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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
19.10.2012 Libia, un inferno islamista. Tunisia, sharia avanza a passi da gigante
Cronache di Lorenzo Cremonesi, Giovanni Cerruti, Redazione di Repubblica

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica
Autore: Lorenzo Cremonesi - Giovanni Cerruti - Redazione di Repubblica
Titolo: «Quelle ultime ore di Gheddafi a Sirte - A Bani Walid dove Gheddafi è ancora vivo - Scontri alla marcia anti-corruzione, linciato un oppositore di Ennahda»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 19/10/2012, a pag. 21, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Quelle ultime ore di Gheddafi a Sirte ". Dalla STAMPA, a pag. 12, l'articolo di Giovanni Cerruti dal titolo " A Bani Walid dove Gheddafi è ancora vivo ". Da REPUBBLICA, a pag. 23, la breve dal titolo "Scontri alla marcia anti-corruzione, linciato un oppositore di Ennahda " .

Finalmente qualcuno scrive con chiarezza com'è morto il dittatore libico Gheddafi. Aspettiamo che qualcuno faccia altrettanto con la morte dell'ambasciatore Stevens in Libia.
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Quelle ultime ore di Gheddafi a Sirte"


Lorenzo Cremonesi       Muhammar Gheddafi 

Le accuse contro i ribelli libici sono molto gravi e ben documentate.
A un anno dal linciaggio di Muammar Gheddafi alle porte di Sirte, emerge con chiarezza che il dittatore venne catturato vivo, picchiato a lungo, selvaggiamente, sodomizzato a colpi di baionetta, trascinato come un trofeo agonizzante e insanguinato, prima di venire caricato senza vita su di un'ambulanza e trasferito a Misurata. Non andò molto meglio alle decine di uomini che erano con lui: malmenati, umiliati a sputi e calci, infine fucilati a sangue freddo con le mani legate dietro la schiena. Ci sono i filmati e le foto ripresi con i telefoni cellulari degli stessi ribelli a testimoniarlo. Anche il figlio Mutassim era vivo al momento della resa. Una sequenza lo riprende mentre fuma e beve acqua in compagnia dei suoi carnefici in una cella improvvisata. Poche ore dopo sarà un cadavere con il cranio sfondato, le mandibole spezzate e un colpo d'arma da fuoco ravvicinato alla base del collo. Parola di Human Rights Watch (Hrw), la celebre organizzazione umanitaria newyorkese, presente in Libia nelle fasi cruciali della caduta del regime l'anno scorso. I suoi rappresentanti viaggiavano tra Sirte e Misurata anche il giorno della morte del dittatore quel drammatico 20 ottobre. «Le prove che abbiamo suggeriscono che le milizie dell'opposizione hanno liquidato con esecuzioni sommarie almeno 66 membri del convoglio di Gheddafi a Sirte. Siamo in grado di mettere in dubbio le dichiarazioni delle autorità del governo transitorio rivoluzionario, per cui Gheddafi sarebbe rimasto ucciso al momento dello scontro a fuoco prima della cattura», sostiene Peter Bouckaert, direttore dell'organizzazione per le emergenze. Dichiarazioni importanti le sue, difficili da ignorare per i Paesi membri della Nato. Tutto ciò avvenne infatti sotto l'ombrello protettivo dell'Alleanza atlantica. Non è un mistero per nessuno che senza questo intervento militare fondamentale i gruppi ribelli sarebbero stati annientati dalle truppe lealiste già due o tre mesi dopo l'inizio delle rivolte a metà febbraio. Un memento da tenere presente soprattutto di fronte ai dilemmi presentati dallo scenario siriano, dalle tensioni tra Ankara e Damasco, oltre alle pressioni montanti per un azione bellica Nato contro il regime di Bashar Assad. E tuttavia, le accuse oggi di Human Rights Watch non sono nuove, costituiscono in effetti una messa a punto circostanziata di elementi che emersero nelle ore appena seguenti i fatti del 20 ottobre 2011. Già allora infatti furono gli stessi inviati dell'organizzazione a spingere i giornalisti stranieri a visitare l'hotel Mahari alla periferia di Sirte. In quel luogo anche noi trovammo i corpi senza vita di una ventina di uomini. L'erba del giardino dell'hotel era intrisa di sangue, sparsi tutto attorno stivali militari e uniformi abbandonate. Ovunque il puzzo dolciastro di cadaveri in decomposizione. Al piccolo cimitero poco distante noi stessi contammo una quarantina di sacchi neri contenti altri cadaveri. Un giovane aprì le cerniere di almeno quattro mostrando le mani gonfie e nerastre legate dietro la schiena. «Sono i soldati di Gheddafi fucilati dalle milizie», ci dissero. Ora Hrw va oltre. In un video raccolto tra le stesse milizie di Misurata che operavano a Sirte, si riconoscono almeno 17 uomini. Sono spaventati, gli sputano addosso, alcuni hanno il volto tumefatto dai colpi, qualcuno piange, trema. «Ora i fucili li abbiamo noi, cani!», grida uno dei loro persecutori. Poi appaiono le foto dei loro volti tra i morti: uccisi, fucilati. Prigionieri di guerra eliminati contro tutte le convenzioni internazionali. E per giunta sotto la protezione provvidenziale della Nato. Fu tra l'altro proprio uno dei missili dell'Alleanza atlantica a fermare la colonna di Gheddafi in fuga da Sirte. Se non ci fossero stati i jet francesi quella mattina, probabilmente il Colonnello sarebbe ancora stato in grado di fuggire nel deserto con gli ultimi fedelissimi per organizzare la guerriglia. Stesso scenario per Mutassim. Le testimonianze concordano nell'indicarlo vivo e relativamente indenne dopo la cattura. I ribelli lo minacciano. Ma lui appare tranquillo. Secondo alcune testimonianze raccolte dal Corriere a Bengasi un mese fa, avrebbe accettato di battersi a mani nude contro uno dei più corpulenti tra i miliziani di Misurata. Era un cultore di arti marziali e avrebbe ucciso l'avversario. A quel punto sarebbe stato freddato a colpi di mitra molto ravvicinati. Non aveva scampo. In ogni caso, sono queste rivelazioni che aumentano le difficoltà per le già debolissime autorità di Tripoli. Il processo di normalizzazione appare inceppato. Dalle elezioni del 7 luglio ancora non si è stati in grado di formare un governo. E nonostante il trauma della morte dell'ambasciatore americano Chris Stevens l'i i settembre a Bengasi e le promesse di scioglimento delle milizie, non esiste un esercito nazionale in grado di assorbire o smantellare i gruppi armati. Al Qaeda e i movimenti del fondamentali-smo islamico prosperano a Sirte e in generale in Cirenaica. Crescono le pressioni per la divisione in due del Paese. Negli ultimi dieci giorni almeno una decina di persone sono rimaste uccise negli scontri tra le milizie di Misurata e i militanti pro Gheddafi nella cittadina lealista di Bani Walid.

La STAMPA - Giovanni Cerruti : " A Bani Walid dove Gheddafi è ancora vivo"


Due gheddafiani a Bani Walid

INVIATO A MISURATA
Come un anno fa, proprio lo stesso giorno. Come se Bani Walid fosse ancora la penultima ridotta del Colonnello Gheddafi. «Abbiamo conquistato tutte le posizioni sulle colline, sono circondati, aspettiamo l’ordine da Tripoli», dice Mohammed Abdullah al Ganduz, 36 anni, la divisa mimetica addosso e le ciabatte ai piedi, l’ufficiale che a sera rientra dal fronte. È lontana 140 chilometri la Bani Walid dei «gheddafiani» che ancora esistono e resistono. «Abbiamo registrato le loro telefonate – racconta il militare con i capelli rasati e un filo di barba –. Quelli sono armati, organizzati, pronti a tutto.  

Quelli vogliono approfittare della giornata di sabato...». È il 20 ottobre, sabato. Il primo anniversario della cattura e dell’uccisione di Muhammar Gheddafi: i «gheddafiani» cercano vendette, la Libia le teme. Non bastano due ore di macchina per avvicinarsi a Bani Walid, e dal check- point all’uscita di Misurata si passa solo con la scorta armata e il permesso ben in vista, appiccicato al parabrezza. È davvero come un anno fa, il 18 ottobre, quando Bani Walid è stata liberata dai «tuwar», i ribelli delle Brigate. Un via vai di urla, raffiche, pick up carichi di kalashnikov e casse di munizioni, mitragliatrici lucide di grasso, le ambulanze e i medici della Mezzaluna Rossa al seguito.  

Un anno fa il Colonnello aveva appena lasciato Bani Walid. Era deserta, quella mattina: spariti i 70 mila abitanti della città dei «Warfalla», la tribù dei 52 clan, un milione di libici, tra i migliori alleati di Gheddafi. Solo «tuwar» arrivati da Misurata, da Bengasi, da Tripoli, i berberi di Jebel Nafusa. Ballavano davanti alla moschea, e di Bani Walid c’era appena Alì, 77 anni, il vecchietto sdentato, vestito solo con un cappottone di lana, che cantava canzoni napoletane imparate a scuola. Ora ne sono tornati 20 mila. Gheddafiani, nostalgici, disperati, mercenari neri rientrati in Libia con falsi permessi di lavoro.  

Città simbolo, come un anno fa. Dicevano «Se cade Bani Walid al Colonnello non resta che Sirte ed è in trappola», e così è andata. «Siamo divisi in quattro zone, 6 mila “tuwar” ognuna – spiega Mohammed al Ganduz –. Dobbiamo intervenire al più presto, è stata un’altra giornata di morti, almeno venti, anche una bambina di 4 anni. Bisogna entrare, evitare che da qui o a Sirte passino all’ azione nella giornata di sabato». Sarà per questo, o anche per questo, ma alle sei del pomeriggio arriva l’ordine da Yusuf Magush, il capo di stato maggiore dell’esercito: «Il controllo dello Stato non permette eccezioni, da questo momento può cominciare l’avanzata». E da Tripoli stanno arrivando rinforzi.  

Sono almeno 400 i «gheddafiani» di Bani Walid. E tra loro ci sarebbe chi a luglio ha sequestrato e torturato Omran Shaban, il ribelle della brigata «Al Riran» di Misurata, uno dei ragazzi che hanno catturato Gheddafi, nascosto nella periferia di Sirte in un tunnel di cemento. È morto il 25 settembre a Parigi, Omran Shaban. E da quel giorno è cominciato l’assedio a Bani Walid, con tanto di ordini di cattura per «i sospettati della sua morte e di altri crimini di guerra». Ma sono ben armati, i 400 di Bani Walid. Chi è tornato in città è diventato ostaggio. E chi riesce a fuggire si ritrova con la casa bruciata e i parenti arrestati.  

Era caduta dopo tre mesi, Bani Walid un anno fa. Allora, che Gheddafi si nascondesse qui, sembrava una leggenda: era vero. E adesso un’altra leggenda vorrebbe qui, protetto dai mercenari e dalle colline, Khamis Gheddafi, uno dei figli, il più temuto, il più violento, il comandante della terribile 32ª Brigata. Sarebbe morto il 29 agosto 2011, sulla strada che scende da Tarhuna, centrato da un bombardamento Nato. «Non abbiamo la prova che sia lì – dice Mohammed al Ganduz –, ma sospetti ne abbiamo. Nelle intercettazioni si parla di un personaggio importante, lo chiamano “07”. E potrebbe, dico potrebbe, essere lui: Khamis».  

Da Bani Walid trasmette la tv satellitare «Dardari», che vuol dire Dardanelli. E da Misurata non si perdono un’immagine, una voce: «Mandano messaggi ai “gheddafiani” che stanno fuori, usano un loro codice». Oppure sequenze di bambini uccisi dai tuwar delle Brigate. «Ma abbiamo scoperto che erano video siriani, ripresi da internet». Propaganda, insomma. O dirette dalla piazza della Moschea, dove vecchi, bimbi e mogli, reclamano la libertà dei parenti arrestati e portati in carcere qui a Misurata. «Non hanno fatto niente, restituiteli alla famiglia». Alle otto di sera ecco l’allarme: «Questa notte vogliono occupare le nostre case! Ecco cosa è diventata la nostra Libia!».  

Forse è stata davvero l’ultima notte di Bani Walid occupata dai «gheddafiani». Una mediazione l’aveva meditata Mohammed Magarief, il presidente dell’Assemblea Nazionale, il parlamento della Nuova Libia. Era in partenza per Bani Walid, ieri pomeriggio, il convoglio già pronto, le tv allertate «per un importante discorso in serata». E invece niente. Contrordine. A Est della città scontri tra tuwar e «gheddafiani» che volevano entrare a Bani Walid, con venti pick-up carichi di armi e viveri. Un anno fa i vecchi capi della tribù Warfalla li avevano convinti a lasciare la città. Almeno fino a ieri sera no. E allora: «Avanzate».  

L’ufficiale con la mimetica addosso e le ciabatte ai piedi ascolta la comunicazione dalla radiolina. È arrivato l’ordine, sta scendendo il buio, deve tornare al fronte, è tornato a Misurata «come portavoce». Prima di andarsene si fa ancora più serio: «Stiamo sventando un colpo di Stato. Quelli si sono infiltrati dappertutto, anche nel governo. Controllano ancora gli investimenti del vecchio regime, mandano armi e soldi dall’Algeria e dall’Egitto. Vogliono dimostrare che la Libia non è sicura, destabilizzare, provocare. E possono ancora contare sui soldati che hanno combattuto contro di noi...».  

E domani è sabato, il 20 ottobre. Nessuna celebrazione è prevista. E nemmeno per il martedì 23, primo anniversario della nascita della Nuova Libia. I ribelli di Al Riran non torneranno al tunnel di Sirte, non festeggeranno la cattura, gli insulti, l’uccisione, gli oltraggi al raìs. «Sono tutti al fronte, a cercare gli assassini di Omran». Mohammed al Ganduz dice che è meglio star lontani da Sirte. «Non possiamo garantire nulla, e lo diremo anche in tv. Sappiamo che i “gheddafiani” vogliono mandare dei cecchini attorno a quel tunnel. Per dare la colpa a noi, alla Nuova Libia». Che un anno dopo non ha ancora un governo. E non riesce a liberarsi del fantasma di Gheddafi.

La REPUBBLICA - " Scontri alla marcia anti-corruzione, linciato un oppositore di Ennahda "


Lofti Naguedh, pestato a morte da sostenitori di Ennahda

TUNISI — Il leader regionale di un partito laico tunisino è stato pestato a morte dai sostenitori di Ennahda, la formazione islamista al potere: questo è l’ennesimo episodio di violenza nello scontro fra laici e fondamentalisti che infiamma la Tunisia. Lofti Naguedh, coordinatore di Nidaa Tounis, il nuovo partito in ascesa che si batte contro l’islamizzazione del Paese, è stato linciato durante una manifestazione indetta da Ennahda e da gruppi salafiti a sostegno dell’attuale governo e per “l’epurazione dei rappresentanti del vecchio regime”. Nidaa Tounis, fondato dall’ex premier Beji Caid Essebsi, appoggiato da una parte del mondo degli affari, è accusato dagli islamisti di agire per conto di reduci del regime. I suoi rappresentanti sono stati più volte aggrediti. Il 30 agosto, una delegazione di donne era stata malmenata da un gruppo di estremisti religiosi.

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