Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/09/2012, a pag. 50, l'articolo di Paolo Salom dal titolo "Statuto di rifugiati per profughi ebrei all'Onu, nuove polemiche (e speranze)".

Danny Ayalon
«Giustizia per i rifugiati». Questo il titolo della conferenza organizzata alle Nazioni Unite — nei giorni dell'Assemblea Generale — dal vice ministro degli Esteri di Israele Danny Ayalon e dall'ambasciatore Ron Prosor, capo della delegazione di Gerusalemme al Palazzo di Vetro. I rifugiati: gli ottocentomila e più ebrei che nel 1948 lasciarono le loro case nei Paesi arabi all'indomani della nascita dello Stato ebraico. «Il nostro scopo è semplice — ha spiegato Ayalon di fronte a una platea di diplomatici occidentali e giornalisti — garantire quei diritti negati loro per 64 anni. Non ci sarà pace senza giustizia».
L'iniziativa è stata oggetto di un tentativo (fallito) di boicottaggio da parte delle delegazioni di alcuni Stati arabi. I palestinesi hanno diffuso un testo di Hanan Ashrawi con la posizione «ufficiale» dell'Olp: «Quegli ebrei non possono essere considerati profughi, emigrarono spontaneamente nel nuovo Stato di Israele come cittadini a tutti gli effetti». La realtà è più complessa. Vero che il neonato Stato spalancò loro le porte, qualche volta intervenendo con operazioni segrete per aiutare il trasferimento di intere comunità. Ma la stragrande maggioranza degli uomini, delle donne e dei bambini che da generazioni avevano le loro dimore nel mondo arabo furono costretti ad abbandonare tutto ciò che possedevano, a parte i vestiti. E molti furono i pogrom che convinsero i più a fuggire. «I Paesi arabi non hanno mai riconosciuto la loro responsabilità — ha detto ancora Ayalon —. L'Onu non ha mai affrontato il tema. Nessuno l'ha fatto ma non è mai troppo tardi per parlare di giustizia».
Ci si può interrogare sui tempi scelti da Israele per proporre, all'attenzione del mondo, una questione che pare riportare indietro l'orologio della Storia in maniera un po' strumentale. D'altro canto, è vero che i diritti degli uni (gli ebrei) non annullano sicuramente quelli degli altri (i palestinesi). E questo dibattito, se non si trasformerà in una sterile «guerra dei profughi», potrebbe al contrario dare una spinta alle parti, incitandole a trovare una giusta soluzione, riconosciuta da tutti. E iniziare a guardare, se possibile, al futuro con altri occhi, altra speranza.
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