Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Elezioni Usa, Romney piace al 60% degli americani. Basterà per vincere commento di Fiamma Nirenstein, cronaca di Mattia Ferraresi
Testata:Il Giornale - Il Foglio Autore: Fiamma Nirenstein - Mattia Ferraresi Titolo: «Romney non vince ma convince. Può fare il comandante in capo - Obama lavora sulla percezione della crescita, Romney resiste»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 24/10/2012, a pag. 17, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Romney non vince ma convince. Può fare il comandante in capo ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Obama lavora sulla percezione della crescita, Romney resiste ".
Mitt Romney con Barack Obama
Ecco con quali parole Vittorio Zucconi (La Repubblica, p. 1-29) inizia il suo commento sul terzo dibattito Romney/Obama in vista delle elezioni di novembre : "Obama ha vinto una battaglia, ma sta perdendo la guerra che conta, quella per il portafoglio degli elettori. E la miscela di odio profondo per l’«alieno» usurpatore nero e di ansia da anemia economica ha reso il suo cammino verso la rielezione un sentiero di spine.". Insomma, se Obama perderà le elezioni, sarà per colpa della crisi economica e del razzismo dell'elettorato. Nemmeno i redattori pro Chavez a Rocca Cannuccia sono riusciti a partorire qualcosa di simile durante le 'elezioni' in Venezuela per definire gli sparuti elettori che non avrebbero 'votato' per Chavez.
Ecco gli articoli di Fiamma Nirenstein e Mattia Ferraresi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Romney non vince ma convince. Può fare il comandante in capo "
Fiamma Nirenstein
Dopo il dibattito fra Obama e Romney, l'ultimo prima delle elezioni che si terranno fra due settimane, la confusione regna sovrana, il volto del vincitore è velato, i sondaggi raccontano ciascuno la sua novella. Al momento non c'è più uno sfidante e uno sfidato, anche il linguaggio corporeo dei due è confuso: Obama è andato teso come un gallo da combattimento allo scontro sulla politica estera, proteso dalla sedia scrutava ogni battito di ciglia, ogni parola del rivale e attaccava di continuo; Romney ben accomodato in poltrona, un inamovibile sorriso etrusco sulle labbra, ha usato uno studiato tono presidenziale, ha ripetuto la parola «pace» all'inizio, alla fine, nel mezzo. Un po’ troppo. Quieto, pacato, tutto il contrario del guerrafondaio che i nemici descrivono. Alla fine della discussione, i sondaggi della Cnn ci dicono che Obama ha vinto col 48 per cento e Romney ha solo il 40 per cento dei consensi. Ma un altro sondaggio dice che per il 60 per cento degli americani Romney potrebbe essere il migliore commander in chief , cioè capo di stato maggiore, ruolo che spetta al presidente e che per il Paese meglio armato e più insidiato del mondo è uno dei più importanti. In genere, il dibattito di esteri è poco determinante, lo sfidante conta sul fatto che sia rimasto impresso il Romney del primo dibattito, quello che vuole riportare l'America ad essere florida e imponente. Per questo, Romney ha giocato da avaro, trascinando ogni argomento verso l'economia. Insomma, è andato all'incontro con una strategia astuta anche se deludente per chi avrebbe voluto vedere Obama messo di fronte alla sua evidente insufficienza in politica estera, alla perdita di prestigio degli Usa, agli errori compiuti con le rivoluzioni arabe. Ma Romney ha lasciato correre dapprima le bugie e gli errori dell'amministrazione sull'assassinio di Christopher Stevens, l'ambasciatore Usa in Libia. È abilmente scivolato via dall'immagine di un tipo aggressivo con tendenze guerrafondaie. Parecchie volte, nonostante ne avesse l'occasione, è svicolato dalla polemica diretta, ha detto di essere d'accordo con Obama sulla scelta di sostenere la piazza araba, ha evitato di pronunciarsisu un eventuale intervento israeliano contro il nucleare iraniano, si è congratulato per l'uccisione di Bin Laden, ha approvato l'uscita dall'Iraq e il confuso abbandono dell'Afghanistan. Romney si è infilato nella politica estera dolcemente, evitando gli scogli di una materia che importa poco agli americani, mentre Obama ci è andato giù pesante: ha attaccato frontalmente Romney sull'Iraq, sulla Cina, sulla Russia e su Israele toccando argomenti personali, tentennamenti, errori... finchè Romney gli ha ricordato che non era lui l'oggetto del dibattito, ma la politica estera. Obama ha avuto una battuta felice quando Romney lo ha attaccato sui tagli al budget della difesa sostenendo che gli Usa non hanno mai avuto un numero di navi così ridotto dal 1916. Qui Obama ha detto che l'esercito non ha più nemmeno la cavalleria e ha fatto ridere tutti. Lo scontro vero c'è stato in coda, sulla visione generale del futuro, giocata tutta sul Medio Oriente, su Israele e sull'Iran, oltre che sul finanziamento all'esercito. Per Romney, un Obama irresponsabile ha messo in forse l' «eccezionalità » dell'America assumendo un atteggiamento di scusa, combattendo poco la jihad e il terrorismo, accettando tipi strani come Chavez. Ha sì ucciso Bin Laden, ma non ha sconfitto Al Qaida. L'America, ha detto Romney nella sua più felice battuta, non ha nulla di cui scusarsi, non ha mai cercato di sopraffare, ha invece portato la libertà al mondo. Obama ha accusato Romney di incostanza nelle opinioni, di confusione, di interessi personali. La mia politica mediorientale, ha detto, è la difesa dei diritti umani, cerchiamo di affossare Assad, non accetterò l'atomica iraniana... ma è difficile trovare un riscontro di queste affermazioni. Di fatto, ha ripetuto Romney, l'Iran è oggi quattro anni più avanti con le centrifughe, opprime i suoi cittadini e sponsorizza il terrore, e continuerà se non cambia il presidente. Obama si è detto il migliore amico di Israele ma, gli ha ricordato Romney, «hai visitato l'Arabia Saudita, l'Egitto, la Turchia, e hai schivato Israele». www.fiammanirenstein.com
Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " Obama lavora sulla percezione della crescita, Romney resiste "
Mattia Ferraresi
New York. E’ normale che nel terzo dibattito presidenziale, dedicato alla politica estera, i candidati siano scivolati in fretta da Aleppo, Siria, ad Appleton, Wisconsin, che dal contenimento dell’Iran siano passati al contenimento del debito pubblico e che persino il numero ottimale di studenti per classe sia entrato nel menu di una serata dove il protagonista era l’elettore indeciso dell’Ohio, non il ribelle siriano in cerca di armi per contrastare il regime di Bashar el Assad. Segno di un’America sempre più “inward looking”, concentrata su se stessa e sul proprio nation building, scrive Edward Luce del Financial Times, un paese incapace di mettere sul piatto nuove idee sul proprio rapporto con il mondo perché ogni minaccia, ogni sfida globale, ogni cambiamento del paradigma geopolitico è subordinato all’economia, alfa e omega dello scontro elettorale. Non è strano, dunque, che il passaggio più discusso del dibattito sia quello in cui Barack Obama ha promesso che “non ci saranno” i dolorosi tagli lineari previsti per l’inizio del 2013 se i partiti non riusciranno a trovare un accordo sul budget. Di un accordo politico per il momento non c’è traccia, ed è la prima volta che il presidente si sbilancia su una trattativa che, in caso di fallimento, taglierebbe le gambe all’economia americana. Greg Valliere, analista del Potomac Research Group, dice che “è la dichiarazione più significativa del dibattito” ed è “la prima volta che si suggerisce che il ‘fiscal cliff’ possa essere superato”: Obama, insomma, voleva dare un segnale a proposito del tema su cui si decidono le elezioni. L’economia dà qualche segnale di crescita, ma è un ritmo troppo lento perché il presidente possa rivenderlo come una vittoria e forse troppo rapido perché Mitt Romney possa assestare il colpo definitivo prima del 6 novembre. Questo è il dilemma: la ripresa economica – timida e anemica quanto si vuole – è la cavalleria che arriva in soccorso di Obama (magari con le baionette, direbbe il presidente) oppure il ritmo a cui cavalca è troppo lento per piombare nel vivo della pugna, dunque di beffa si tratta? La disoccupazione è al 7,8 per cento, il punto più basso toccato durante l’Amministrazione Obama, i consumi crescono leggermente, il mercato immobiliare ha registrato la performance migliore dal 2006, con il valore medio delle case americane aumentato dell’1,3 per cento, il salario medio per chi ha un posto di lavoro è in leggero aumento, il che, unito all’inflazione contenuta e alla politica monetaria della Fed, aiuta i consumi e la psicologia: i sondaggisti di Gallup dicono che la percezione dello stato dell’economia è – a torto o a ragione – ai massimi livelli nell’èra post crisi, e il Pew Research Center spiega che il pubblico è sempre meno negativo riguardo alle notizie economiche. Se i giornali e le televisioni erano i messaggeri di una crisi senza fondo, ora sono anche portatori di speranza, o almeno così sono percepiti. Per Obama è fondamentale che il meccanismo virtuoso si radichi nella mente degli elettori indecisi nelle due settimane che mancano alle elezioni, e qualunque cosa può tornare utile allo scopo, anche Halloween. Zucche, dolcetti, maschere, ragnatele finte, feste, regali per i nipoti, aperitivi con i colleghi: a Halloween si spende, e secondo la National Retail Association quest’anno si spenderà di più rispetto all’anno scorso: 8 miliardi di dollari, cioè 80 dollari per americano, contro i 72 del 2012. Non sarà Halloween a cambiare l’esito delle elezioni, ma l’atteggiamento dei consumatori nella circostanza è un indizio che si aggiunge alla serie di dati moderatamente positivi che arrivano dall’economia e che il presidente deve spacciare, in modo responsabile, come l’inizio dell’uscita dalla crisi e lo sfidante presenta come la depressione cronica poco gentilmente concessa dalle politiche depressive degli ultimi quattro anni. Discutere della situazione in Siria è fondamentale per i candidati alla Casa Bianca, ma le elezioni si vincono negli stati in bilico, dove gli elettori leggono le bollette della luce e i conti della spesa, non Foreign Affairs.
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