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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
05.10.2012 Turchia, il Parlamento a favore dell'intervento contro la Siria
cronaca di Lorenzo Cremonesi, commenti di Matteo Matzuzzi, Vittorio Emanuele Parsi, Bernardo Valli, Daniele Raineri

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa - La Repubblica
Autore: Lorenzo Cremonesi - Matteo Matzuzzi - Daniele Raineri - Vittorio Emanuele Parsi - Bernardo Valli
Titolo: «Il Parlamento turco dà via libera a un intervento militare in Siria - Erdogan non vuole la guerra contro la Siria (ma contro i curdi sì)»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/10/2012, a pag. 16, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Il Parlamento turco dà via libera a un intervento militare in Siria "preceduto dal nostro commento. Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Matteo Matzuzzi dal titolo " Erdogan non vuole la guerra contro la Siria (ma contro i curdi sì) ", a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Fatima senza testa". Dalla STAMPA, a pag. 1-29, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " La Nato riscopre la difesa dei confini" , preceduto dal nostro commento. Da REPUBBLICA, a pag. 1- 23, l'articolo di Bernardo Valli dal titolo " Sull'orlo del cratere siriano la trincea della sfida all'Iran ", preceduto dal nostro commento.

A destra, la foto di Fatima, bambina siriana decapitata dale milizie di Assad.
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : "Il Parlamento turco dà via libera a un intervento militare in Siria "

La decisione del Parlamento sottostà comunque al sì di Erdogan, il quale fa la voce grossa, ma non sembra per nulla convinto di voler fare la guerra alla Siria.


Recep Erdogan, Lorenzo Cremonesi

Con il passare delle ore paiono placarsi i venti di guerra tra Ankara e Damasco soffiati per qualche ora impetuosi l'altro ieri sera, dopo che alcuni colpi di mortaio sparati dalla Siria avevano ucciso cinque civili nella cittadina frontaliera turca di Akcakale, provocando la reazione delle artiglierie turche. Per tutta la notte e sino alle 8 (ora italiana) di ieri mattina i cannoni turchi hanno sporadicamente colpito alcune postazioni militari siriane presso la cittadina di Tel Abiyad (solo pochi chilometri da Akcakale, oltre la linea di confine). Le organizzazioni legate ai ribelli siriani segnalano «diversi morti» tra i soldati lealisti, ma ciò non è confermato dai portavoce ufficiali di Damasco.
Dato più drammatico è invece la decisione del parlamento di Ankara (approvata con 320 voti contro 129) di permettere azioni militari contro la Siria, se richiesto dal governo, per un periodo di almeno un anno. Una mossa senza precedenti. In giugno era stata presa in considerazione, dopo che l'antiaerea siriana aveva abbattuto un caccia turco sul limite delle proprie acque territoriali al largo di Latakia. Ma i veloci contatti tra le due capitali avevano impedito che la cosa degenerasse. Quest'ennesima crisi negli ormai difficilissimi rapporti tra i due Paesi, via via peggiorati negli ultimi 18 mesi scanditi dalle rivolte popolari contro la dittatura di Assad, è stata invece parzialmente disinnescata quando, attraverso i propri rappresentanti alle Nazioni Unite, il regime siriano ha presentato le scuse e promesso che «la cosa non si ripeterà più». In serata il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha comunque condannato all'unanimità «nei termini più forti» la Siria, ingiungendole di «non ripetere in futuro simili violazioni del diritto internazionale». In ogni caso, sono stati rafforzati i contingenti militari turchi lungo il confine. E il vice premier Besir Atalay ha spiegato che queste sono misure precauzionali, un deterrente, non un mandato per la guerra aperta. «Non abbiamo alcun interesse a un conflitto con la Siria. Ma occorre sapere che siamo pronti a difendere il nostro territorio nazionale», ha detto. Parole confermate più tardi dallo stesso premier Erdogan.
Pure, l'intera regione frontaliera resta in subbuglio. Sin dalla fine di luglio le brigate rivoluzionarie sono via via riuscite a controllare larghe zone a ridosso del confine. L'esercito lealista vi opera ora per lo più solo tramite l'aviazione e pochi avamposti asserragliati in un territorio ostile. Nelle ultime due settimane anche gli alti comandi del Nuovo esercito siriano libero, composto in maggioranza da disertori tra le truppe di Assad, ha abbandonato le proprie basi in Turchia per trasferirsi nelle zone liberate. E ancora qui i medici siriani passati tra i ranghi della rivoluzione intendono allestire almeno cinque ospedali per le vittime della sanguinosa repressione lealista. La sera dell'11 settembre il Corriere della Sera ha assistito alla riunione di una trentina di dottori in un ristorante di Antakia che mettevano a punto i dettagli tecnici del loro trasferimento nei nuovi posti di attività. Tra le maggiori preoccupazioni c'era quella di essere il più possibile in prossimità del confine internazionale: unica via di fuga in caso di attacco massiccio dei lealisti. A sua volta il governo turco sta subendo con crescente preoccupazione le conseguenze delle ondate di profughi dalle zone devastate dalla repressione di Assad, che sempre più numerose cercano di passare il confine. Si calcola che il loro numero stia ora avvicinandosi a quota 150.000.
Sono quasi tutti sunniti, i quali a loro volta causano gravi contrasti con le popolazioni alauite turche concentrate nella zona di Antakia e in genere simpatizzanti con il regime siriano. Si spiega così la scelta governativa di trasferirli tutti in nuovi campi profughi allestiti nelle ultime settimane sugli altopiani anatolici, a oltre 200 chilometri dal confine. Ma il problema più grave per Ankara restano i curdi legati alla guerriglia indipendentista del Pkk. Ne parlò a lungo a fine agosto ad Ankara il capo dei servizi di sicurezza nazionali, Hakan Fidan, con il massimo responsabile della Cia, David Petraeus, ben consapevole che il tema coinvolge anche Iraq e Iran. Si calcola che dagli anni Ottanta la guerra tra Pkk e governo centrale abbia causato oltre 40.000 morti. Dopo un lungo periodo di calma, lo scontro ha da un anno ripreso d'intensità. Responsabile soprattutto il governo Assad, che garantisce alle milizie del Pkk in Siria di operare liberamente lungo il confine nordorientale. Non è da escludere che ora Ankara possa utilizzare la nuova decisione del parlamento per lanciare massicci attacchi anche contro i curdi siriani.

Il FOGLIO - Matteo Matzuzzi : "  Erdogan non vuole la guerra contro la Siria (ma contro i curdi sì)"

Roma. Ecco, Ankara raggiunge il punto di ebollizione contro Damasco dopo l’attacco siriano che mercoledì pomeriggio ha causato la morte di cinque civili nel villaggio turco di Akcakale – vittime, una madre con i suoi tre bambini e un’altra donna. Per gran parte della giornata di ieri, i colpi d’artiglieria dell’esercito turco hanno colpito le postazioni siriane oltreconfine, mentre ad Ankara il Parlamento autorizzava il governo a intraprendere “ogni tipo di azione militare” in terra straniera per proteggere la sovranità nazionale. Il provvedimento voluto dal premier Recep Tayyip Erdogan era stato originariamente concepito come uno strumento per dare copertura politica e legale ai raid contro le basi curde nell’Iraq del nord, il vero incubo della leadership turca. Nella notte, però, il testo della mozione è stato rivisto, limato e aggiornato: per la prima volta, si dice espressamente che le truppe di Damasco rappresentano “una grave minaccia” alla sicurezza della Turchia. Erdogan l’aveva detto, durante l’estate: la pazienza di Ankara ha un limite, e prima o poi alle provocazioni siriane sarebbe seguita una risposta chiara, nonostante anni spesi a tessere con orgoglio le lodi della dottrina “nessun problema con i vicini” coniata dal ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu. Da Ankara fanno sapere di non volere “iniziare una guerra”, ma assicurano che risponderanno sempre e con determinazione a ogni minaccia. Non sono ammesse voci dissenzienti: la trentina di manifestanti che ha tentato di raggiungere il Parlamento intonando cori a sostegno “dei fratelli siriani” è stata dispersa con i gas lacrimogeni. Dopo aver chiesto e ottenuto una riunione d’urgenza del Consiglio nordatlantico della Nato mercoledì notte – che ha emesso un comunicato di solidarietà alla Turchia e intimato alla Siria di porre fine alle “violazioni del diritto internazionale” –, il premier Erdogan ha chiamato in causa anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu. La bozza di una risoluzione di condanna all’attacco siriano era pronta, ma la Russia ha bloccato tutto, ancora una volta. A ogni modo, la risposta turca all’attacco di mercoledì non è estemporanea, ma calcolata e annunciata. Da mesi la tensione tra i due vicini, un tempo stretti alleati, era palese e sempre più forte. Solo quattro anni fa, Erdogan – grazie alla sua forte amicizia con Bashar el Assad – faceva la spola tra Gerusalemme e Damasco cercando di mettere d’accordo l’allora premier israeliano Ehud Olmert e il rais siriano. Oggi, il leader turco scopre che, secondo alcuni documenti di intelligence di cui è entrata in possesso l’emittente satellitare al Arabiya, quanto raccontato sulla fine dei due piloti turchi a bordo del jet abbattuto da parte di un missile siriano il 22 giugno scorso non corrispondere alla verità. I due piloti sarebbero stati infatti recuperati dalle forze di Damasco ancora in vita, e solo in un secondo tempo sarebbero stati uccisi “su suggerimento dei russi”. Ma è la questione curda a rappresentare la causa principale del progressivo e sempre più profondo deterioramento dei rapporti turco-siriani. Alla fine di luglio, Damasco ha affidato alla minoranza curda l’amministrazione dell’area nord-orientale del paese, che di fatto si è trasformata nella seconda enclave autonoma dopo quella irachena. A prendere il controllo delle strategiche città poste lungo i 910 chilometri di confine sono stati gruppi legati al Partito dell’unione democratica, direttamente affiliato al Pkk, da anni in guerra con Ankara. Erdogan reagiva prontamente, minacciando interventi diretti in territorio siriano per colpire le basi curde: “E’ un nostro diritto”, diceva, aggiungendo che “nessuno deve provocarci, nessuno deve poterci minacciare”. L’accusa esplicita che la Turchia muove ad Assad è di sostenere il Pkk. Per questo, sostengono ad Ankara, gli attentati contro obiettivi turchi si sarebbero intensificati negli ultimi mesi dopo un decennio di relativa calma. “Noi siamo in guerra con la Siria e i suoi alleati regionali”, diceva profeticamente ad agosto Suat Kiniklioglu, consigliere di politica estera del governo Erdogan: “Quello che sta accadendo non è altro che il tentativo di Assad di portare la guerra oltre i confini del suo paese. Dobbiamo prepararci”.

La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : "La Nato riscopre la difesa dei confini"


Vittorio Emanuele Parsi

Vittorio Emanuele Parsi scrive di confini, sostenendo che ora ricoprono un ruolo importante. Ma quando si tratta del conflitto fra Israele e gli arabi la loro sicurezza non conta nulla ?
Segnaliamo, poi, l'ostentazione di Parsi per la sua amicizia con Kupchan. Ma questa è di reale interesse per i lettori? CI fa piacere che Parsi tessa buoni rapporti con altri analisti, ma questo rende i suoi articoli migliori ? Se ne conosce altri ne prenderemo comunque buona nota..

Quella della Turchia di Erdogan che intende giocare la propria partita nel Levante, con il quale è tornata a essere «consapevole di confinare» e quella della Nato che non ha nessuna intenzione di vedersi coinvolta in un conflitto che ne metterebbe in evidenza tutta la presente fragilità strutturale.

Mentre la guerra in Afghanistan dura ormai da dieci anni, senza che si intravedano significative chance di disimpegno che non coincidano con una sostanziale sconfitta politica, e dopo che l’intervento militare in Libia era riuscito a malapena a mascherare le divisioni interne a un’Alleanza nata per contrastare un ben altro nemico (l’Urss) in una ben diversa regione del mondo (l’Europa centrale), la Nato è sull’orlo di una crisi che un coinvolgimento nel Levante potrebbe solo rendere manifesta. Nessuno mette in discussione la sua perdurante rilevanza per il funzionamento della relazione transatlantica e per la sicurezza strategica dell’Occidente. Ma quello che l’Alleanza non può fare è costruire una convergenza di obiettivi politici laddove questa è sempre più difficile da realizzare. Essa ha costituito per oltre 40 anni lo strumento grazie al quale dare concretezza a un’identità di visione e di strategie che si fondavano su due pilastri: la condivisione di un sistema di valori e di istituzioni politiche ed economiche e la presenza di una minaccia avvertita da tutti, simmetricamente, come puntuale e letale. Erano tali la magnitudine della minaccia e l’intensità della percezione di appartenere a un medesimo «Occidente politico» da far passare in secondo piano le differenze pur esistenti tra Europa ed America e all’interno della stessa Europa. A partire dal 1991 tutto questo, che per decenni aveva costituito un dato immutabile e quasi scontato, è progressivamente venuto ad attenuarsi e la Nato si è reinventata: elaborando sempre nuovi «concetti strategici» ma anche trasformandosi da mezzo a fine, ovvero dovendo supplire con la sua concreta esistenza al crescente emergere e divaricarsi degli interessi strategici dei singoli Stati membri e alle loro differenti percezioni rispetto a minacce per la sicurezza sempre più asimmetriche.

Il Medio Oriente, e il Levante in particolare, è proprio il teatro in cui il coro Atlantico rischia ogni volta di trasformarsi in una cacofonia: per il diverso rapporto che lega Washington alla sicurezza di Israele e alla sfida iraniana rispetto alla gran parte delle capitali europee; per gli interessi non coincidenti e neppure convergenti di Paesi come la Francia, Inghilterra, l’Italia e la Germania nella regione. Oltre che per il fatto, che accennavo in apertura: ovvero che per la Turchia il Levante è il proprio «estero vicino» e la propria area di proiezione di potenza naturale, mentre non lo è affatto per la maggioranza dei Paesi Nato. Ci si dimentica troppo spesso che la Turchia venne ammessa nella Nato - e diventò a tutti gli effetti un Paese occidentale ed europeo... - perché condivideva il confine con quell’Unione Sovietica che dell’Occidente rappresentava la minaccia mortale e non perché Europa e Stati Uniti bramassero di confinare con il Medio Oriente. Certo, l’instabilità del mondo arabo e del suo contrafforte iraniano rappresenta un pericolo per tutti. Ma non tutti condividono il medesimo giudizio sulle mosse da fare e sull’evoluzione degli eventi. Se il sostegno all’opposizione affinché diventi «un pericolo anche militare per il governo di Assad» - come auspicava l’amico Kupchan dalle colonne della Stampa di ieri - è ancora così tiepido, le ragioni vanno ricercate nella diffidenza che molti nutrono a Washington e nelle capitali europee sulla natura di questa opposizione... Non c’è dubbio che la prossimità delle elezioni presidenziali americane e la crisi economica che attanaglia l’Europa contribuiscono a raffreddare l’animus pugnandi occidentale, ma fossimo anche in piena ripresa economica e con un presidente americano nella pienezza dei suoi poteri, le ragioni di cautela e di divergenza resterebbero tutte.

La Turchia non sarà quindi «lasciata da sola» qualora la sua sicurezza venisse effettivamente minacciata, ma potrebbe essere «lasciata ad agire da sola» nei confronti della Siria. Se quest’ultima dovesse proseguire negli attacchi al territorio turco (cosa piuttosto improbabile) o se l’Iran di Ahmadinejad dovesse spalleggiare Damasco di fronte alle ritorsioni turche (cosa meno improbabile), allora la Nato interverrà, pure se controvoglia e probabilmente in maniera limitata e differenziata. Ma se la Turchia dovesse decidere che un proprio maggior coinvolgimento nella guerra civile siriana rientra nella propria strategia per la sicurezza nazionale, la Nato starà il più possibile alla finestra.

La REPUBBLICA - Bernardo Valli : "  Sull'orlo del cratere siriano la trincea della sfida all'Iran "


Bernardo Valli

Troppa importanza attribuita all'Iran nel conflitto fra Turchia e Siria. Ciò che interessa a Erdogan, al momento, è semplicemente espandere l'influenza turca in Medio Oriente e guadagnare un ruolo di 'prestigio'.
Ecco il pezzo:

SONO in tanti a camminare sull’orlo del cratere, ma tutti cercano di non perdere l’equilibrio. Pur alimentandola con armi, denaro e parole, nessuno vuole lasciarsi inghiottire dalla guerra civile siriana, che si calcola abbia fatto trentamila morti e un paio di milioni di profughi in un anno e mezzo. Pare che la prudenza non sia una virtù dei turchi, ma pur rispondendo con energia all’uccisione di una famiglia rimasta vittima dei tiri d’artiglieria dell’esercito siriano in una zona di confine, il governo di Ankara si è ben guardato dall’andar oltre una rappresaglia destinata soltanto a salvare la faccia. Non ha minacciato un vero intervento. E la Nato, di cui la Turchia è un’importante componente, ha espresso la sua solidarietà. Nulla di più. Il governo di Damasco, è vero, si è scusato.
Sono in molti ad auspicare la fine del regime di Bashar el Assad, giudicandolo una dittatura sanguinaria e senza avvenire, ma sono anche in molti a temere le conseguenze di quella fine.
È FORSE per questo che i sostenitori dei ribelli centellinano gli aiuti. Mentre l’esercito lealista, quello di Damasco, usufruisce della generosità dei suoi alleati russi e iraniani. Quanto siano spilorci i primi e di manica larga i secondi lo vedi sul terreno. I Mig 21 e gli elicotteri governativi possono scorrazzare sui territori “liberati” senza imbattersi in un’antiaerea efficace, quindi bombardano e mitragliano senza correre grandi rischi. Gli insorti essendo per lo più dotati soltanto di armi leggere, quando vogliono colpire le zone controllate dal regime devono ricorrere alle autobomba, spesso guidate da prigionieri costretti a sacrificarsi come kamikaze. Non si intravede nel futuro scrutabile una soluzione del conflitto. Per ora non ci sono in vista né vinti né vincitori. Né si scorge la possibilità di una tregua, di un compromesso tra le parti. Anche perché l’Esercito siriano libero è in realtà un mosaico di movimenti e milizie di varie tendenze, senza un comando unico sul piano nazionale. Ed è quindi difficile identificare un interlocutore valido. Pur essendo male armata e pur disponendo di meno uomini (un decimo dei più di trecentomila soldati lealisti) l’insurrezione appare in vantaggio sul campo di battaglia perché il regime di Damasco non osa impiegare tutto il suo pletorico esercito. Per impedire le diserzioni non vuole che esso venga a contatto con i ribelli o con la popolazione dei territori contesi. Si limita quindi a usare aerei, elicotteri e unità blindate (i T72 russi) che servono da artiglieria. Insomma adotta sempre di più la guerra a distanza, che infligge pesanti danni alla ribellione, ma che non favorisce il controllo del territorio. Le diserzioni sono state per più di un anno la grande risorsa in uomini e in armi dell’Esercito siriano libero. Ahmed Qunatri, un ex ufficiale adesso comandante di un’unità ribelle nelle regioni del Nord, confessa che da alcuni mesi deve ricorrere a svariati espedienti per convincere i soldati lealisti a cambiar campo. Ha cominciato a praticare un’azione psicologica; a offrire vantaggi in denaro; a ricorrere a mezzi coercitivi. «Degni del diavolo», ammette. E non è comunque facile. Anche perché la polizia di Damasco colpisce le famiglie dei disertori. Inoltre le azioni terroristiche spengono la simpatia per l’insurrezione della gente, e quindi dei soldati richiamati alle armi. Consapevoli di questo, pochi giorni fa i gruppi ribelli operanti nella zona hanno cercato di attribuire ai governativi l’attacco suicida, che aveva appena ucciso quaranta persone in un quartiere di Aleppo, ma poi una milizia affiliata o ispirata da Al Qaeda (Jabhet al-Nusra) l’ha rivendicato. Le milizie estremiste, indicate come jihadiste o salafite, non prevalgono tuttavia nel vasto mosaico dell’insurrezione. La propaganda governativa ne esagera l’importanza per spaventare la popolazione, in particolare i cristiani. Un sondaggio tra gli insorti condotto da siriani per conto di vari organismi americani (International Republican Institute, Pechter Polls of Princeton, N. J., Carleton University ed altri), ha rilevato una forte maggioranza di moderati per quanto riguarda l’eventuale applicazione di principi islamici. Il riferimento alle democrazie occidentali è risultato frequente, e quindi il rispetto per le minoranze religiose. L’esempio del governo turco, dominato da un partito musulmano moderato, è stato il più citato. A parte la Turchia del primo ministro Erdogan, spesso evocato anche nel resto del Medio Oriente, i paesi che appoggiano la ribellione siriana si distinguono per la loro ricchezza. Non certo per il clima di libertà che regna entro i loro confini. Il Qatar e l’Arabia Saudita sono infatti i principali finanziatori dell’insurrezione armata. Lo sono soprattutto in quanto sunniti. Pur essendo in concorrenza tra di loro. Il Qatar, piccolo Stato con un grande portafogli gonfio di petrodollari, era presente anche in Libia. Con il suo dinamismo politico-finanziario vuole evidentemente rimediare all’esiguità del territorio nazionale, e gareggiare con la grande Arabia Saudita. Entrambi i paesi favoriscono in Siria i movimenti dei Fratelli Musulmani o di quelli simili, la cui intensità islamica è variabile. Il loro fervore politico-religioso si è intiepidito negli ultimi anni. Ma, nella grande famiglia sunnita, la corrente wahabita (vale a dire saudita) resta più intensa di quella prevalente nel Qatar. E sarebbe questa la causa del dissidio che spesso esplode tra i due paesi. Ed è allora che interviene la mediazione turca. Arabia Saudita, Qatar e Turchia sono gli acrobatici sostenitori della ribellione siriana, che non vogliono correre il rischio di essere direttamente implicati, che si muovono appunto in bilico sull’orlo del cratere senza caderci dentro, ma che sono fermi nell’intenzione di plasmare la Siria del dopo-Assad. Essi sono appoggiati in questa loro azione dalle potenze occidentali, Stati Uniti in testa, vigilanti ma anch’esse superprudenti. Forniscono aiuti umanitari ai profughi e mezzi di comunicazione ai ribelli. Per ora niente di più. La guerra civile siriana ricorda quella di vent’anni fa nei Balcani. I conflitti etnici si confondono con quelli religiosi. Nell’Oriente complicato (da affrontare con idee semplici) lo scontro è tra sunniti e sciiti, divisi dalla diversa interpretazione dell’Islam ma anche dalla Storia e nel presente dalla lotta per l’influenza nella regione. La Siria, benché a maggioranza sunnita, è governata dalla minoranza alawita, che ha radici sciite. Ed è l’alleata dell’Iran, la grande nazione sciita. La quale è direttamente implicata a fianco di Bashar al Assad. Non solo perché gli fornisce armi e munizioni attraverso l’Iraq, dove c’è un governo dominato dagli sciiti, ma perché dei pasdaran sono presenti in Siria, pare nella veste di ottimi cecchini. La prova? Di recente sarebbe stato sepolto con tutti gli onori a Teheran un pasdaran ucciso a Damasco. E gli Stati Uniti, ancora presenti a Bagdad, hanno invitato il governo iracheno a non lasciar passare nel suo spazio aereo gli apparecchi diretti in Siria, con a bordo armi e soldati. Se gli Stati Uniti, e i paesi occidentali, sono tra le quinte dell’insurrezione siriana, la Russia rifornisce di armi e munizioni il regime di Assad. E’ un frammento dimenticato della guerra fredda. La Siria è anzitutto una trincea dell’Iran. La più importante dopo la guerra che ha opposto negli anni Ottanta l’Iran di Khomeini all’Iraq di Saddam Hussein. Oggi per Teheran la Siria è “la linea di resistenza” all’imperialismo. La resistenza agli Stati Uniti, che impone le sanzioni, e a Israele, che vorrebbe distruggere le centrali atomiche iraniane. La guerra civile siriana riassume cosi altri conflitti. Sottoposto a sanzioni sempre più pesanti, per la sua indisciplina nucleare, l’Iran vive una stagione difficile. La sua moneta si è svalutata del quaranta per cento nell’ultima settimana rispetto al dollaro, e si sono accese manifestazioni di protesta, le prime dopo quelle soffocate nel 2009, l’anno delle elezioni truccate. Se l’insurrezione siriana dovesse trionfare, gli ayatollah perderebbero il loro grande alleato in un momento critico. Rimarrebbero isolati. Gli hezbollah, i loro amici sciiti libanesi puntati come una spada contro Israele, sarebbero ancora più lontani. Per Teheran si annuncia una possibile grande sconfitta. Anche qui, in Libano, con gli hezbollah in casa e la Siria ai confini, si guarda con apprensione a un futuro che potrebbe essere molto vicino.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Fatima senza testa"


Daniele Raineri

Si arriva al villaggio di Kfar Awayed al tramonto, dopo una giornata di strade secondarie percorse a bordo di un pickup dei ribelli siriani. La scorta che viaggia sul cassone salta giù per sgranchirsi le gambe intorpidite, senza mollare i fucili. Come dicono gli stemmi verdenero verniciati sulle fiancate e sul cofano, appartengono alla brigata al Farouq, che combatte più a nord, a Idlib, e più a sud, a Homs, ma non sono di questa zona. Hanno dovuto chiedere indicazioni, hanno pure sbagliato un paio di incroci e sono dovuti tornare indietro. Tutta una pista tortuosa che evita i posti di blocco dell’esercito, o almeno dove si crede che siano in queste ore, e che ha fatto filare il pickup radente alla linea del fronte, alle sue rientranze e alle sue sacche, senza farcelo finire dentro. Soltanto i rumori, due botti secchi d’artiglieria, altri spari più leggeri. Ed ecco dal nulla si materializzano altri ribelli, senz’armi, che chiedono il motivo della visita e subito arrivano anche bambini, che saltano fuori dappertutto, a ogni sosta e a ogni foto. Non c’è più luce, le formalità si sbrigano alla luce di una torcia elettrica tenuta coperta con una mano: un’occhiata al passaporto, la spiegazione. Cerchiamo la famiglia di questa immagine. Certo, la conoscono. Sì, se ci teniamo possono mostrarci dov’è la casa. Intanto però perché non ci togliamo dalla strada e non venite da noi (e magari rispondete a un paio di domande)?

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La fotografia in pagina è stata scattata il 16 settembre nelle prime ore del pomeriggio. Alcuni elicotteri del governo hanno sorvolato questo villaggio e hanno sganciato una bomba in mezzo al gruppo più fitto di case. L’esplosione ha raso al suolo un edificio basso dove si cuoce e si vende il pane e ha devastato quello che c’era intorno. Il motivo della presenza qui: una scheggia della bomba ha tagliato di netto la testa di una bambina che stava giocando su alcuni gradini a meno di trenta metri di distanza. E’ un’anomalia della balistica. Succedono, quando si bombarda abbastanza a lungo. Il corpicino di Fatima, è questo il nome della bambina, è stato raccolto e portato alla famiglia, dove qualcuno ha scattato l’immagine. Messa su Internet, nei giorni successivi ha fatto il giro dei siti che si occupano della rivoluzione siriana, che dopo diciotto mesi e ventisettemila morti non è più soltanto rivoluzione ma è anche guerra civile e film dell’orrore. Il governo di Damasco nega e sostiene che si tratta di una rozza operazione di propaganda inscenata dai terroristi. “Non è una vera bambina. E’ soltanto una montatura fatta con una bambola”.

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Ogni conflitto ha la sua foto, l’icona che resterà. C’è il bambino ebreo che alza le mani davanti alle SS naziste. C’è la bambina vietnamita che scappa nuda dal napalm americano. Questa presa a Kfar Awayed non ha un destino da icona, per ora. Non è arrivata ai grandi media internazionali, o è arrivata ma non c’è il coraggio di pubblicarla. E’ troppo cruda, anche per gli standard del materiale che arriva dalla Siria. Non ha un suo destino anche se fissa in un secondo che cosa è la violenza senza senso del random shelling siriano, del bombardamento a caso sulle aree civili ordinato per punire una regione su cui le truppe di terra stanno inesorabilmente perdendo il controllo.

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Digressione sulla caduta casuale di bombe e colpi di artiglieria sopra il nord della Siria. Certe volte appare che non siano nemmeno così casuali, ma intenzionali. Ad Aleppo, città assediata che sente i morsi della scarsità di cibo, acqua e benzina, gli elicotteri e gli aerei hanno colpito già dieci forni-panetterie come quello raso al suolo qui a Kfar Awayed. E’ la guerra di Damasco all’hobs, a quel pane sottile sottile che strappato a pezzettini e stretto tra il pollice, l’indice e il medio fa da companatico e da pinza per attingere al piatto comune e trasforma un piatto di pomodori, oppure di olive, o di yoghurt, in un pasto completo. E’ la guerra al nutrimento che sazia e fa marciare da secoli il motore degli arabi. Si mangia un po’ di hobs e questo. Oppure un po’ di hobs e quest’altro. Questi colpi deliberati non valgono soltanto per il pane, valgono anche per il segnale dei telefoni satellitari. Dove il segnale di un satellitare punta verso il cielo l’esercito siriano sa che sotto c’è un giornalista che sta spedendo foto, video o articoli fuori dalla Siria alla redazione, e punta i cannoni e spara. I ribelli sono molto chiari sul punto: non si usa il satellitare fino a quando si è ancora a portata di tiro.

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File di scarpe lasciate fuori. La base locale è nelle fondamenta di un ex edificio governativo spoglio e dentro le armi ci sono, eccome, assieme a decine di uomini. I ribelli chiamano il regime “il Sistema”. I carri del Sistema. Gli aerei del Sistema. “Attenzione, i soldati del Sistema!”. Entra un cecchino scalzo con un fucile di precisione Dragunov sovietico preso ai soldati di Assad. “Gli ufficiali del Sistema ci vendono le armi e le munizioni, lo fanno per i soldi, perché ne hanno bisogno per scappare, o anche perché vogliono tenere i piedi in due scarpe, fanno la faccia leale con il regime e con noi si preparano al dopo, potranno sempre dire di essere quelli che ci aiutavano”. A proposito dei rifornimenti: appeso a un muro c’è uno Steyr Aug, è un fucile d’assalto di produzione austriaca, relativamente nuovo e moderno in confronto al solito arsenale di produzione Urss. Spicca dentro la stanza. Per quello che vale notare, è in dotazione anche alle Forze armate del Qatar, il minuscolo e ricchissimo emirato accusato da Damasco di aiutare i ribelli. “Questo ci è arrivato con il numero di matricola abraso e nemmeno noi ne sappiamo l’origine esatta. Quello che sappiamo è che il suo calibro è 5,56 millimetri, noi usiamo il 7,62. Bell’aiuto davvero. Abbiamo già abbastanza problemi a procurarci le nostre munizioni, questa per noi è un’arma inutile”.

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 I ribelli vogliono sapere perché la foto è importante, perché quella e non altre. Capiscono che è potente, ma sono quasi offesi che spicchi sul resto dell’orrore quotidiano. Il Sistema nega persino che sia autentica e allora sì, si convincono che valga la pena dimostrare che la piccola Fatima di due anni e mezzo è esistita davvero e che in foto non c’è una bambola. E però qualcosa non gli torna, e si tormentano: “E dopo cosa succederà? Assolutamente nulla. La foto è vera e il regime ha detto un’altra balla, ma in Italia non cambierà assolutamente nulla. Non ci avete aiutato in tutto questo tempo, perché la situazione dovrebbe cambiare ora? Perché siete qui soltanto adesso, così tardi?”.

* * *

Si sale di nuovo sul pickup, la casa è vicina, ci sono la madre di Fatima, Amal, ha 19 anni, e il padre, Ahmad Abu Mohammed, che ha 24 anni e fa il contadino. Lui ha pudore, sta zitto sul tappeto accanto alla moglie, non sa che dire, è venuta gente da fuori per ascoltare questa storia e c’è la domanda inespressa nell’aria: “Perché una morte è più speciale di altre?”. Lei invece mostra le foto di Fatima viva. Racconta dello spostamento d’aria causato dalla bomba, del rumore dello scoppio. Alza la voce. “Perché il governo ha scelto mia figlia come bersaglio? Perché era considerata un nemico da uccidere? Siamo tutti siriani, perché ci bombarda? Perché sta facendo questo?”. Durante l’intervista la luce va via. La bomba che ha ucciso Fatima è esplosa relativamente lontana, a duecento metri, ma nella stanza del tappeto c’è il segno di un’altra esplosione, un pezzo di muro è sbreccato, manca il vetro. Si esce, si va a vedere quello che resta della panetteria. Non molto, cumuli di calcestruzzo, le rovine tutte identiche. Davanti ci sono i gradini dove sono volate le schegge, sono arrivate così forti che hanno tagliato anche il muro accanto e sono entrate dentro l’edificio, il padre indica i fori, mette le dita dentro.

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