Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Elezioni Usa, questa sera il secondo dibattito Romney/Obama intanto emergono attriti fra Clinton e Obama per la gestione della Libia. Cronache di Mattia Ferraresi, Massimo Gaggi
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera Autore: Mattia Ferraresi - Massimo Gaggi Titolo: «La strage di Bengasi mette in collisione Obama e i Clinton»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 16/10/2012, in prima pagina, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " E’ l’ora del terzo debate e Mitt studia tutte le vie per aggirare l’Ohio ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 17, l'articolo di Massimo Gaggi dal titolo "La strage di Bengasi mette in collisione Obama e i Clinton ", preceduto dal nostro commento. Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " E’ l’ora del terzo debate e Mitt studia tutte le vie per aggirare l’Ohio "
Mattia Ferraresi, Mitt Romney, Barack Obama
New York. C’è una strada che porta alla Casa Bianca senza passare per l’Ohio? Una via effettivamente ci sarebbe, ma è stretta e accidentata, praticamente una mulattiera, tanto che nessun candidato repubblicano è mai riuscito a percorrerla e i democratici ce l’hanno fatta soltanto un paio di volte. Mitt Romney sta costruendo la sua resurrezione elettorale e dopo il rimbalzo nei sondaggi nazionali, per natura fluttuanti e generici, ora arrivano anche più circostanziati dati positivi negli stati dove si vincono le elezioni. In Ohio lo sfidante repubblicano ha accorciato lo svantaggio su Barack Obama ma l’istituto Public Policy Polling dà ancora il presidente in vantaggio di cinque punti. L’Ohio è il crocevia delle ossessioni elettorali: ieri mentre i candidati si stavano preparando al dibattito di questa notte hanno mandato i loro messi a presidiare il territorio. Paul Ryan, Michelle Obama e il governatore repubblicano, John Kasich, erano nel Buckeye State, dove Obama tornerà domani e sarà seguito, giovedì, dall’ineffabile accoppiata democratica Bill Clinton e Bruce Springsteen. Nonostante il ticket repubblicano abbia marcato la sua presenza nello stato per sei volte negli ultimi sette giorni, il senatore dell’Ohio Rob Portman – sparring partner di Romney nei dibattiti e pilastro fondamentale di questa campagna repubblicana in ascesa – dice che Romney potrebbe farcela “anche senza l’Ohio”. Il fatto, aggiunge Portman, è che non sarebbe la soluzione più gradita, per via dei valori simbolici che lo stato di Columbus incarna, ma non è un segreto che in questa fase di calcoli delicatissimi gli strateghi repubblicani stiano esplorando tutte le vie a disposizione, anche quel sentiero elettorale scosceso che aggira Cleveland, Toledo, Lebanon, Parma e le altre città delle quali si parla ogni quattro anni. I numeri di Romney sono migliorati in Florida, Colorado, New Hampshire, North Carolina, Virginia e anche nel Wisconsin, lo stato di Paul Ryan che vota stabilmente democratico dai tempi di Reagan. Alcuni sondaggi, più sparuti, dicono che Pennsylvania e Michigan, orientati verso Obama, potrebbero tornare in gioco. E la prospettiva apre nuovi scenari per Romney, che vede lievitare il numero di combinazioni a disposizione per aggiudicarsi, il 6 novembre, 270 grandi elettori anche senza i 18 voti dell’Ohio. Concentrare gli sforzi delle ultime settimane su Florida, North Carolina e Virginia potrebbe aprire un pertugio che porta alla Casa Bianca senza aggiudicarsi nessuno dei “grandi” swing state ma soltanto, si fa per dire, accumulando elettori fra Iowa, Colorado, Nevada e New Hampshire. E’ per il momento un esercizio puramente teorico: i sondaggi sono fatti per essere volatili e ambigui, dunque smentibili nel giro di qualche ora, soprattutto in una campagna la cui inerzia è stata cambiata da un dibattito che ha distribuito entusiasmo per i repubblicani e paura per i democratici contro qualunque pronostico. A Boston, nel quartier generale di Romney, sanno che i numeri in crescita e l’entusiasmo di un elettorato che dopo mesi di freddezza dà qualche segno di trasporto per un candidato che non è fatto per scaldare i cuori, sono segni di un avvicinamento potenziale. Di sorpasso si parla soltanto in pubblico, mentre in privato si studiano modi efficaci di canalizzare il “surge”, anche con la strategia eterodossa di puntare alla vittoria anche senza passare dall’Ohio. Sempre che Romney superi l’esame del secondo dibattito alla Hofstra University di Long Island: Obama promette di essere aggressivo, questa volta.
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi : " La strage di Bengasi mette in collisione Obama e i Clinton "
Massimo Gaggi, Hillary Clinton con Barack Obama
Quello che emerge dalla lettura del pezzo di Gaggi è lo scontro di due politiche fallimentari, quelle di Clinton e Obama. Ecco il pezzo:
NEW YORK — Stasera al secondo dibattito presidenziale, ospitato a Long Island dalla Hofstra University, le domande le farà il pubblico, attraverso il filtro di Candy Crowley, della Cnn. Ma si può essere certi fin d'ora che un argomento centrale di discussione — perché proposto dalla moderatrice o imposto da Mitt Romney — sarà quello dell'uccisione dell'ambasciatore Stevens e di altri tre americani in Libia. A un mese dall'attacco di Bengasi, infatti, quelli che Obama aveva liquidato come «bumps in the road», semplici cunette nell'asfalto della strada di una politica estera di successo di questa amministrazione, sta diventando un incubo per la Casa Bianca. Le indagini condotte dallo stesso governo e dal Congresso e alcune recenti rivelazioni hanno, infatti, fatto crollare la ricostruzione inizialmente accreditata dal governo: un assalto al consolato americano maturato nel clima di protesta dei musulmani per un film prodotto in California che insulta la figura di Maometto e sfruttato con abilità criminale da alcuni estremisti. Sulla base di questa analisi la Casa Bianca aveva promesso sì che avrebbe inseguito fino all'inferno i responsabili dell'uccisione dell'ambasciatore e degli altri americani, ma aveva anche condannato il video blasfemo. E, davanti a un Romney che aveva reagito a caldo, prima ancora di conoscere bene i fatti, ignorando la questione del film e senza alcuna concessione al risentimento di un mondo islamico che si era sentito offeso, il presidente in persona era sceso in campo per accusare il suo avversario di essere «poco presidenziale», uno che «prima spara e prende la mira». Per settimane i repubblicani, che evidentemente avevano considerato anch'essi precipitosa la sortita di Romney, hanno accantonato il dossier Libia, attaccando Obama su altri fronti. Ma tutto è cambiato la scorsa settimana quando è emerso con sempre maggior chiarezza che quello di Bengasi era stato un attacco terroristico premeditato, senza alcun collegamento diretto con le proteste per «Innocence of Muslims», il video messo su YouTube. Ed è anche venuto fuori che alcuni americani in Libia, preoccupati per le crescenti tensioni, avevano chiesto un rafforzamento delle misure di sicurezza a protezione delle sedi diplomatiche. Il governo è in difficoltà sulla Libia da più di una settimana, ma che questo possa diventare un cavallo di battaglia per Romney è diventato evidente dopo il dibattito dei vicepresidenti di giovedì scorso, durante il quale Joe Biden ha risposto alle critiche di Paul Ryan sostenendo che le richieste di rinforzi non erano arrivate fino alla Casa Bianca, ma si erano fermate al Dipartimento di Stato. Insomma, per salvare Obama, Biden ha tirato in ballo Hillary Clinton, oltre alla Cia, che avrebbe accreditato nei suoi rapporti iniziali una tesi (quella della rivolta spontanea) rivelatasi, poi, priva di fondamento. Ma come può Obama prendere le distanze dal suo segretario di Stato proprio mentre suo marito, Bill Clinton, si sta spendendo come la «faccia» più popolare della campagna per la sua rielezione alla Casa Bianca? Proprio ieri il New York Magazine si chiedeva come farà Obama a sdebitarsi per l'aiuto che sta ricevendo dai Clinton. E, invece, in queste stesse ore il Dipartimento di Stato è costretto a difendersi sostenendo di non aver mai abbracciato la tesi della rivolta (così sconfessando in parte la sua ambasciatrice all'Onu, Susan Rice, che aveva molto battuto su questo punto dopo l'uccisione di Stevens). Romney a questo punto è partito all'attacco accusando Biden di aver detto il falso e dicendo di voler vedere chiaro in questa oscura vicenda. Ha capito di aver tra le mani un caso che, se ben gestito, gli può consentire di cogliere due obiettivi con un colpo solo: da un lato incrinare l'immagine di leader internazionale e tutore della sicurezza dei cittadini americani di un presidente fin qui inattaccabile su questo terreno, alla luce dell'eliminazione di Bin Laden; dall'altro inserire un cuneo tra Obama e i suoi «partner strategici», i Clinton.
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