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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
08.10.2012 Scontri al confine Siria-Turchia, un'occasione per i curdi ?
Commento di Franco Venturini, reportage di Francesca Paci

Testata:Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Franco Venturini - Francesca Paci
Titolo: «I colpi di mortaio che avvicinano la guerra - Il sogno curdo s’infila fra Ankara e Damasco»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 08/10/2012, a pag. 1-15, l'articolo di Franco Venturini dal titolo " I colpi di mortaio che avvicinano la guerra " . Dalla STAMPA, a pag. 12, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Il sogno curdo s’infila fra Ankara e Damasco ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Franco Venturini : " I colpi di mortaio che avvicinano la guerra"


Recep Erdogan                 Bashar al Assad

Per il quinto giorno consecutivo, ieri la Siria di Bashar al Assad ha fatto del suo meglio per suicidarsi. Non diversamente possono essere giudicati i colpi di mortaio che quotidianamente cadono in territorio turco, e ai quali le forze armate di Ankara sono costrette a rispondere con qualche colpo di cannone. Ma mentre attuano le loro limitate rappresaglie e confermano a gran voce che «non vogliono una guerra», militari e politici turchi si sforzano di capire cosa mai stia accadendo al di là del confine. Perché allargare la guerra civile siriana alla Turchia e quindi alla Nato può essere un obbiettivo di chi vuole un intervento esterno contro Damasco, ma non può in alcun modo rientrare nelle convenienze tattiche o strategiche del regime di Bashar al Assad che di tale intervento sarebbe la vittima designata. E allora, chi e perché spara dalla Siria contro la Turchia?
In via del tutto ufficiosa gli stessi analisti di Ankara fanno due diverse ipotesi. La prima è che i colpi di mortaio siano volontariamente indirizzati contro le zone di frontiera turche dai comandanti dei reparti regolari che combattono i ribelli appena al di là del confine. E questo per un motivo: oltre ad ospitare quasi centomila profughi siriani, i turchi danno appoggio e protezione sul proprio territorio anche a piccoli reparti dell'Esercito libero siriano, il cui quartier generale, fino a dieci giorni fa, si trovava appunto in Turchia. Dunque i soldati siriani, magari impegnati contro avversari che poi si dileguano oltre confine, usano le armi che hanno senza porsi troppi interrogativi. Ricostruzione credibile, che tuttavia comporterebbe un risvolto devastante per Assad laddove risulterebbe che i suoi ufficiali sul terreno non obbediscono agli ordini o alle «inchieste» di Damasco.
La seconda ipotesi è quella della provocazione volta ad allargare il conflitto, chiunque (per esempio infiltrati dell'Esercito libero, o jihadisti) ne sia l'autore. Le autorità turche, che temono di essere strumentalizzate, hanno risposto ai colpi di mortaio provenienti dalla Siria con esemplare equilibrio. Si sono fatte autorizzare dal Parlamento a reagire secondo le circostanze. Hanno preso atto della forte contrarietà popolare a una guerra con Damasco, e anche per questo hanno ripetutamente assicurato, ancora ieri, che Ankara non vuole uno scontro con la Siria. Hanno bussato sì alla porta della Nato ma invocando il consultivo articolo 4 (come era già accaduto in occasione dell'abbattimento di un loro cacciabombardiere) anziché l'obbligo di assistenza militare da parte degli alleati contenuto nell'articolo 5 del Trattato atlantico. Hanno risposto ai colpi siriani in modo più che altro dimostrativo.
Ma se i proiettili continueranno a volare sul confine turco-siriano, questa situazione non potrà durare a lungo. E le due ipotesi, quella degli ufficiali fuori controllo e l'altra della provocazione incendiaria, alla fine porteranno allo stesso risultato.
Cosa potrebbe fare la Turchia, infatti, se i colpi di mortaio provenienti dalla Siria continuassero e si moltiplicassero? Come potrebbe reagire Erdogan, e come reagirebbe la sua opinione pubblica, se un ordigno siriano facesse per esempio strage in una scuola, o in un ospedale? Non basterebbero più le rappresaglie soft a suon di colpi di cannone non si sa quanto mirati. E forse non è un caso che proprio ieri carri armati e sistemi di missili anti-aerei siano stati portati alla chetichella in prossimità del confine con la Siria, mentre le basi aeree sono in allarme permanente.
Che si tratti delle ricadute più o meno involontarie di una atroce guerra civile oppure del calcolo di provocatori professionisti (che magari gradirebbero anche mettere con le spalle al muro un Barack Obama dilaniato tra le elezioni in arrivo e l'impossibilità di restare con le mani in mano), i colpi di mortaio siriani rischiano di allargare in modo irreversibile un conflitto che da sempre è parso assai difficile da circoscrivere. E la comunità internazionale, priva di una intesa negoziata che le consenta di intervenire unitariamente (a poco servono gli sforzi di catechizzare gli altri, quando questi sono i russi) potrebbe trovarsi ancora una volta a fare da spettatore.

La STAMPA - Francesca Paci : " Il sogno curdo s’infila fra Ankara e Damasco"

È buono il tè? Viene da quelle case laggiù». Ramaazen aggiunge zucchero alla bevanda già dolce e indica una fila di abitazioni al di là dei reticolati. Da questo parte c’è Ceylanpinar, 45 mila anime in maggioranza curde, estrema frontiera culturalmente conservatrice dell’arido Sud-Est turco. Dall’altra c’è la città gemella Ras al Ayn, siriana di nome ma non più di fatto. Da quando le forze di Assad si sono concentrate su Aleppo, la minoranza curda ha preso il controllo di alcune province settentrionali tra cui Ras al Ayn, che i nuovi governanti chiamano Serekani. Da qui basta gridare perché i dirimpettai salutino in curdo, «Bi xatire te!».

«Tre mesi fa i militari turchi hanno blindato il confine, prima ci lanciavamo un sacco di roba, in Siria servivano soprattutto cuscini e pentole» racconta il 40enne Ramaazen seduto nel giardino di Ougretmenevi, la casa degli insegnanti della scuola media Atatürk di cui è direttore. I colleghi Edip e Mehemet giocano a tawle, il backgammon locale, e commentano il botta e risposta turco-siriano: «Replicare al fuoco è stato un errore, magari sono i ribelli a tirarci le granate per trascinarci in guerra».

Non è che gli abitanti di Ceylanpinar osteggino la rivolta contro Damasco. «I siriani vogliono i loro diritti, hanno ragione» riflette Alì uscendo dall’Internet Cafè Kraln. In fondo, ammette l’amico operatore turistico Safi, «fino a due anni fa i miei zii di Ras al Ayn stavano malissimo, non avevano neppure i documenti». Ma avendo visto dai loro balconi la rivolta siriana sfiorire nella guerra civile, Ramaazen, Edip, Mehemt e gli altri preferiscono credere nella scommessa terzista dei cugini d’oltre cortina, né con il regime né con i ribelli appoggiati dalla detestata Ankara.

«La crisi siriana rischia di realizzare uno dei peggiori incubi della Turchia» nota l’analista Mehmet Ali Birand. Vale a dire la nascita di un mega Stato curdo lungo i confini Sud-orientali, dove è concentrata buona parte dei suoi 12 milioni di curdi, grazie alla convergenza di eventi storici paralleli: il vuoto di potere nel Nord della Siria, l’autonomia politica in Iraq (con cui Ankara sta tentando il dialogo economico), il sentimento antiturco alimentato da Teheran nel Nord-Ovest iraniano.

«Noi e gli abitanti di Ras al Ayn siamo la stessa famiglia, vogliamo restare nel posto in cui viviamo ma essere liberi di muoverci da una parte all’altra senza barriere» spiega il commerciante Sertac camminando nella via centrale della città piena di caffè per soli uomini e di donne velate con foulard viola. Ossia l’indipendenza? «Non so rispondere» dice, ma lascia intendere che non può. Lo Stato-nazione, che il leader del partito dei lavoratori curdi (Pkk) Ocalan in prigione considera «datato», non seduce più i curdi, il più grande popolo senza patria del mondo, 30 milioni di persone divise tra quattro Paesi (Iran, Iraq, Siria, Turchia) dopo la prima guerra mondiale e mai più ricongiunte. Molto meglio puntare sul funzionante modello autonomista del Kurdistan iracheno.

L’intraprendenza turca rispetto ai guai dei vicini ha più a che fare con la politica interna che con la primavera araba, di cui pure Erdogan è un emblema. Dietro la durezza di Ankara verso l’ex amico Assad si cela la questione curda, a lungo usata da entrambi come minaccia o come merce di scambio. Per dieci anni Hafez Assad protesse i guerriglieri del Pkk (oggi nella lista Usa e Ue delle organizzazioni terroristiche) finché nel 1998 la prospettiva di un’invasione turca non lo persuase a desistere. Seguì il disgelo tra i due Paesi, sigillato da Damasco con una serrata caccia agli ormai invisi curdi. La rivolta anti-regime iniziata a marzo 2011 ha rimescolato tutto, con Erdogan votato alla causa dell’opposizione e il Presidente siriano alla «cooperazione tattica» con il Pkk, una temporanea alleanza anti-turca negata da Assad, confermata da un rapporto della think tank britannica Henry

Jackson Society e guardata con imbarazzo rabbioso dai terzisti curdi.

«Vogliamo la pace, prova ne sia che qui, dove siamo tutti curdi, non cadono le granate come ad Hatay» osserva l’impiegato Abdullah scegliendo quaderni per gli otto figli in età scolare nella cartoleria Simsek. Certo Aisha, mamma Aklimé e nonna Gulsem, tre generazioni cresciute nella stessa casa di mattoni e lamiera a pochi passi dal filo spinato, giurano di sentire spari ogni sera e di vedere spesso all’alba disperati correre a perdifiato verso il confine dribblando i soldati. Ma in questa città remota, dove Ankara invia per tre anni gli insegnanti coraggiosi che vogliono guadagnare punteggio, l’atmosfera è rilassata. Niente a che vedere con il pianto notturno dei bambini terrorizzati di Ackakale. «La mossa curda in Siria è storica, la loro maturazione politica» conferma il fondatore del Kurdish Human Rights Project, Mustafa Gundogdu. Non a caso il leader curdoiracheno Massoud Barzani, ospite dell'ultimo congresso del partito del premier turco, si è affrettato a federare i vari gruppi curdo-siriani rivali. Ma Ankara mastica amaro. Dall’inizio dell’anno le vittime degli scontri con la rinvigorita guerriglia curda in Anatolia sono quasi 700 (tra militari turchi e ribelli), cento delle quali nell’ultimo mese. E la guerra in Siria, lungi dal placarsi, minaccia di sconfinare.

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