Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 20/09/2012, in prima pagina, l'editoriale di Pierluigi Battista dal titolo " La libertà non è un rischio ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Autodafé ". Da REPUBBLICA, a pag. 37, l'articolo di Thomas Friedman dal titolo " Il mondo arabo allo specchio ". Dalla STAMPA, a pag. 7, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Perché proprio ora? Queste provocazioni rafforzano i salafiti ", preceduto dal nostro commento.
Danielle Elinor Guez ( http://danilette.over-blog.com/ ) ha criticato con molta acutezza e con tono diverso dalla vulgata comune la copertina di Charlie Hebdo sulla quale vengono equiparate due situazioni non paragonabili.
E' vero che in tutte le religioni ci sono componenti estremiste, ma la loro azione si svolge esclusivamente al loro interno. Non si bruciano ambasciate, non si ammazzano ambasciatori, non si fanno saltare per aria autobus e discoteche, non si lapidano le donne, non si impiccano gli omosessuali.
La copertina di Charlie Hebdo non è provocatoria, è sbagliata.

La copertina di Charlie Hebdo.
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Pierluigi Battista : " La libertà non è un rischio "

Pierluigi Battista
Non suscitano nessuna simpatia gli oltraggiatori della fede altrui, i professionisti della blasfemia, il bullismo esistenziale di chi offende con protervia i sentimenti religiosi di chicchessia. Ed era proprio indispensabile incendiare ancora le piazze islamiche con le vignette del Charlie Hebdo, mentre le autorità francesi annunciano per venerdì la chiusura di scuole e ambasciate e cercano di prevenire il peggio nelle strade di Parigi? È indispensabile però uscire dall'ipocrisia. La reazione rabbiosa e finanche omicida dei fondamentalisti che hanno messo a ferro e fuoco le ambasciate occidentali non ha come bersaglio una vignetta stupida o un filmaccio dozzinale, ma le democrazie che ne permettono la diffusione e non esercitano in modo sistematico la censura di Stato. Non vuole punire un singolo atto «blasfemo», ma odia gli Stati che non hanno i testi sacri come fondamento delle leggi. Considera la laicità un peccato, la libertà d'espressione un'empietà, una comunità non tiranneggiata dai guardiani dell'ortodossia un mondo marcio e meritevole di essere annientato.
Come ha scritto Angelo Panebianco su queste colonne, i fondamentalisti che bruciano e uccidono non sanno che cosa sia il concetto della responsabilità individuale e considerano le società che permettono la libertà d'espressione molto peggio del singolo che può abusarne malamente. Hanno un'idea totalizzante della «blasfemia» e equiparano al «blasfemo» qualunque dissenso. Non solo l'idiota che produce un video che svillaneggia Maometto, ma un romanzo di Salman Rushdie e persino i traduttori, poi assassinati, di quel romanzo. Non solo le vignette di un periodico satirico in Francia che gioca irresponsabilmente alla provocazione teppistica, ma, come avviene persino nei Paesi dell'Islam «moderato», chi ha nascosto in un cassetto di casa un rosario o un crocifisso.
Riaffiora in Occidente la tentazione della censura, spaventata dalle conseguenze negative che un uso irresponsabile della libertà può provocare. Ma è appunto un'ipocrisia motivare questa sindrome neo-censoria con una dotta interpretazione restrittiva del trattato sulla tolleranza di Voltaire. La ragione è solo una: la paura. La paura di una reazione spropositata, violenta, furente del radicalismo islamico. E infatti nessun illuminista pentito invoca la limitazione «responsabile» della libertà di espressione se ad essere offesa e bestemmiata è la religione cristiana, perché tutti sappiamo che non ci saranno cortei inferociti di cristiani che assaltano e bruciano ambasciate se al Festival di Venezia si proietta un film in cui una devota si abbandona a sfrenate fantasie sessuali con un crocifisso. Non è nemmeno la vecchia, polverosa, antiquata censura che ha sempre indossato panni virtuosi e che ha sempre preteso di mettere al riparo le persone dall'influsso nefasto di idee, suoni, immagini bollate come «immorali». No, è l'autocensura di chi assiste sgomento a manifestazioni di violenta ostilità nei confronti del nostro «mondo» e ne conclude che la libertà è troppo rischiosa. La censura come provvedimento estremo di ordine pubblico, non la censura come rappresentazione di un codice morale autoritario.
Ecco perché oggi è importante, anche se difficile, difendere l'integrità della libertà d'espressione. Poi la critica più feroce deve essere rivolta a chi ne fa un uso così avvilente, ai cialtroni che producono un filmetto senza qualità o ai vignettisti che rivendicano l'intangibilità di una satira incendiaria proprio mentre l'incendio divampa più forte. Ma il cedimento all'intolleranza, questo no.
Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Autodafé "

Giulio Meotti
Roma. “Journal bête et méchant”. Giornale stupido e cattivo, recitava lo slogan ironico del magazine Charlie Hebdo negli anni Settanta. Il giornale satirico della sinistra libertaria è da sempre il re della provocazione, il simbolo della libertà d’espressione in Francia e adesso anche la “Bête Noire”, la bestia nera dei fondamentalisti islamici. “L’onore della Francia è stato salvato da Charlie Hebdo”, aveva scandito Bernard-Henri Lévy nel 2006, quando il settimanale satirico ripubblicò le vignette danesi su Maometto. Ieri lo hanno rifatto in nome della domanda che ha appena posto Bret Stephens sul Wall Street Journal: “Perché è lecito irridere una religione ma non un’altra?”. Charlie Hebdo è al centro dei vari tipi di pressioni subite dall’occidente in questa guerra islamista alla libertà di parola. Pressione fisica e violenta, prima di tutto. Alcuni mesi fa la sede del giornale è stata infatti incendiata con bombe molotov. Ma anche una pressione legale. La rivista è sopravvissuta a un processo in grande stile intentato contro Charlie Hebdo dal consiglio francese del culto musulmano, che ne aveva chiesto il ritiro delle copie (un tribunale scagionò il magazine). “Un processo medievale”, disse l’allora direttore Philippe Val, un corsaro della libertà di parola, una mosca bianca schierata anche a difesa di Robert Redeker. “La nostra arma per opporci alla minaccia integralista è la penna. Ci chiedono di deporla”. Avendo capito quanto alta fosse la posta in gioco, Charlie Hebdo fu difeso anche da Libération con Laurent Joffrin: “Non sono le vignette a uccidere, ma le bombe”. Ci sono due modi di reagire di fronte alla libertà di parola che in maniera rutilante e spesso volgare guasta i rapporti, già fragilissimi, fra l’occidente e l’islam. Si può fare come fece nel 2006 l’allora ministro dell’Interno e candidato alla presidenza, Nicolas Sarkozy: “Preferisco troppe caricature, piuttosto che nessuna”. Ieri anche il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, un socialista multiculti, ha scandito: “Siamo un paese in cui è garantita la libertà d’espressione”. Negli Stati Uniti tira invece una strana aria di scuse preventive per i video e le vignette sull’islam. Il presidente americano, Barack Obama, è andato allo show di Letterman a criticare il filmato, mentre la sua ambasciatrice all’Onu, Susan Rice, dichiarava sempre in tv che la colpa dell’attacco mortale a Bengasi era di quel “video odioso”. Anche Hillary Clinton ha definito “ripugnante” il video, come se ciò comportasse di per sé conseguenze violente. Henryk Broder, storico giornalista dello Spiegel, al Foglio sintetizza così il dibattito in corso: “Cosa vi fu prima, l’uovo o la gallina? Sono stati i caricaturisti a reagire agli attacchi omicidi degli integralisti islamici oppure i musulmani a reagire alle oltraggiose vignette, non facendo che opporre resistenza, nonostante qualcuno abbia poi passato un po’ il segno? I favorevoli all’appeasement appoggiano la seconda lettura: siamo noi che provochiamo, essi reagiscono. E si chiedono: dove sbagliamo, visto che ci odiano così? Fosse per loro non potremmo fare nient’altro che barricarci come se ci fosse un uragano, pregando che la tempesta passi presto e che non ne arrivino di nuove”. E’ quello che hanno fatto le prestigiose edizioni di Yale, che in un libro pubblicato sull’affaire delle caricature, oltre a non riprodurre le vignette per timore di attacchi, hanno rimosso anche il famoso Maometto dell’Inferno di Doré, un capolavoro dell’arte. Non si contano i casi di vignettisti e artisti costretti alla macchia, che hanno rinunciato a produrre, scomparsi nell’anonimato, per colpa della propria “irriverenza” nei confronti dei tabù islamici. La chiamano “the hit list”. Salman Rushdie nei giorni scorsi ha ben detto che oggi nessuno avrebbe pubblicato i “Versetti Satanici”. Il rischio è che i vignettisti di Charlie Hebdo finiscano come i danesi del Jyllands-Posten, i primi cittadini dal 1945 a dover ritirare dalla vita pubblica per proteggere la propria incolumità. O come Molly Norris, la vignettista americana “scomparsa” dopo le minacce dei fondamentalisti. Un giorno il suo giornale, il Seattle Weekly, ha pubblicato queste righe: “Avrete notato che la vignetta di Molly Norris non è sul giornale questa settimana. Perché Molly non esiste più”. Vogliamo che la libertà di parola faccia questa fine? Quando Charlie Hebdo finì sotto i colpi delle bombe molotov, la rivista Causeur scrisse che c’era il rischio di “autodafé a Parigi”. E’ la terribile parola che, nel linguaggio dell’Inquisizione, indicava l’abiura pronunciata dall’eretico. Siamo all’autodafé del vignettista blasfemo?
La REPUBBLICA - Thomas Friedman : " Il mondo arabo allo specchio"

Thomas Friedman
Lunedì il responsabile della redazione del Times al Cairo ha riportato le parole di uno dei manifestanti egiziani fuori dall’ambasciata degli Stati Uniti: giustificando le violenti proteste della settimana scorsa, Khaled Ali ha dichiarato: «Noi non insultiamo nessun profeta, né Mosé, né Gesù. Perché dunque non possiamo esigere che Maometto sia rispettato?». Ali, un operaio tessile di 39 anni, reggeva un cartello riportante la scritta in inglese “Chiudi il becco, America”. Ha concluso dicendo: «Il presidente è Obama, ed è lui che dovrebbe chiedere scusa». Sulla stampa ho letto parecchi commenti di questo stesso tenore espressi da vari dimostranti, e mi trovo in grande difficoltà. A me non piace che si offenda la religione di nessuno, ma vanno dette due cose, e molto chiaramente. Con ancora maggiore chiarezza di quanto abbia fatto il team di collaboratori del presidente Obama. La prima è che un’offesa — per quanto ottusa e malfatta come il filmato anti-islamico messo su YouTube che ha scatenato tutto ciò — non dà alcun diritto a chicchessia di assaltare le ambasciate e assassinare diplomatici innocenti. Non è questo il comportamento che più si addice a un popolo che si autogoverna. Non ci sono giustificazioni che tengano per una cosa del genere. È semplicemente vergognoso. La seconda è che prima di pretendere le scuse del nostro presidente, Ali e gli altri giovani egiziani, tunisini, libici, yemeniti, pachistani, afgani e sudanesi che sono scesi in piazza farebbero meglio a guardarsi allo specchio, oppure ad accendere la televisione. Potrebbero così vedere quanta bile sciovinista alcuni dei loro stessi mezzi di comunicazione stiano continuando a riversare — sulle emittenti tv via satellite, sui siti web, o nelle librerie improvvisate sui marciapiedi fuori dalle moschee — contro sciiti, ebrei, cristiani, sufi e chiunque altro non sia sunnita, integralista o musulmano. Esistono individui nei loro Paesi per i quali odiare “l’altro” è diventato motivo di identità e una legittimazione collettiva per non essere riusciti a realizzare in pieno le loro potenzialità. Il Memri (Middle East Media Research Institute, Istituto di ricerca sui media mediorientali) è stato fondato nel 1998 a Washington da Yigal Carmon, ex consigliere per l’antiterrorismo del governo israeliano, con lo scopo di «colmare il divario espressivo esistente tra Medio Oriente e Occidente, monitorando, traducendo e studiando i media arabi, iraniani, urdu e pashtu, come pure i testi scolastici e i sermoni dei religiosi». Di Memri ammiro molto il fatto che non traduce soltanto i contenuti sgradevoli, ma anche i commentatori arabi liberali, riformisti e coraggiosi. Ho chiesto se potevano inviarmi un campione dei filmati che istigano all’odio regolarmente trasmessi dalle emittenti arabo-musulmane. Visionandoli ho trovato, per esempio, per quanto riguarda i cristiani, Hasan Rahimpur Azghadi, del Consiglio supremo iraniano per la rivoluzione culturale, che nel 2007 affermava che il cristianesimo è «un fetido cadavere, sul quale devi continuare a versare incessantemente acqua di colonia e profumo e lavarlo per tenerlo pulito ». Per Sheik Al-Khatib al-Baghdadi nel 2011 era «lecito versare il sangue dei cristiani iracheni. Ed è un dovere combattere contro di loro nel jihad». C’era poi Abd al-Aziz Fawzan al-Fawzan, professore saudita di legge islamica, che nel 2005 su Al-Majd TV (Arabia Saudita), incitava all’«odio convinto» verso i cristiani. E infine, l’ex imam della moschea di Manhattan, Imran Nazar Hosein, il 2 luglio 2012, affermava che: «Gli infedeli cristiani — l’Anticristo — ormai stanno quasi dominando il mondo». Anche gli sciti non sono risparmiati: il religioso egiziano Muhammad Hussein Yaaqub, il 13 giugno 2012, ha affermato che «Mohammed Morsi, il candidato dei Fratelli musulmani alla presidenza dell’Egitto, mi ha detto che per l’Islam gli sciiti sono più pericolosi degli ebrei». Nell’agosto dello scorso anno un altro religioso egiziano, Mazen al-Sirsawi ha sostenuto che «se Allah non avesse creato gli sciiti con fattezze umane, sarebbero stati asini». A marzo 2012 risalgono invece una serie di filmati del gruppo pachistano Sipah-e-Sahaba dove si dice, tra l’altro che «gli sciiti sono una sottorazza che discende dagli ebrei». Di ebrei si parla anche in un articolo pubblicato a settembre sul sito web dei Fratelli Musulmani che incita alla jihad contro l’America e contro, appunto, gli ebrei, definiti «discendenti dalle scimmie e dai maiali ». Il religioso pachistano Muhammad Raza Saquib Mustafai si è spinto, nell’agosto di quest’anno, ad affermare che: «Quando gli ebrei saranno stati spazzati via, il mondo sarà purificato e il sole della pace splenderà sul mondo intero». Mentre Ismail Ali Muhammad, studioso di Al-Azhar, in un intervento del febbraio 2012, ha detto che: «Gli ebrei sono l’origine del male in tutte le società umane». Altra religione nel mirino è quella sufi. In Libia un tempio dedicato a un santo sufi musulmano è andato in parte distrutto e, come racconta un report della Bbc del 25 agosto scorso, si tratta dell’ultimo di una serie di attacchi la cui responsabilità è stata attribuita agli islamisti salafiti. Dato che sono un ebreo che ha vissuto e lavorato nel mondo musulmano, so che queste manifestazioni di intolleranza rappresentano soltanto una faccia della medaglia, e che esistono e sono professate anche opinioni e correnti islamiche profondamente tolleranti. Le loro società sono complesse. Questo è il punto: anche l’America è una società complessa. Cerchiamo dunque di porre fine una volta per tutte all’assurdità secondo la quale questo è il “ nostro” problema e l’unica questione è capire come “ purificare” il nostro operato. Come dar torto a quel manifestante del Cairo? Dovremmo rispettare le religioni e i profeti altrui. Ma naturalmente questo vale per tutti. Il nostro presidente e i nostri giornali più importanti hanno ininterrottamente condannato ogni discorso che istigasse all’odio nei confronti delle altre confessioni religiose. E i vostri?
La STAMPA - Francesca Paci : " Perché proprio ora? Queste provocazioni rafforzano i salafiti "
Il pezzo di Francesca Paci dà molto spazio alle teorie complottiste dei tunisini riguardo la pubblicazione delle vignette su Charlie Hebdo.
Tutti sostengono che si tratti di una provocazione, che sarebbe meglio evitare certe cose per non 'avvantaggiare i salafiti'.
Nessuna parola di commento da parte di Francesca Paci che, evidentemente, condivide. Quella di Charlie Hebdo non è una provocazione, ma una dimostrazione di che cosa deve essere la libertà d'espressione.
Se quelli interpellati da Paci sono i cosiddetti 'moderati', c'è poco da rallegrarsi, sono tutti schierati per la censura.
Ecco il pezzo:

Francesca Paci
La risposta della piazza musulmana alle nuove caricature di Maometto è imprevedibile. Lo sdegno potrebbe manifestarsi in modo violento, deciso ma pacifico, rabbioso e compresso da un cordone militare degno di Ben Ali. Ma proprio qui in Tunisia, dove l’amata-odiata Parigi ha ritenuto più sicuro chiudere fino a lunedì scuole e ambasciata, la domanda che senti ripetere è sempre la stessa: limada (che in arabo sta per l’interrogativo perché)? Perché il settimanale Charlie Hebdo ha dovuto lanciare il guanto di sfida ai più radicali tra gli islamici, a quelli che solo pochi giorni fa hanno appiccato il fuoco a Bengasi e al Cairo soffiando affinché l’incendio si diffondesse fino in Bangladesh, in Afghanistan, in Indonesia? Limada?
«Di tutto abbiamo bisogno in questo momento fuorché di questo» osserva Houda Kebayer, giovane attivista dell’Association Conscience Politique, una delle tante organizzazioni fiorite dopo la rivoluzione dandosi un nome francese e un obiettivo ambizioso, abituare i cittadini alla democrazia. La studentessa che pochi giorni dopo la fuga del dittatore aveva organizzato la «Carovana di ringraziamento» da Tunisi a Sidi Bouzid, città del martire Mohamed Bouazizi, si dice disorientata: «Non capisco. Magari il film Innocence of Muslim voleva ricordare l’11 settembre 2001, ma Charlie Hebdo? Proprio ora?».
Ora, spiega il medico Khais Dhaklaoui, mentre si discute la nuova Costituzione, compreso il controverso articolo 5 sulla libertà di stampa, quello che i laici vorrebbero volteriano a dispetto dei religiosi compatti nel chiedere la legge anti-blasfemia. «Sono per la libertà - insite Khais - ma provocazioni così avvantaggiano i fanatici che possono argomentare di rifiutare una libertà coincidente con l’insulto. Chi c’è dietro?».
Da limada?, secondo l’antica vocazione araba alla dietrologia, discende l’altro interrogativo: a chi conviene? «Non capisco l’intento di Charlie Hebdo, sanno cosa è accaduto dopo il film Innocence of Muslim, rilanciare irridendo certi valori che la gente qui considera importanti non ha senso» commenta la giornalista Souad Bensliman. Alla Tunisia, dice, non serve il caos ma la democrazia: «C’è forse qualcuno che rema contro?». Di nuovo quel sospetto.
La situazione, di per sé, è problematica, ammette un imprenditore italiano che da 10 anni si occupa di trasporti in Tunisia. Le strade non sono più sicure come prima, specialmente al sud, i camion vengono assaliti, lui stesso si è trasferito a vivere in un residence cintato. Eppure pensa che «certe cose» vadano evitate: «Chi ha più intelligenza la usi. A me non piace se si ride del Papa ma pazienza, i musulmani invece sono suscettibili, passi che la moglie li tradisce ma guai a toccare il Profeta... e allora perché insistere? Non dico la censura, ma non pubblichiamo certe cose che con il Web fanno subito il giro del mondo».
Il punto, sostiene il produttore tv Iosri Buasida, è proprio l’incomprensibilità di vignette uscite con troppo tempismo per essere «spontanee». Lui sa bene quanto il Paese balli: «Volevo aprire una tv ma ho desistito perché qui ora la finzione tira più della realtà. Così mi sono rimesso a fare film, peccato che la tv pubblica abbia rifiutato il mio nuovo Al kannass (il cecchino) perché è critico sul post rivoluzione e sui Fratelli Musulmani di Ennahda... lo trasmetto il 20 ottobre sul canale privato Tunisna». La scelta di Charlie Hebdo non lo convince: «Non giustifico né la violenza né i libertari a ogni costo, ma perché attizzare il fuoco? Così Ennahda potrà dire, come faceva Ben Ali, che per proteggerci dai salafiti deve ritirare un po’ di democrazia... e l’America sarà contenta».
Se in ballo c’è la libertà, i tunisini che la vogliono temono anche l’oltranzismo libertario. «L’intellighenzia occidentale dovrebbe essere più vigile, siamo in una transizione, i fondamentalisti cercano scuse, ma se sai dove inizia la provocazione non sai mai dove finisce» chiosa lo scrittore Walid Soliman. Resta ottimista, il suo nuovo romanzo s’intitola «Una donna per tre uomini» e lo pubblica a puntate su Facebook: «Parla di una donna che non accetta stereotipi. Ma nella realtà ci vuole tempo e qui la gente è stanca, ogni volta che le cose sembrano funzionare succede qualcosa».
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