Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Sabra e Chatila, un massacro per vendicare l'assassinio di Bashir Gemayel ma 30 anni dopo la menzogna regna ancora sovrana
Testata:La Repubblica - Il Manifesto Autore: Alberto Stabile - Michele Giorgio Titolo: «Tra i fantasmi di Chatila, 30 anni dopo. 'Ostaggi della memoria e della malavita' - Trent'anni di solitudine»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 18/09/2012, a pag. 37, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo "Tra i fantasmi di Chatila, 30 anni dopo. 'Ostaggi della memoria e della malavita' ". Dal MANIFESTO, a pag. 8, l'articolo di Michele Giorgio dal titolo " Trent'anni di solitudine ".
Sabra e Chatila
L'articolo di Alberto Stabile ha dell'incredibile, si conclude con le dichiarazioni inverosimili di un intervistato che, all'epoca dei fatti, aveva 20 anni e non era di certo un bambino. E' un'ulteriore riprova della confusione che ancora oggi viene fatta su una vendetta originata dall'uccisione di Bashir Gemayel. Non ci sono altre spiegazioni per Sabra e Chatila, se non quelle fantascientifiche e motivate dall'odio per Israele contenute nel pezzo di Giorgio. Ecco i pezzi:
La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " Tra i fantasmi di Chatila, 30 anni dopo. 'Ostaggi della memoria e della malavita' "
Bashir Gemayel
CHATILA (Beirut) Il ricordo del massacro soffoca lentamente sotto la polvere del tempo. D’altronde, come si fa a vivere di memorie se ogni giorno devi combattere contro mille insidie per poter tirare avanti? Nulla a Sabra e Chatila è più come era, non le persone che vi abitano, né i luoghi. In trent’anni, il campoprofughi simbolo della sofferenza dei palestinesi s’è trasformato in un inferno di reietti: libanesi indigenti, immigrati clandestini venuti dall’Asia e dall’Africa, trafficanti di poco conto, estremisti religiosi in cerca di proseliti e, da ultimo, palestinesi in fuga dalla guerra civile siriana. I quali, tutti insieme, dice il direttore della Ngo palestinese “Social Care”, Kassem Aina, «assommano ormai ad oltre metà dei sedicimila abitanti del campo». Avendo raddoppiato la sua popolazione, l’immagine di Chatila (appendice del quartiere di Sabra e da qui il nome di Sabra e Chatila) è cambiata. Non più case ad un piano, come quelle in cui 30 anni fa fecero irruzione i miliziani cristiani della Falange, sotto lo sguardo nella migliore delle ipotesi distaccato, se non accondiscendente, dei soldati israeliani, ma edifici, se così si può dire, di cinque, o sei piani, sorti abusivamente sopra le baracche fatiscenti di allora, per l’inevitabile spintaversol’alto,vistochenonci sono altri aree disponibili, prodotta dalla crescita demografica. Ma quest’esplosione è avvenuta nel caos, nell’anarchia e nell’indifferenza generale. Il risultato è un terrificante stato di abbandono. Andare in giro per le strade fangose e i vicoli asfissianti di Chatila è come camminare sotto una aggrovigliata ragnatela di cavi elettrici e di fili scoperti ad altezza d’uomo, che con le prime piogge si trasforma in una griglia mortale. Nelle case fatiscenti dove si ammassano sei o sette persone per ogni stanza, la luce viene data non più di tre o quattro ore al giorno. L’acqua non è potabile. Le fognature, perennemente intasate, diffondono ovunque un odore insopportabile. Gli effetti di questa situazione sull’igiene pubblica e sulla salute generale sono micidiali. Pungolato dal senso di colpa collettivo provocato dal massacro dei palestinesi, nella stragrande maggioranza donne, bambini e anziani, l’Occidente, ha cercato timidamente di offrire assistenza e, laddove si richiedevano coraggiose soluzioni politiche, uno strato di malta è stato passato sulle ferite della guerra. Senza, tuttavia, riuscire a cambiare le condizioni di vita del campo, che sono andate costantemente peggiorando. Se c’è un luogo che riassume questa involuzione è il cosiddetto “Gaza Hospital”, un tempo gioiello del sistema assistenziale dell’Olp (scuole, centri sociali, ospedali: uno “stato nello stato” si diceva a quei tempi) che, degradato adesso a semplice “Gaza building”, sorge ancora all’ingresso di Chatila con i fori dei proiettili che ne sfregiano la facciata. Solo che non è più l’ospedale di cui andava fiero Arafat, con la sua sala operatoria finanziata dai paesi europei e le corsie dove potevano trovare posto decine di ricoverati, ma un edificio fatiscente che ospita centinaia di stranieri e dove un letto per dormire costa soltanto tre dollari a notte. Di tutti i paesi del Medio Oriente che ospitano la diaspora palestinese, il Libano è sicuramente il più avaro verso i rifugiati, ai quali, lamenta Kassem Aina, vengono negati i più elementari diritti umani, a cominciare dal diritto al lavoro. «In teoria — racconta Kassem, un volontario orgogliosamente legato alla sua missione — i palestinesi in Libano possono possedere un taxi ma non possono guidarlo, perché non hanno diritto alla licenza. Per non dire dell’accesso negato alle professioni, alla scuola, alle attività commerciali». «Cosa ci si può aspettare da giovani a cui viene negata la speranza? », risponde Kassem Aina quando gli chiediamo conferma di notizie allarmanti sulla droga che gira nei campi profughi. «La droga c’è dappertutto in Libano — concede — . C’è anche a Dayeh (la roccaforte degli Hezbollah, n. d. r.), come ha denunciato Nasrallah. Noi non abbiamo ospedali e servizi sociali. Solo la Croce rossa e qualche Ong. L’unica cosa che possiamo fare è puntare sull’istruzione, e ci stiamo riuscendo». «Subinah... Subinah». «Che ne è stato di noi? Cosa ci è successo? », canta in mezzo ad un gruppo di volontarie di “Social Care”, la piccola Yusra, nata nel campo siriano di Yarmuk e arrivata a Chatila due settimane fa, mentre sulla sua casa cadevano le prime bombe dell’esercito di Damasco. La canzone, resa famosa da Fairuz, la diva per eccellenza del bel canto libanese, è dedicata ai profughi dalla Palestina («per carità, riportateci nella nostra terra ») ma qui, attraverso la voce scintillante di questa ragazza di 13 anni, che non ne dimostra più di 8, o 9, diventa l’amara testimonianza di una storia infinita. La quale, nel caso dei palestinesi di Siria, ha preso un altro giro imprevisto: la fuga nella fuga. Arrivata assieme al padre, la madre e due fratelli, la famiglia s’è subito smembrata. Il padre, tassista, è tornato a Damasco. Yusra ha trovato ospitalità da una zia. La madre e gli altri due figli, si sono sistemati da altri parenti. Ma lei non pensa con nostalgia a Yarmuk. Un campo vale l’altro. Il suo sogno è andare in Palestina, a Jaffa, da cui nel ‘48 erano fuggiti i nonni. Lì è la «vera casa», come ha sempre sentito ripetere in famiglia. Perché questo è ciò che resiste al degrado di Chatila e al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi, questo desiderio di giustizia, questa nostalgia della terra tramandata da padre in figlio. Nuove rivelazioni si aggiungono alla storia risaputa del massacro. Un ricercatore americano della Columbia University, Seth Amsiska, scavando negli archivi israeliani, finalmente declassificati, ha scoperto che l’inviato del presidente Ronald Reagan per il Medio Oriente, Morris Draper, avrebbe potuto costrin- gere Ariel Sharon, spietato architetto dell’invasione israeliana del Libano, a fermare i falangisti in procinto di entrare nel campo profughi, sotto il controllo dell’esercito dello Stato ebraico, per compiere la strage. Ma Draper e l’Amministrazione hanno ceduto ai falsi argomenti e alla tattica dilatoria di Sharon, consentendo, di fatto, alle milizie libanesi di compiere il massacro. Interessante, certo, e forse istruttivo per gli Stati Uniti. Ma queste rivelazioni non cambiano la percezione dei palestinesi di quelle terribili giornate tra il 15 e il 17 settembre del 1982 in cui centinaia, forse migliaia di civili (le stime variano da 800 a 3500 morti) vennero massacrati dai falangisti libanesi. Il ricordo di quei giorni resta indelebile nella memoria di Jamila Khalifa, che adesso ha 50 anni ed allora, sentiti i primi spari, chiese al padre, Mohammed, di portare fuori tutta la famiglia. «Mio padre aveva paura di lasciare la casa. Ci diceva che era meglio restare nel rifugio e aspettare. Appena fuori, un falangista vestito da cowboy puntò il mitra sullo stomaco di mia madre. Un soldato israeliano intervenne. Mia madre capiva l’ebraico. Il soldato disse che donne e bambini non dovevano essere toccati. Ci lasciarono andare, ma trattennero mio padre. Lo trovammo così due giorni dopo» e mostra la copia sbiadita di una pagina di giornale dove campeggia la foto di un corpo cadavere rannicchiato per terra, contro un muro. Uno dei tanti.
Il MANIFESTO - Michele Giorgio : " Trent'anni di solitudine "
Michele Giorgio
«Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti». Comincia così il lungo racconto scritto trent’anni fa da Robert Fisk, uno dei primi giornalisti stranieri ad entrare nei campi profughi di Sabra e Shatila dopo il massacro di 3mila palestinesi. Il lungo e penoso resoconto di un giro tra case e strade colme di cadaveri che Fisk e i suoi colleghi non dimenticheranno mai. Sono passati trent’anni da quella strage compiuta dal 16 al 18 settembre 1982 da miliziani cristiano- falangisti agli ordini (ma non solo) di Elie Hobeika, sotto gli occhi compiacenti delle truppe d’invasione israeliane. I ricordi sono ancora vivi per chi scampò a quella mattanza. Molto meno tra i libanesi immersi nella loro vita frenetica. Non ha più memoria invece la «comunità internazionale», pronta a processare e condannare vecchi e nuovi criminali di guerra, che ha scelto però di dimenticare esecutori e mandanti di quel massacro. Uomini, donne, bambini. Civili inermi e non combattenti armati, uccisi in ogni modo possibile per vendicare la morte in un attentato, qualche giorno prima, del neo-eletto presidente della repubblica BashirGemayel, il falangistamesso al potere dalle truppe di occupazione agli ordini di Ariel Sharon, a quel tempo ministro della difesa di Israele e stratega dell’Operazione militare «Pace in Galilea». Lo ricorda bene Aziza Khalidi che qualche giorno fa ha rivissuto nei racconti fatti ai giornalisti le varie fasi del massacro, dall’incredulità dei primi momenti all’orrore della scoperta del bagno di sangue. La donna a quel tempo era direttrice amministrativa dell’ospedale Gaza, costruito ai margini del campo di Shatila con fondi messi a disposizione dell’Olp. Quel trauma non lo ha mai superato. «E non ci riuscirò mai – ha detto – perché quei tre giorni (di massacro) hanno segnato la mia vita, fui costretta a lasciare il Libano per molti anni per riprendermi da ciò che accadde». I dieci piani dell’«edificio» Gaza, come è conosciuto adesso, non accolgono più l’ospedale. Il palazzo fatiscente alloggia in minuscoli appartamenti a basso costo famiglie palestinesi, lavoratori siriani,migranti. In queste stanze trent’anni fa si tentò, spesso invano, di curare i superstiti della carneficina. C’era anche il dottor Ben Alofs, un medico olandese. «Il nostro obitorio si riempì di cadaveri in pochissimo tempo – ha scritto e raccontato in più di una occasione – Ricordo un bambino di 10 anni che fu trasportato agonizzante all’ospedale. Era vivo e aveva trascorso tutta la notte sotto i cadaveri dei suoi genitori, fratelli e sorelle. Gli assassini venivano aiutati dagli israeliani, che illuminavano i campi... Sabato mattina 18 settembre fummo arrestati dai miliziani falangisti che ci costrinsero ad abbandonare i feriti e a lasciare Sabra e Shatila. Passammo attraverso centinaia di donne, bambini ed uomini fatti a ciambella. Vedemmo corpi nelle strade e negli stretti vicoli... Appena prima di uscire dal campo un’immagine che resterà per sempre nella miamente: un grosso cumulo di terra rossa da cui fuoriuscivano braccia e gambe. Fuori da Shatila vi era un bulldozer dell’esercito israeliano».Domenica 19 settembre, aggiunge Ben Alofs «tornai a Sabra e Shatila accompagnato da due giornalisti danesi e un olandese...Tutti eravamo atterriti dalla ferocia degli assassinii... Quando le piogge autunnali iniziarono a cadere, alla fine di novembre, le fogne congestionate inondarono Sabra e Shatila. La congestione era causata in parte dai cadaveri gettati nelle fogne». Le premesse del massacro sono nell’imposizione di Israele e dei suoi alleati libanesi dell’allontanamento da Beirut e dal Libano di 15mila guerriglieri palestinesi e tutto il gruppo dirigente dell’Olp, i soli protettori dei profughi in un paese che già da sette anni viveva nella guerra civile. Fu perciò formata la Forza Multinazionale di interposizione (Fmi, con soldati statunitensi, francesi e italiani) incaricata nella seconda metà di agosto di garantire l’ordine durante il ritiro delle forze dell’Olp e l’incolumità dei civili palestinesi rimasti. Il 23 agosto il parlamento libanese elesse all’ombra dei carri armati israeliani Beshir Gemayel a capo dello stato. La Fmi, invece di rimanere a presidio della zona musulmana (Ovest) di Beirut fino al ritiro delle truppe israeliane, si imbarcò in anticipo sulla data stabilita. Il 9 settembre partirono imarines Usa, l’11 i bersaglieri italiani e il 13 settembre salparono i francesi. I falangisti libanesi alleati di Israele intanto insistevano sulla presenza nei campi palestinesi di «terroristi », guerriglieri che a loro dire non avevano lasciato Beirut. Voci che si fecero più insistenti quando il 14 settembre una potente bomba esplose nella roccaforte delle Forze Libanesi, ad Ashrafieh, provocando 21 morti, tra i quali Beshir Gemayel. Subito dopo le truppe israeliane occuparono Beirut Ovest e circondarono i campi profughi. Alle 5 di sera di giovedì 16 settembre iniziò «l’operazione di pulizia dai terroristi » con le belve agli ordini di Eli Hobeika che penetrarono nei campi palestinesi per avviare la strage di civili, ai quali poi si aggiunsero i libanesi dell’Esercito mercenario del Sud del Libano, alleato di Israele. Si dice che alla mattanza parteciparono anche miliziani sciiti. Furono uccisi in ogni modo possibile i profughi palestinesi ma anche cittadini siriani e libanesi, colpevoli di vivere o simpatizzare con i «nemici». Il rastrellamento dei «terroristi » avvenne casa per casa con i comandi israeliani che seguivano cosa accade dalla terrazza della vicina ambasciata del Kuwait abbandonata dai diplomatici del paese arabo. Da parte loro i soldati di Tel Aviv sparavano razzi illuminanti durante la notte, aiutando gli assassini.Dall’ospedaleGaza furono cacciati i medici e il personale straniero. Coloro che vi avevano cercato rifugio furono portati via e assassinati. Il bagno di sangue si fece più intenso nelle ultime ore del 17 settembre quando cominciò a diffondersi la notizia della strage. Alle prime luci del 18 settembre i miliziani falangisti si ritirarono, lasciandosi dietro le spalle un fiume di sangue: 3mila tra assassinati o scomparsi nel nulla. Nessuno dei responsabili diretti e indiretti di quella strage è mai stato portato davanti a una corte internazionale per essere giudicato per crimini di guerra e contro l’umanità. La «Commissione d’inchiesta Kahan» in Israele concluse che uniche colpevoli del massacro di Sabra e Shatila erano state le milizie falangiste di Hobeika e si limitò a rilevare la responsabilità indiretta di Ariel Sharon per non averlo saputo prevenire o fermare. Elie Hobeika morì nel 2002 a Beirut in un attentato che gli chiuse per sempre la bocca mentre a livello internazionale partivano iniziative per portare i colpevoli libanesi e israeliani davanti alla giustizia. La memoria in ogni caso non muore. Sabra e Shatila non sarà mai dimenticata. Lo confermano anche le centinaia di stranieri, che assieme ai profughi palestinesi, in queste ore stanno commemorando le vittime del massacro. Anche nel ricordo di Stefano Chiarini, il giornalista del manifesto fondatore in Italia del «Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila ». Unamarcia di centinaia di persone facenti capo ai comitati popolari e alle ong palestinesi, ieri ha attraversato Shatila fino al «Cimitero dei Martiri». Oggi la delegazione del «Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila», coordinata dai giornalisti Maurizio Musolino e Stefania Limiti, e i rappresentanti della ong palestinese «Beit atfal sumud», sfileranno dal centro culturale della municipalità di Ghobeiry fino a Shatila dove renderanno onore alle vittime del massacro e incontreranno le loro famiglie. È prevista anche una seconda marcia dei comitati popolari che hanno allestito una mostra fotografica sulla strage.
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