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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-Corriere della Sera Rassegna Stampa
20.10.2012 Il Libano sempre più sotto il tallone siriano
L'assassinio di Wissan al Hassan nelle cronache del Foglio e Francesco Battistini

Testata:Il Foglio-Corriere della Sera
Autore: Foglio Redazione-Francesco Battistini
Titolo: «Operazione sporca per uccidere il nemico di Assad in Libano-Auto Bomba a Beirut, la mano siriana»

Il Libano sempre più sotto il terrorismo manovrato dalla Siria, Assad o i ribelli poco importa. L'ultima strage per uccidere Wissan al Hassan, nelle cronache di FOGLIO e CORRIERE della SERA, di oggi, 20/10/2012:

Il Foglio- " Operazione sporca per uccidere il nemico di Assad in Libano "

Wissan al Hassan

 Beirut, quartiere di Achrafieh. Un attentato terribile per uccidere un solo uomo: Wissam al Hassan, il vero bersaglio dell’autobomba che ieri pomeriggio ha ritrascinato Beirut nell’incubo della guerra civile. E’ stato eliminato perché era il capo dei servizi dell’informazione della polizia libanese. Un uomo scomodo, vicino a Saad Hariri, figlio dell’ex premier antisiriano Rafiq Hariri, a sua volta eliminato con un attentato il 14 febbraio del 2005. Hassan aveva diretto le indagini che lo scorso agosto condussero all’arresto di Michel Samaha, ex ministro dell’Informazione, vicino al regime siriano. Samaha, che si trova in carcere, avrebbe ordito un complotto per eliminare una serie di personalità politiche e religiose libanesi scomode a Damasco. Il suo computer è ancora in mano agli uomini di Hassan, e conterrebbe prove contro il regime di Damasco. Vista la dinamica dell’attentato, i suoi assassini lo conoscevano bene. Hanno atteso che il loro bersaglio tornasse dall’estero (è atterrato ieri all’aeroporto) e si recasse in incognito su una macchina civile a un incontro nella Beirut cristiana, benestante e francofona, per lanciare un messaggio all’occidente: la caduta di Bashar riporterà la guerra in Libano. L’autobomba è esplosa alle tre del pomeriggio nella strada Ibrahim Mumzer, dietro all’affollata piazza Sassine di Achrafieh, con lui sono morte almeno altre sette persone. Alle spalle della piazza di grattacieli, banche e centri commerciali di lusso, ci sono ancora strade popolari dove vivono sunniti e cristiani maroniti, ortodossi e cattolici. Joseph Zaidan è sunnita: “Ho visto andare e tornare la guerra civile, le falangi cristiane e i terroristi. Tutti sappiamo che sono stati i siriani di Assad”, dice al Foglio. Mentre parla, la moglie raccoglie con la scopa i pezzi della vetrina della tintoria andata in frantumi. Joseph ha un taglio profondo sul naso, ma non vuole andare nel vicino Hotel de Dieu, moderna clinica francese dove sono ricoverati più di settanta feriti. La corsia è occupata da persone in gravi condizioni, che arrivano senza sosta. Balconi, finestre, condizionatori, tutto ciò che occupava la superficie esterna dei palazzi è andato in frantumi. Lo spostamento d’aria dovuto ai 30 chili di esplosivo, dentro l’autobomba, ha trasformato i pezzi di vetro in proiettili. I feriti hanno schegge ovunque: sulla testa, sulle braccia, sulle gambe e anche dentro gli occhi. E mentre la calma torna lentamente ad Achrafieh, dopo il tramonto si infiamma la città di Tripoli, nel nord, dove sono ripresi gli scontri a fuoco tra il quartiere alawita filo Assad (di Jabal Mohsen) e quello confinante sunnita di Bab Tabbane.

Corriere della Sera-Francesco Battistini: "  Auto Bomba a Beirut, la mano siriana"

Beirut, il luogo della strage

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME — È morto nonostante. Quando entrava in quelle stradine di Ashrafieh, caffè gusto parigino e auto in doppia fila, quando s'intasava nell'ora di punta di piazza Sassine, il generale Wissam al-Hassan sapeva che a Beirut ogni ombra abita una casa, come dice la poetessa Nadia Tueni, e che muoversi ha delle regole: scorta sufficiente, auto poco vistose, rapidità e sirene solo se servono. Aveva mandato moglie e figli a Parigi, dov'è scappato da più d'un anno anche il suo sponsor politico, l'ex premier Saad Hariri, perché sospettava di tutti e s'aspettava di tutto.
Cambiava spesso casa e telefonini, spiega il leader falangista Michel Geagea, scampato a un attentato in aprile, prendeva appuntamenti solo all'ultimo e viveva tra misure di sicurezza eccezionali: «Era attentissimo, ci avvertiva ogni volta dei pericoli». Non è servito: il convoglio di Hassan, capo in pectore dei servizi libanesi Fsi, il sunnita che incastrò gli assassini di molti leader antisiriani e che ad agosto sorprese l'ex ministro Michel Samaha nei preparativi d'un attentato coi soldi di Damasco, a mezzogiorno è saltato su 30 kg d'esplosivo che hanno ucciso altre sette persone e ferito un'ottantina di passanti, molti bambini che uscivano dalle scuole del quartiere cristiano.
Un'autobomba da Beirut anni zero. Stile 2005-2008, il quadriennio delle stragi, o da guerra civile '80. Ha lanciato la blindata di Hassan a un'altezza di cinque piani, paralizzato la città, frantumato i vetri di molti poteri: da quello della Coalizione antisiriana 14 Marzo che sta lì vicino a quello dell'arcivescovo maronita, ottocento metri più in là, che in quel momento dice d'essersi sentito «in un Paese di nuovo spinto alla guerra». Una strage che scuote muri e coscienze: «Un avvertimento chiarissimo — scrive il giornale An-Nahar —. L'unica cosa certa è che c'entra la guerra in Siria. E che il Libano non può sentirsi salvo e in pace, quando tutto intorno ribolle».
Le guerre degli altri, ancora una volta. Che coi profughi siriani arrivassero in Libano pure le bombe, più ancora che in Turchia, ce lo si aspettava da un po'. Il regime di Assad non ha mai smesso di considerare Beirut roba sua, le analisi spesso coincidono nella sintesi: chi vede nell'attentato un favore degli Hezbollah al dittatore amico; chi un fai-da-te siriano, per mandare messaggi all'Occidente; chi l'eliminazione dell'uomo che riforniva d'armi i ribelli di Aleppo. I fedelissimi dell'esiliato Hariri, del quale Hassan era l'angelo custode, che accusano i filosiriani e il governo Hezbollah loro amico. Gli Hezbollah che chiedono d'arrestare «gli orribili esecutori». Il presidente francese Hollande che vi vede, chiunque sia stato, un evidente «tentativo di destabilizzazione». Poche ore prima dell'autobomba, con una nota ufficiale, il premier libanese Miqati aveva protestato con una casa di produzione americana per l'ultimo episodio d'una serie tv, Homeland, ambientato a Beirut e a suo dire pesantemente diffamatorio. «Ci presentano come una città sporca e piena di terroristi — aveva detto —, ma noi siamo una Parigi del Medioriente con strade sicure e pulite». Sulla pulizia aveva ragione, forse.

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