Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Afghanistan-Pakistan, una guerra che stanno vincendo i talebani cronache di Gian Micalessin, Gianandrea Gaiani
Testata:Il Giornale - Libero Autore: Gian Micalessin - Gianandrea Gaiani Titolo: «Uccidono i bambini in nome del Corano»
Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 11/10/2012, a pag. 17, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Uccidono i bambini in nome del Corano ". Da LIBERO, a pag. 18, l'articolo di Gianandrea Gaiani dal titolo "I talebani annunciano: in Afghanistan abbiamo vinto ", preceduto dal nostro commento. Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Uccidono i bambini in nome del Corano "
Malala, i talebani hanno cercato di assassinarla sparandole alla testa, ma lei si è salvata
Malala vive. Ma vivono anche i suoi sicari. I chirurghi ce l’hanno fatta. Son riusciti ad estrarre dal cranio della 14enne ragazzina pakistana quel proiettile di kalashnikov destinato a sopprimere la sua innocente voglia di libertà, a imporre il lugubre silenzio del terrore islamista. Ma sopravvive anche chi la voleva morta. Sopravvive la furia cieca di un islam radicale pronto a massacrare anche i bimbi nel nome del Corano e del Profeta. L’aspetto più agghiacciante del tentato assassinio di Malala Yusafzai è la sua consequenzialità. Il tentativo di eliminare questa ragazzina colpevole d’aver descritto l’opprimente regime imposto ai civili nelle provincie pakistane sotto controllo talebano, è solo l’ennesimo assassinio, o tentato assassinio, ai danni di un fanciullo perpetrato nel nome dell’islam. E la condanna dell’Unicef, per ricordare come nulla giustifichi la violenza contro l’infanzia innocente, servirà a poco. L’agguato a Malala, colpita assieme a due compagne sedute con lei sullo scuolabus, arriva dopo la decapitazione di un bimbo in Afghanistan. Segue le accuse di blasfemia, un reato punito con la pena capitale, rivolte sempre in Pakistan ad una bimba cristiana. Ci ricorda la spietata esecuzione di un ragazzino e una ragazzina afghani bruciati nell’acido per aver osato amarsi. Tante e tali scelleratezze non sono follie o perversioni individuali. Non sono gesti scomposti messi a segno da menti malate. Sono l’applicazione pratica di un’ideologia religiosa priva di pietà, di un credo senza scale di grigio avvitato in una spirale di violenza che non prevede null’altro se non la difesa dei propri simili e l’odio per tutti gli altri. Pensiamo a Malala. La sua colpa era quella di aver annotato su diario le esecuzioni, le pubbliche flagellazioni, le quotidiane umiliazioni imposte ai civili della valle di Swat nei mesi bui in cui questa località, un tempo paradiso turistico del Pakistan, diventò un feudo delle bande talebane. Quel diario letto dal servizio in lingua urdu della Bbc aveva fatto capire a tanti pakistani la realtà nascosta dietro la propaganda islamista. Ihsanullah Ihsan, portavoce di Tehrik –i-Taliban Pakistan, non s’è fatto scrupolo a rivendicare l’agguato giustificandolo con le visioni anti islamiche di Malala. Dietro a tanto spregiudicato fanatismo aleggia la stessa logica che ad agosto spinge un imam d’Islamabad ad accusare Rimsha Masih- una bimba cristiana affetta dalla sindrome di Down - di aver bruciato un Corano. Per l’inflessibile legge pakistana sulla blasfemia quelle accuse, completamente false, conducono al patibolo. Rimsha viene liberata solo perché un testimone smaschera la montatura anti cristiana ordita da un religioso musulmano. In Afghanistan l’orrore islamico talebano colpisce con la medesima crudeltà a fine agosto. Un ragazzino di 12 anni, fratello di un poliziotto, viene rapito da un gruppo talebano che ne fa ritrovare cadavere e testa mozzata. Per i portavoce talebani è un avvertimento a chi collabora con le autorità. Atti in linea con la ferocia delle bande qaidiste irachene che trasformano ragazzini in kamikaze. Ma per il fanatismo musulmano l’uccisione dei bambini non è limitata alla guerra. Anche il mancato rispetto di arcaiche regole sociali può venir punito con la più terribile delle morti. Lo insegna la fine di due ragazzini afghani - 15 anni lui, 12 anni lei- ritrovati a fine marzo in un campo della provincia afgana di Ghazni. I loro corpi erano accanto alla latta di acido usata per bruciarli. Dei loro volti non c’era più nulla. L’acido aveva divorato la pelle, cancellato naso e labbra. Due maschere d’orrore ridotte così per aver infranto le regole che impedivano loro di amarsi, frequentarsi senza il consenso di famiglie e anziani del villaggio.
LIBERO - Gianandrea Gaiani : " I talebani annunciano: in Afghanistan abbiamo vinto"
Talebani
Dispiace scriverlo, ma i talebani hanno ragione. L'America non è più un impero e la guerra in Afghanistan non è dicerto un successo. Tutto il potere che i talebani continuano a conservare ne è la conferma. Ecco il pezzo:
«Stanno fuggendo dall’Afghanistan con un’umilia - zione e una vergogna tali da rendere difficile trovare giustificazioni. Coloro che hanno invaso la nostra terra con slogan e teorici obiettivi ora corrono a mettersi in salvo e ad annunciare il ritiro anticipato delle truppe a causa della martellante jihad dei mujaheddin afghani». I talebani hanno celebrato con questa frase l’undicesimo anniversario dall’inizio dell’operazione Enduring Freedom, l’attacco delle forze americane contro l’Afghanistan talebano scatenato meno di un mese dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Una ricorrenza passata quasi inosservata negli Stati Uniti, in Europa e anche in Afghanistan dove il progressivo ritiro delle truppe alleate sta già creando molte difficoltà alle forze governative, incapaci persino di gestire le carceri. La cosiddetta transizione avviene troppo presto e troppo in fretta per non apparire una fuga: su 800 basi e postazioni presidiate dalla Nato 500 sono state già abbandonate. Metà cedute agli afghani e metà distrutte coi bulldozer (costate tra 1 e 20 milioni di dollari ognuna) per non lasciarle al nemico. La fuga da Kabul potrebbe accelerare rispetto alla data prevista di fine 2014, come ha ammesso il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, dichiarando che l’ipotesi è allo studio e potrebbe venire annunciata entro l’anno. Lunedì Rasmussen ha detto che «non permetteremo ai nemici dell’Afghanistan di vincere » confermando che dal 2015 prenderà il via una missione addestrativa per aiutare le forze di Kabul ma di rischio di tracollo del Paese parla anche il rapporto dell'International Crisis Group (Icg) ricordando che all’offensiva talebana nel 2014 si aggiungeranno nuove elezioni presidenziali e paventando il collasso delle forze di sicurezza. Ancora più pessimista Gilles Dorronsoro, esperto di Afghanistan per Carnegie Endowment for International Peace, per il quale «il ritiro è il risultato di una strategia fallimentare» e «dopo una nuova fase di guerra civile, seguirà una probabile vittoria dei talebani». Uno scenario simile a quello che fece seguito al ritiro sovietico da Kabul e che sembra dare ragione ai proclami di vittoria della propaganda talebana. La Nato che si ritira senza aver vinto la guerra e regalando così una probabile vittoria ai jihadisti ben rappresenta un Occidente che non riesce più a combattere guerre prolungate neppure se a bassa intensità. Società e leadership non reggono i costi di un conflitto combattuto sul terreno. Né quelli finanziari né i 3.300 caduti in 11 anni di guerra afghana (2.134 statunitensi), perdite appena superiori al numero di persone uccise dai terroristi l’11 settembre 2001 e certo sopportabili sul piano militare per i 4 milioni di militari delle forze della Nato. Nonostante la nostra superiorità tecnologica fuggiamo davanti a guerriglieri spesso armati solo di kalashnikov che fabbricano bombe utilizzando fertilizzanti o svuotando l’esplosivo dai vecchi proiettili d’artiglieria sovietici. Miliziani che si stima abbiano perduto in 11 anni oltre 70 mila combattenti senza mai parlare di resa o di ritiro.
Per inviare la propria opinione a Giornale e Libero, cliccare sulle e-mail sottostanti