord di Israele le sirene non hanno suonato. Ora Israele è più libera di occuparsi dell’Iran. La guerra infine ha evidenziato sul campo l’efficacia del sistema antimissilistico israeliano Iron Dome che Israele potrebbe anche vendere. La Nato pare sia interessata. Tutto questo è avvenuto per Israele a costi bassi. E’ stato evitato l’intervento di terra e le conseguenze che ne sarebbero derivate sul piano diplomatico e sulle perdite umane. Le vittime tra i soldati israeliani sono state poche, anche se pur sempre dolorose. Sono state di più, ma molte meno di quelle avvenute in passato con l’operazione Piombo fuso le vittime tra i civili palestinesi. A chi gli mostrava i sondaggi contrari, il ministro della Difesa Ehud Barak ha spiegato che questo significa essere leader. Alla faccia di chi ritiene sia stata una guerra elettorale.
Il Foglio- " Dopo Gaza l'Onu "

Nonostante la posizione contraria degli Stati Uniti – Hillary Clinton nei giorni scorsi a Ramallah ha chiesto al presidente Abu Mazen di posticipare l’iniziativa diplomatica – il cammino all’Onu dell’Autorità nazionale palestinese non si ferma. Il 29 novembre i palestinesi si avviano a ottenere il seggio di paese membro senza diritto di voto all’Assemblea generale, dove detengono una maggioranza automatica. Si tratta di un lungo disegno di Abu Mazen, che si trasforma oggi in una mossa disperata per il leader palestinese, isolato dal ruggito guerresco di Hamas e ignorato persino dagli emiri qatarioti in visita nella regione. Con il passaggio all’Onu, l’Anp cerca uno stratagemma per sottrarsi ai problemi interni – su tutti, la crisi di leadership di Abu Mazen e l’ormai cronico rallentamento della crescita economica in Cisgiordania – e per rinsaldare il proprio declinante ruolo nella regione. Anche l’Europa, pur favorevole alla creazione di uno stato palestinese entro i confini del 1967, è quasi tutta schierata contro l’iniziativa all’Onu, tranne una sparuta truppa di paesi nordici (il resto dalla Francia alla Germania, deve decidere se astenersi o votare contro). Israele si prepara a ritorsioni fattive contro la fuga palestinese dal tavolo dei negoziati e l’internazionalizzazione del conflitto. Per lo stato ebraico, il rischio maggiore che ne deriva è che i palestinesi usino la nuova posizione nella comunità internazionale per far incriminare i generali israeliani di fronte alla Corte dell’Aia. La maggioranza degli israeliani vede lo stato palestinese, che in prospettiva uscirebbe rafforzato dal nuovo status, in termini contraddittori: una necessità per preservare uno stato ebraico democratico, e una minaccia con i missili su Tel Aviv. Il dilemma è come creare questo stato senza porre in pericolo Israele. L’iniziativa all’Onu è pericolosa proprio perché di fatto ignora la sicurezza israeliana. Non a caso nei giorni scorsi, su Gaza, è emersa tutta l’ipocrisia del Palazzo di Vetro. A riprova ci sono venti lettere inviate dai diplomatici israeliani soltanto nel 2012 per chiedere all’Onu non una risoluzione, ma almeno una dichiarazione, contro il lancio di missili da Gaza sui civili israeliani. Tutte rimaste ignorate.
Informazione Corretta-Federico Steinhaus: " Chi vince, chi perde ? 12 motivi di riflessione "

Come in tutte le soluzioni di compromesso, entrambi i nemici-partners possono vantarsi di aver vinto ed entrambi hanno dovuto accettare delle sconfitte. Gli unici che hanno vinto sono l’amministrazione Obama ed il presidente egiziano Morsi, che escono dalla trattativa rafforzati e con una immagine di benemeriti della pace. Perdente “senza se e senza ma” è invece l’Iran. Ma vediamo in dettaglio alcuni elementi non evidenziati a sufficienza dai molti commenti comparsi nei primi due giorni di tregua. 1) Israele, distruggendo le infrastrutture e buona parte delle potenzialità militari di Hamas, ha costretto Hamas a scegliere fra la propria sopravvivenza come organismo politico ed il proprio annientamento. La distruzione di 200 tunnel e 26 magazzini di armi e munizioni ha anche inferto un duro colpo al recupero in tempi rapidi di questo potenziale. 2) Israele, uccidendo i capi militari di Hamas e “salvando” quelli politici, ha mandato un chiarissimo segnale politico: Hamas dovrà accettare di adeguarsi alle leggi della politica se vorrà sperare in un futuro. 3) Israele ha dimostrato, firmando la tregua nel momento in cui era pronto ad una vasta e profonda offensiva a terra, di non voler infierire oltre l’indispensabile contro i palestinesi ed in particolare contro i civili. 4) I termini della tregua sono per ora molto generici e dovranno essere precisati politicamente per renderla stabile. 5) Israele ha costretto l’Egitto ed i Fratelli Musulmani a schierarsi e ad abbandonare al loro destino gli islamisti radicali con la loro opzione di distruggere Israele. 6) Hamas ha ottenuto una legittimazione di fatto sotto il profilo politico e si sta adeguando a questo ruolo: Maashal, il suo capo in dorato esilio prima in Siria ed ora in Egitto, ha già dichiarato che il riconoscimento formale del diritto di Israele ad esistere non è più uno dei punti fondanti di Hamas, che lascerà al futuro stato palestinese (da creare nei confini del 1967 e con capitale Gerusalemme) una decisione in proposito. 7) L’ala militare di Hamas ha esteso alle due principali città israeliane il raggio d’azione della propria potenza, acquisendo una percezione che nell’immaginario dei palestinesi è sicuramente molto positiva – ma è stata duramente punita per questa audacia. 8) Abu Mazen e l’Autorità Palestinese, che avevano evitato di schierarsi, escono drasticamente indeboliti nel loro ruolo di unico partner legittimo di una futura pace con Israele. 9) Anche Hezbollah rientra fra chi ha perso credibilità: se avesse voluto, avrebbe potuto stringere Israele in una morsa aggredendolo da nord mentre esercito, aviazione e riservisti erano concentrati al sud. Non lo ha fatto. Non solo: appena ha puntato verso Israele un paio dei suoi missili l’esercito libanese è intervenuto smantellandoli. 10) La stampa egiziana ha dato molto rilievo al fatto che l’Egitto abbia bloccato una gigantesca fornitura di missili Fajr5, armi e munizioni che attraverso il fiorente mercato nero stavano per entrare in possesso di Hamas. Queste forniture arrivano dall’Iran passando attraverso la Siria, la Libia (!) ed il Sudan per entrare da qui in Egitto. Morsi pare intenzionato a stroncare questo traffico. 11) L’unico grave errore israeliano che ha causato inutilmente la perdita di vite fra i civili è stato il bombardamento della casa in cui viveva la famiglia al-Duba; i media arabi hanno dato molto rilievo all’uccisione dei 4 bambini e dei loro genitori, ma nell’opinione pubblica mondiale questa evento non ha causato effetti lontanamente paragonabili ad altri – falsi – episodi di presunti massacri di civili da parte israeliana. 12) La dimostrazione congiunta di una invincibile forza e di uno straordinario senso di responsabilità ha garantito ad Israele un consenso internazionale che tornerà utile quando si arriverà all’inevitabile confronto con la minaccia iraniana. Sotto il profilo strategico, questa guerra ha anche modificato l’assetto militare israeliano, dando alla difesa un’importanza che prima dell’impiego massiccio della “cupola di ferro”, una invenzione interamente israeliana, era trascurabile; in tal modo si sono poste le premesse per un ribilanciamento fra la produzione di mezzi offensivi di terra, quali carri armati, e quelli strettamente orientati alla difesa od alle azioni di precisione dall’aria, non cruente per gli israeliani. Benché sia come al solito circondato da nemici, lo stato ebraico ha ora a che fare con forze politiche, per definizione più flessibili di quelle motivate religiosamente. L’esito della guerra civile in Siria è ancora una incognita e potrà darsi che fra i ribelli la componente di Al Qaeda risulti condizionante, ma una volta eliminata l’influenza iraniana – il che avverrà comunque fra non molto, in un modo o nell’altro – anche questo pericolo si ridimensionerà. L’Africa, nuova terra di conquista per Al Qaeda, è lontana.
La Repubblica- David E.Sanger, Thom Shanker: " Nella Striscia le prove per una guerra all'Iran, così Israele ha testato i suoi sistemi di difesa "

WASHINGTON
— Il conflitto fra Hamas e Israele, conclusosi con una tregua, è a prima vista l’ennesimo episodio di una resa dei conti ripetuta a cicli regolari. Eppure, secondo Usa e Israele, c’è un’altra chiave di lettura: l’offensiva è servita come prova generale per un eventuale scontro armato con l’Iran.
È Teheran la questione più urgente per il premier israeliano Netanyahu e il presidente americano Obama. Divisi dalle tattiche, entrambi concordano che il tempo stringa per risolvere lo stallo sul programma nucleare iraniano: resta solo qualche mese. Un elemento chiave delle simulazioni belliche di Usa e Israele è impedire che l’Iran introduca missili di nuova generazione nella Striscia di Gaza o in Libano, dove Hamas, Hezbollah e la Jihad islamica li lancerebbero su Israele per conto di Teheran nel caso di un attacco israeliano contro l’Iran.
Per certi versi Israele ha usato la battaglia di Gaza per capire quali siano le capacità militari di Hamas e della Jihad islamica (il gruppo più vicino all’Iran). Il primo colpo del conflitto fra Hamas e Israele probabilmente è stato sparato quasi un mese prima a Khartoum, in Sudan, in un altro misterioso episodio della guerra ombra con
l’Iran. Il 22 ottobre un’esplosione ha distrutto una fabbrica destinata ufficialmente alla produzione di armi leggere; due giorni dopo le autorità sudanesi hanno denunciato un raid militare israeliano. Il governo di Tel Aviv non ha commentato, ma fonti israeliane e americane affermano che il Sudan è uno dei principali punti di transito per il contrabbando di razzi iraniani
Fajr,
del tipo lanciato da Hamas su Tel Aviv e Gerusalemme.
Ovviamente un conflitto con l’Iran sarebbe ben diverso. Poco prima dell’offensiva a Gaza, gli Usa insieme agli alleati Ue e alcuni Paesi arabi del Golfo, hanno condotto esercitazioni di sminamento in mare nell’eventualità
che l’Iran dissemini di esplosivi lo Stretto di Hormuz per colpire il traffico commerciale.
Ma nei piani israeliani e americani per un conflitto con l’Iran, Israele dovrebbe fronteggiare minacce a più livelli: i missili a corto raggio di Gaza, a medio raggio di Hezbollah dal Libano, e a lungo raggio dall’Iran. Questi ultimi, stando all’Intelligence israeliana e americana, potrebbe comprendere gli
Shabab-3,
in grado di essere armati di testate atomiche qualora l’Iran riuscisse a costruirne. Secondo un ufficiale Usa, le forze armate americane e israeliane hanno ricavato «moltissimi insegnamenti » dalla campagna di Gaza. La sfida è armonizzare i sistemi radar antimissile - e gli intercettori
per missili a corto, medio e lungo raggio - per fronteggiare le varie minacce nel prossimo conflitto.
L’ufficiale è convinto, al pari di altri esperti, che anche gli iraniani stiano compiendo le loro valutazioni di fronte all’imprecisione dei missili forniti a Hamas, e potrebbero cercare di migliorarne la progettazione.
Cupola di ferro,
il sistema antibalistico israeliano, ora schiera 5 batterie antimissile, ognuna del costo di circa 50 milioni di dollari; l’obbiettivo è raddoppiarle. In due anni, gli Usa hanno contribuito oltre 275 milioni di dollari di finanziamenti.
Solo tre settimane fa, nel corso delle più grandi esercitazioni militari congiunte mai realizzate fra i due Paesi, gli americani hanno manovrato batterie di difesa antimissile terra-aria
Patriot,
e navi equipaggiate con il sistema antimissile
Aegis.
Tuttavia,
Cupola di ferro
ha i suoi limiti. È programmata per contrastare solo i missili a corto raggio, con una gittata di 80 chilometri. «Nessuno ha mai dovuto affrontare prima d’ora questo tipo di battaglia», dice Jeffrey White, analista militare, «con missili che piovono sulla metà del Paese. In più, sono missili tutti diversi».
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