venerdi 27 giugno 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



Clicca qui






L'Huffington Post Rassegna Stampa
08.11.2012 Da Nasser 'eroe anticoloniale' a Tel Aviv capitale di Israele
tutti gli sfondoni di Vittorio Emanuele Parsi in un unico articolo

Testata: L'Huffington Post
Data: 08 novembre 2012
Pagina: 1
Autore: Vittorio Emanuele Parsi
Titolo: «Obama vs Romney: il risvolto mediorientale»

Riportiamo dall'HUFFINGTON POST l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo "Obama vs Romney: il risvolto mediorientale ".


Vittorio Emanuele Parsi    Gamal Nasser, l' "eroe anti-coloniale"

Ecco con quali parole Parsi descrive i predecessori di Obama : " tradizione più recente, di inquilini della Casa Bianca allineati, right or wrong, con Israele". Come se Israele fosse sul serio in grado di influenzare la politica del presidente degli Usa. Tra l'unica democrazia del Medio Oriente e le dittature che la circondano è ovvio che un presidente democratico si schieri con la democrazia. O per lo meno, lo era fino alla presidenza Obama.
Parsi definisce "
aggressione tripartita " e "piano surreale" la crisi del canale di Suez, durante la quale Israele, Francia e Gran Bretagna intervennero contro Nasser, definito sorprendentemente " un eroe dell'epopea anticoloniale".
Non è ben chiaro che cosa intenda Parsi con questa frase : "
 la leadership israeliana mostrava, cosa che sarebbe poi divenuta proverbiale, una concezione della storia non anacronistica e una spregiudicatezza politica tutt'altro che decorativa per uno Stato dal recente passato e dall'ancora più incerto futuro (...) tutte doti che negli ultimi quindici/vent'anni sembrano essere andate smarrite.". D'altro canto non poteva mancare una critica a Bibi Netanyahu, colpevole di non essere supino di fronte ai ricatti arabi.
Parsi continua : "
 La stessa relazione tra il presidente Obama e il premier Netanyahu non è mai stata particolarmente intensa, (...) alla perorazione di Obama a favore della nascita di uno stato palestinese accanto a quello israeliano, il primo ministro di Tel Aviv replicò, (...)con l'annuncio della costruzione di 1500 nuovi alloggi per famiglie israeliane nella parte occupata di Gerusalemme. Alla fine fu Hillary Clinton che dovette ammorbidire la dichiarazione di principio americana, mentre gli insediamenti illegali andarono regolarmente avanti.". Gerusalemme non è 'occupata'. E' la capitale di Israele, non è una colonia. Perciò non è possibile definire 'insediamenti illegali' le nuove abitazioni che vengono costruite.
Secondo Parsi : "
Sono fatti come questi che hanno di molto raffreddato l'impatto sulle opinioni pubbliche locali delle iniziative di apertura al mondo arabo e islamico da parte del presidente Obama. Non deve stupire, quindi, se l'influenza americana sulle primavere tunisine o egiziana è stato estremamente limitato, anche in termini di parole d'ordine e di riferimenti ideali.". Gli Usa non hanno avuto alcuna influenza sulle 'primavere arabe' perché esse sono state pilotate dagli islamisti anti americani e anti israeliani. Il tasso di popolarità di Obama nel mondo arabo non ha nulla a che vedere con questo.
Parsi ricorda anche la Libia, con l'assassinio dell'ambasciatore americano Stevens : "
 E proprio sugli esiti più recenti (e incresciosi) della rivoluzione libica, con l'omicidio a Bengasi dell'ambasciatore americano in Libia, per un brevissimo momento la politica estera è sembrata assumere un qualche peso nella campagna elettorale. ". Assassinare un ambasciatore e tre suoi collaboratori è un fatto 'increscioso'?
Parsi continua : "
Ma ancor più paradossale che poco o nulla si sia davvero dibattuto sul come almeno provare a far ripartire una trattativa israelo-palestinese oramai totalmente bloccata, o sul che fare qualora Israele dovesse decidere di rompere gli indugi nei confronti dell'Iran. ". Per quale motivo la questione israelo-palestinese avrebbe dovuto essere il centro dei dibattiti sulle elezioni americane ? Com'è possibile far ripartire i negoziati se la controparte araba continua a porre precondizioni inaccettabili per il solo fatto di sedersi al tavolo delle trattative ? 
Parsi scrive : "
La sensazione, in realtà, è che Romney abbia in testa una strategia più chiara, tradizionale e, soprattutto in questa fase, pericolosa: ovvero il sostegno incondizionato a Israele. ". Sostenere Israele è 'pericoloso', a questo punto di follia si è spinta l'elucubrazione di Parsi.
Non è più pericoloso sostenere gli islamisti, il cui scopo dichiarato è l'instaurazione della shari'a ?
Ciliegina sulla torta, il fatto di continuare a citare Tel Aviv come capitale di Israele. Parsi dovrebbe fare un ripasso di geografia oltre che di storia, come dimostrato dagli strafalcioni contenuti nell'articolo che segue:

Ancora poche ore e anche il Medio Oriente saprà se dovrà iniziare a rimpiangere il presidente degli Stati Uniti meno anti-arabo dai tempi del generale Dwight D. Eisenhower (quello dello sbarco in Normandia, per intenderci) o se si tornerà alla consueta tradizione più recente, di inquilini della Casa Bianca allineati, right or wrong, con Israele.

Intendiamoci, a Barack Obama non è certo ascrivibile nulla di simile a quanto fece il suo predecessore repubblicano nel 1956: provocare il fallimento di quella che in Occidente è pudicamente chiamata "l'impresa di Suez" e nel mondo arabo, più correttamente, "l'aggressione tripartita". Si trattava di un surreale piano ideato dai governi di Parigi, Londra e Tel Aviv per provocare la caduta del regime del colonnello Nasser, da pochi anni installatosi al Cairo dopo che il putsch dei "giovani ufficiali" aveva portato alla fine della monarchia di re Faruk.

Britannici e francesi volevano tornare in possesso del Canale, nazionalizzato da Nasser, e abbattere colui che stava già diventando un eroe dell'epopea anticoloniale, decisamente scomodo per una Francia ancora illusa circa la possibilità di mantenere il controllo dell'Algeria (che avrebbe conquistato l'indipendenza dopo una sanguinosissima lotta solo nel 1962), ma altrettanto ingombrante per la Gran Bretagna, che da Aden esercitava ancora la sua funzione di potenza egemone del Golfo Arabo, gran protettrice di quelle monarchie conservatrici che il progetto panarabo di Nasser minacciava direttamente. Per canto suo Israele era perfettamente consapevole che il nuovo Egitto che il colonnello prospettava avrebbe potuto costituire una minaccia ben più consistente del decrepito regno degli ultimi discendenti dei Mammelucchi.

In fondo proprio la leadership israeliana mostrava, cosa che sarebbe poi divenuta proverbiale, una concezione della storia non anacronistica e una spregiudicatezza politica tutt'altro che decorativa per uno Stato dal recente passato e dall'ancora più incerto futuro. Sia detto per inciso, tutte doti che negli ultimi quindici/vent'anni sembrano essere andate smarrite. In quelle settimane tra la fine di ottobre e il novembre, quasi contemporaneamente al divampare della Rivoluzione d'Ungheria, su precisa indicazione del presidente Eisenhower, le politiche della Fed determinarono il crollo del corso della sterlina, il fallimento dell'aggressione e il tramonto inglorioso dei sogni imperiali di Londra e Parigi, insieme al ritiro israeliano da Gaza.

L'America aveva messo in riga gli alleati e ricondotto la propria politica nella regione alle linee guida della strategia globale di confronto con l'Urss attraverso il contenimento della sua potenza. Nulla di simile è riuscito a questa amministrazione, che mentre vedeva la capacità di "presa" degli Stati Uniti in tutta l'area sfumare tanto nei confronti degli avversari, quanto in quelli dei propri clienti e alleati arabi, si ritrovava soprattutto alle prese con la palese incapacità di riuscire a sottrarsi al condizionamento della propria politica regionale da parte del suo principale alleato, Israele.

Un fatto già denunciato nel recente passato dal generale David Petraeus, quando non era ancora direttore della Cia ma era il responsabile dello U.S. Central Command, il comando da cui dipendono le operazioni militari in Iraq e Afghanistan. La stessa relazione tra il presidente Obama e il premier Netanyahu non è mai stata particolarmente intensa, e ancora si ricorda la tensione dell'incontro del maggio 2011, quando alla perorazione di Obama a favore della nascita di uno stato palestinese accanto a quello israeliano, il primo ministro di Tel Aviv replicò, proprio alla vigilia della sua partenza per Washington, con l'annuncio della costruzione di 1500 nuovi alloggi per famiglie israeliane nella parte occupata di Gerusalemme. Alla fine fu Hillary Clinton che dovette ammorbidire la dichiarazione di principio americana, mentre gli insediamenti illegali andarono regolarmente avanti.

Sono fatti come questi che hanno di molto raffreddato l'impatto sulle opinioni pubbliche locali delle iniziative di apertura al mondo arabo e islamico da parte del presidente Obama. Non deve stupire, quindi, se l'influenza americana sulle primavere tunisine o egiziana è stato estremamente limitato, anche in termini di parole d'ordine e di riferimenti ideali. Unica, rilevante, eccezione la Libia evidentemente, dove però, assai più che il soft power tanto caro a questa amministrazione, hanno pesato assai più gli strumenti del più classico hard power americano: dai cacciabombardieri ai missili cruise. E proprio sugli esiti più recenti (e incresciosi) della rivoluzione libica, con l'omicidio a Bengasi dell'ambasciatore americano in Libia, per un brevissimo momento la politica estera è sembrata assumere un qualche peso nella campagna elettorale.

In maniera piuttosto surreale, però, con un'attenzione tutta spostata sulla "narrativa" dei protagonisti dei fatti di Bengasi (terroristi, rivoltosi?) piuttosto che sulle falle della Cia di Petraeus, sulla difficoltà a gestire il dopo Gheddafi e sulle opzioni per cercare di porre fine al macello siriano... Paradossale. Ma ancor più paradossale che poco o nulla si sia davvero dibattuto sul come almeno provare a far ripartire una trattativa israelo-palestinese oramai totalmente bloccata, o sul che fare qualora Israele dovesse decidere di rompere gli indugi nei confronti dell'Iran.

La sensazione, in realtà, è che Romney abbia in testa una strategia più chiara, tradizionale e, soprattutto in questa fase, pericolosa: ovvero il sostegno incondizionato a Israele. Mentre Obama, non sappia nella sostanza che pesci pigliare, con il rischio di dover finire a dover sostenere "ex post" le politiche del fatto compiuto messe in atto dal governo di Tel Aviv. Non c'è da stupirsi, allora, del distacco e del sostegno tiepido che viene ad Obama dal presidente meno anti-arabo (e non per questo simmetricamente anti-israeliano) della storia americana dai tempi di Dwight D. Eisenhower...

Per inviare la propria opinione all'Huffington post, cliccare sull'e-mail sottostante


lucia.annunziata@huffingtonpost.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT