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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
25.10.2012 In Germania fanno i conti con il passato
un memoriale a Berlino per i rom vittime del nazismo, le foto di Wilhelm Brasse ad Auschwitz

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Alessandro Alviani - Andrea Tarquini
Titolo: «Berlino, un memoriale anche per i rom - Brasse, il fotografo che inchiodò i nazisti»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 25/10/2012, a pag. 19, l'articolo di Alessandro Alviani dal titolo "Berlino, un memoriale anche per i rom". Da REPUBBLICA, a pag. 36, l'articolo di Andrea Tarquini dal titolo " Brasse, il fotografo che inchiodò i nazisti ".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Alessandro Alviani : " Berlino, un memoriale anche per i rom"


Berlino: Il memoriale per i rom         Il mausoleo disegnato da Eisenmann

Monumento dedicato agli omosessuali

Segnaliamo la titolazione del Corriere della Sera, che recita : "Berlino ricorda l'altro Olocausto". E' vero, gli ebrei non furono le uniche vittime del nazismo. Ma il tono sembra quasi suggerire che, a forza di ricordare la Shoah, si sia voluto mettere in ombra la persecuzione dei rom. Niente di più lontano dalla realtà.
Il termine corretto per definire il genocidio degli ebrei è 'Shoah'. Basta con il termine 'Olocausto'. Significa 'sacrificio'. E' stato un sacrificio volontario quello di essere perseguitati, rastrellati dalle città e mandati nei campi di sterminio? Venire utilizzati come cavie umane, assassinati in massa con qualunque mezzo per il solo fatto di essere ebrei?
Ecco il pezzo:

Il luogo del ricordo all’«Olocausto dimenticato», come lo definisce il sopravvissuto Soni Weisz, è nascosto dietro una fila di alberi, che lo rendono invisibile a chi si trovi a passare di lì per caso. Solo un paio di pannelli trasparenti rivolti in direzione del Reichstag, che si erge dall’altra parte della strada, tradiscono la sua presenza. Al di là degli alberi e dei due pannelli c’è una fontana di 12 metri di diametro, con al centro una pietra triangolare sormontata da un fiore, che verrà sostituito ogni giorno da uno fresco. Tutt’intorno i versi della poesia «Auschwitz», composta dal musicista rom italiano Santino Spinelli. Eccolo, il memoriale ai sinti e rom uccisi dai nazisti, inaugurato ieri a Berlino. Un memoriale «che ricorda un gruppo di vittime che per troppo tempo è stato preso in considerazione troppo poco», ammette la cancelliera Angela Merkel nel suo intervento.

Ci sono voluti vent’anni per inaugurarlo: anni di scontri con l’artista israeliano che l’ha creato, Dani Karavan; anni di fratture tra gli stessi rappresentanti delle vittime, divisi tra quanti, come la presidente dell’Alleanza dei sinti, Natascha Winter che proponeva per l’iscrizione la denominazione «zingari» e quanti, come il Consiglio centrale dei sinti e rom, respingeva quella definizione come discriminatoria.

Che cosa sono però vent’anni rispetto ai quasi cinquanta che la Germania ha impiegato per riconoscere ufficialmente questo genocidio? Un passo avvenuto solo nel 1982, due anni dopo che un gruppo di dodici rom, tra cui cinque sopravvissuti ai campi di concentramento, iniziò uno sciopero della fame. Tra loro c’era anche Romani Rose, oggi presidente del Consiglio dei sinti e rom. «In Germania non c’è una sola nostra famiglia che non abbia perso dei parenti, questo plasma ancora oggi la nostra identità», ha detto ieri. Le stime parlano di mezzo milione di sinti e rom ammazzati dai nazisti. Da quel genocidio «la società non ha imparato nulla, quasi nulla, altrimenti oggi ci si comporterebbe in modo diverso nei nostri confronti», constata amaramente Soni Weisz, che ad Auschwitz ha perso i genitori e i fratelli. «Anche oggi sinti e rom soffrono l’emarginazione e il rifiuto», aggiunge Merkel.

Il memoriale, costato 2,8 milioni di euro, si trova nel cuore di Berlino, su un fianco del Reichstag. A non più di duecento metri dall’opprimente mare di stele grigie che compongono il Memorial agli ebrei vittime dell’Olocausto, inaugurato nel 2005; di fronte, si erge, seminascosto dagli alberi del Tiergarten, una grossa stele asimmetrica con una sola apertura, una finestra al di là della quale scorre un video in cui coppie di uomini e donne si baciano con passione: il monumento agli omosessuali perseguitati dai nazisti. Una scelta che si spiega con una decisione presa in passato dalla Germania: quella di non dedicare un unico memoriale centrale ai diversi gruppi di vittime della follia nazista.

La REPUBBLICA - Andrea Tarquini : " Brasse, il fotografo che inchiodò i nazisti"


Wilhelm Brasse mostra una delle sue foto

 

Il suo talento di fotografo gli salvò la vita, ma lo condannò poi a un’esistenza di notti insonni tra i tormenti della coscienza e dei ricordi. Fu il testimone e l’archivista per forza della Shoah, il ‘Ritrattista’ dell’Olocausto, fornì al mondo le prove del Male assoluto.
Wilhelm Brasse, patriota polacco, noto al mondo come “il fotografo di Auschwitz”, è morto a 95 anni nella città natale Zywiec. Con lui scompare un eroe umile e sconosciuto quanto
prezioso per la Memoria. Salvò quasi tutte le 40mila e passa foto di prigionieri che scattò, disobbedendo agli ordini dei nazisti e rischiando la morte. Quella fotogalleria di morti viventi,
spoon river in celluloide, inchiodò a Norimberga ideatori, responsabili e esecutori del genocidio del popolo ebraico.
«Per tutto il dopoguerra tentai invano di ricominciare da fotografo
una vita normale. Ogni volta, nel mirino, mi apparivano quei volti giovani e belli, ragazzi, anziani, fanciulle da registrare subito prima che finissero come cavie degli esperimenti del Dottor
Mengele o vittime del gas Zyklone- B», disse. Forse più d’ogni altro lo tormentava il viso dolce e terrorizzato della quattordicenne Czeslawa Kwoka, assassinata dai nazisti il 12 marzo 1943.
Figlio di un austriaco e d’una polacca, Brasse si sentì polacco da sempre. Come il padre, nel 1920-21 soldato di Pilsudski (che inflisse all’Armata rossa l’unica disfatta della storia). Nel 1939, con l’attacco nazista-sovietico, Wilhelm fu catturato dalla Gestapo. Rifiutò di giurare fedeltà a Hitler, fuggì per unirsi all’Armia Krajowa, l’esercito partigiano, o alle forze armate polacche a Londra. Invano. Catturato, divenne la matricola 3444 di Auschwitz. Un numero come tanti, la professione lo salvò: appunto, fotografo professionista.
Meticolosi e precisi, i nazisti gli ordinarono di fotografare di fronte, di lato e di tre quarti ogni deportato. Brasse fu costretto a scattare istantanee d’ogni momento dell’Olocausto: le giovani sotto i ferri del dottor Mengele, sezionate senza anestesia, o col cemento iniettato nell’utero, 800 prigionieri di guerra polacchi e sovietici mandati per primi nel settembre ‘41 alle ‘docce’ per provare l’efficacia del Zyklone-B, i bimbi scheletriti. A volte, i nazisti gli chiedevano fotoritratti per mogli o amichette. Come lo Umtersturmfuehrer Grabner, condannato a morte dopo il ’45 per 25mila assassinii.
Da fotografo per forza Brasse fu un privilegiato controvoglia, lacerato nel cuore dal senso di colpa, e dalla paura di venire eliminato come testimone scomodo. Nel 1943, il famigerato Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich ordinò di non fotografare più gli “oggetti” della “Soluzione finale”: bastava registrare il numero tatuato sul braccio. Davanti ai sovietici in avanzata, le SS ordinarono a Brasse di bruciare i film. Lui li gettò nelle fiamme, poi partiti i nazisti spense il fuoco, e salvò le prove. Fu deportato a Ovest, e liberato dai GI americani. Tornò a casa, nel ’46 si sposò. Alla moglie non parlò mai di Auschwitz, ma lei sapeva.

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