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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
17.09.2012 Libia, attacco pianificato da mesi
cronache di Guido Olimpio, Vincenzo Nigro. Commento di Guido Olimpio

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Guido Olimpio - Vincenzo Nigro
Titolo: «Evacuate le ambasciate a rischio. E il Pentagono sposta le truppe - Quei manifestanti 'pagati' e la regia occulta dei disordini - Nel covo dei miliziani di Bengasi: con la sharia ricostruiremo la Libia»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 17/09/2012, a pag. 10, gli articoli di Guido Olimpio titolati " Evacuate le ambasciate a rischio. E il Pentagono sposta le truppe " e " Quei manifestanti «pagati» e la regia occulta dei disordini ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-10, l'articolo di Vincenzo Nigro dal titolo " Nel covo dei miliziani di Bengasi: con la sharia ricostruiremo la Libia ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Evacuate le ambasciate a rischio. E il Pentagono sposta le truppe "

WASHINGTON — Chi «traccia» i movimenti aerei se ne era accorto. Velivoli delle forze speciali spostati dagli Usa al sud del Mediterraneo e in Medio Oriente. Ieri il segretario alla Difesa Panetta ne ha spiegato la ragione: il Pentagono ha schierato unità pronte a intervenire nel caso si verifichino situazioni di emergenza. Lui è convinto che il peggio sia passato ma considera la storia delle violenze chiusa. In qualsiasi momento potrebbero verificarsi nuovi episodi, a partire da oggi, con l'appello dell'Hezbollah a manifestare «con forza» per tutta la settimana.
Il timore, del resto, emerge dai provvedimenti presi dal governo americano. Dove ha potuto (Libia) ha inviato rinforzi dei marines, in altre Paesi — Tunisia, Sudan, Yemen — ha ordinato il rimpatrio del personale non necessario e dei familiari. Misura motivata con il fatto che le autorità si sono rivelate incapaci di fronteggiare in modo adeguato gli estremisti.
Le manovre visibili sono accompagnate da quelle più discrete, affidate a forze speciali e agli onnipresenti droni. Gli aerei senza pilota sono in azione in Libia, dove tengono d'occhio i militanti sospettati di essere gli autori dell'assalto di Bengasi. Una pressione, anche psicologica, che si aggiunge alle indagini che partono dalla cinquantina di arrestati. Il presidente libico Mohamed Magariaf ha affermato che i terroristi locali potrebbero aver ricevuto l'aiuto di stranieri provenienti da Mali e Algeria. I salafiti locali hanno fatto da schermo a elementi forse legati ad Al Qaeda nella terra del Maghreb. Ma se questa fazione ha voluto aprire il fronte libico sembra strano che non lo abbia rivendicato. Analizzando i video della tragica notte gli agenti locali si sono accorti che alcuni dei presenti parlavano in egiziano. Magari si trattava di semplici dimostranti però le autorità vogliono capire chi fossero. Anche perché testimonianze hanno riferito che alcuni degli assalitori — armati di lanciagranate Rpg — non sarebbero stati libici. Con un dettaglio: se i colpevoli sono stranieri il problema non è più solo di Tripoli e richiede una risposta più ampia. Una mano può venire dagli Usa che hanno mobilitato l'Fbi, ma gli investigatori non hanno ancora raggiunto Bengasi perché il quadro è molto instabile e gli agenti potrebbero essere loro stessi vittime di agguati. Il che aiuta a capire coma vanno le cose nella principale città della Cirenaica.
Si continua poi a discutere del momento precedente all'attacco. I libici insistono nel parlare di un piano ben preparato. E aggiungono che tre giorni prima avevano avvisato gli americani sulla situazione pericolosa venutasi a creare in a Bengasi. L'impressione, però, è che si sia trattato di una segnalazione generica e non di indicazioni specifiche. Sempre i libici sembrano disegnare uno scenario in tre fasi per l'attacco costato la vita all'ambasciatore Chris Stevens: 1) Una dimostrazione con poche centinaia di persone davanti al consolato. 2) Il raid di uomini armati con mitragliatrici e granate. 3) Il saccheggio dei locali. In questa ricostruzione i salafiti hanno rappresentato la «nebbia» che ha protetto i terroristi veri.
Chi non crede alla teoria del piano è invece l'ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Susan Rice, per la quale si è trattato di una manifestazione degenerata in violenze e dirottata da gruppi armati. La diplomatica, nota per essere tra le sostenitrici della primavera araba, ha comunque espresso fiducia sul futuro. In realtà al Dipartimento di Stato non vedono un orizzonte roseo. C'è grande preoccupazione. Gli analisti si aspettano una continua instabilità, con possibili acuti di violenza. Insomma, il vulcano è sempre attivo.

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Quei manifestanti «pagati» e la regia occulta dei disordini "


Guido Olimpio, al Qaeda

WASHINGTON — I «giovani arrabbiati» che hanno assaltato le ambasciate occidentali in Nord Africa ricordano i dimostranti mobilitati dai mullah contro il grande Satana. Persone che si infuriano a comando. Sono distratti da altro. Oppure pensano ad altro. Poi si ricordano che mesi prima qualcuno ha offeso il Profeta. E c'è chi li aiuta a concentrarsi sulla nuova causa. Suggerimenti che mandano all'aria la teoria — poco credibile — della spontaneità dei protagonisti delle gravi violenze. E infatti con il passare dei giorni emergono altri dettagli sugli ispiratori della catena di eventi. Il video blasfemo risale all'inizio dell'estate ma è esploso a settembre. Era di fatto una pellicola clandestina che però è diventata nota grazie all'azione della cellula estremista copta in Usa e ai piromani che vivono in Medio Oriente. Non si è trattato di un piano (per ora non esistono le prove), però abbiamo assistito a mosse, almeno nelle ultime settimane in modo da far coincidere la rabbia con l'anniversario dell'11 settembre.
Il primo ministro egiziano Hisham Qandil, intervistato dalla Bbc, ha sostenuto che alcuni degli arrestati per l'attacco alla sede diplomatica americana al Cairo sono stati «pagati». Qualcuno, dunque, è andato nei quartieri più difficili della megalopoli ad arruolare i teppisti. Secondo un comunicato della polizia decine di loro erano dei criminali ricercati e altri avevano precedenti. L'informazione del premier Qandil è interessante. Tuttavia ha bisogno di essere integrata con un dato chiave. Chi ha tirato fuori i soldi? Nostalgici del vecchio regime? O ambienti conservatori del Golfo? O ancora quei sauditi che alimentano l'estremismo islamico dal Marocco fino alla Siria? Magari i Fratelli musulmani, che conoscono alla perfezione quegli ambienti, possono accertarlo senza dover ricorrere ai servizi segreti. Probabilmente basta una telefonata. Possono anche contare su mediatori finanziari — ben noti anche in Europa — che ne sanno. Eccome. Solo che la questione può diventare imbarazzante per molti.
Sempre il governo egiziano potrebbe bussare alla porta dello sheikh Khaled Abdallah. L'esponente religioso ha attirato l'attenzione sul filmato blasfemo parlando dalla tv satellitare «al Nas» alla vigilia dell'11 settembre. E il predicatore ha un passato. Se muore una mosca è colpa dei cristiani, dei sionisti, degli americani. Quando 28 copti furono massacrati dalla polizia egiziana, Abdallah, parlando sempre dal pulpito televisivo, si è scagliato contro le vittime. Quando dozzine di persone morirono negli scontri tra tifosi spiegò che la colpa era del Mossad. A suo giudizio l'Egitto è vittima degli infiltrati, che per lui sono gli israeliani, l'Iran, gli omosessuali. Ne ha anche per i giovani manifestanti della Primavera, guardati con molto sospetto. Ed Abdallah ha degli imitatori salafiti in quei Paesi dove si sono avute le sommosse antioccidentali.
Nella vicina Tunisia la polizia ha arrestato Mohamed Bakthi, leader radicale protagonista di video con appelli a dimostrazioni forti. Sono invece ancora latitanti due suoi colleghi. Abu Ayub, personaggio che si è fatto intervistare ostentando la bandiera di Al Qaeda, e Abu Iyad, considerato la mente degli attacchi contro gli obiettivi statunitensi nella capitale. A dire il vero Abu Iyad non si è nascosto troppo: ieri era al funerale dei dimostranti uccisi dagli agenti e i suoi gli hanno fatto scudo impedendo che fosse bloccato. Altro aspetto grave. I salafiti tunisini, in questi mesi, hanno imperversato con aggressioni nei confronti di professori, studenti, intellettuali. Ancora ieri alcuni giornali locali continuavano a spargere bugie sull'origine del video. Eccessi tollerati dal nuovo governo che ora si accorge della loro pericolosità. In realtà ha cercato di barcamenarsi per evitare lo scontro con quelli che comunque appartengono all'Islam politico. Scelta sbagliata perché i salafiti, in questa fase, non sembrano disposti a compromessi. E la vicenda del video californiano ha dato la possibilità a quanti manovrano di aprire un fronte usando non questioni terrene ma l'offesa al Profeta.
Quella che è stata la tempesta perfetta — 11 settembre, tensioni regionali, appelli qaedisti — ha dunque trovato energia in un sistema che ha usato i media, fondi discreti e i progetti di cattivi maestri che non sono così occulti.

La REPUBBLICA - Vincenzo Nigro : " Nel covo dei miliziani di Bengasi: con la sharia ricostruiremo la Libia "


L'ambasciata Usa a Bengasi, Chris Stevens

Tornare sul luogo del delitto per verificare un particolare. Ieri a Bengasi era un giorno di festa, il ricordo del martirio di Omar el Mukhtar ucciso dai fascisti italiani. Una celebrazione che adesso si è trasformata nel «ricordo dei martiri della rivoluzione contro Gheddafi». Cavalieri berberi e paracadutisti per celebrare una rivoluzione che fatica a stabilizzarsi. Le strade lontane dalla piazza del tribunale sono vuote, e arrivare fino al consolato americano è abbastanza semplice. Il consolato è bruciato, devastato e saccheggiato come si è visto nelle foto rimbalzate nel mondo. Ma il particolare da verificare era questo: è vero, la casa degli americani è stata attaccata anche dall´alto, a colpi di mortaio, ci sono un bel paio di buchi nel tetto. E se un Rpg o una mitragliatrice pesante sono a disposizione di tutti a Bengasi, il mortaio e il suo corretto utilizzo sono prerogativa di un gruppo paramilitare più o meno addestrato. Proprio come Ansar Al Sharia. Facciamo un passo indietro, torniamo a sabato sera. Mentre la notte di Bengasi iniziava ad avanzare dal mare e dal deserto, entriamo con una guida nel comando militare di Ansar al Sharia, l´ex caserma blindata di Gheddafi in cui il leader si era fatto costruire una finta tenda beduina in cemento armato. Lui il cemento se lo faceva mettere tutt´intorno, ma anche sulla testa. I giovani miliziani di guardia sono sconcertati: un occidentale e un libico - chiaramente laico - provano ad entrare nel loro comando. Ci fanno sedere per un´ora su due sedie di plastica nel cortile pieno come un uomo di "tecniche" attrezzate con kalashnikov e mitragliatrici pesanti. «C´è una troupe francese già dentro, vediamo se riusciamo a farvi parlare con i capi», dice un giovane barbuto che segue la serie A, tifa Inter e quasi compatisce un italiano che non sa nulla di calcio. Intanto iniziamo a parlare con loro: «Siamo libici, siamo tutti libici», dicono smentendo che ci siano Taliban stranieri, « i nostri capi ci hanno detto che con i giornalisti della carta stampata non dobbiamo parlare, perché voi poi potete scrivere quello che volete e cambiare le nostre parole, mentre la tv registra. Chi siamo? Siamo combattenti della rivoluzione che ha cacciato Gheddafi e adesso vogliamo costruire il nostro paese». Ma il popolo libico non vi segue, non vi ha creduto, il 7 luglio i partiti politici sostenuti da voi quasi non sono stati votati. «Noi stiamo in Libia e ci saremo, e tra l´altro noi crediamo che le leggi della politica, le leggi di questi parlamenti non servono: la legge c´è già e si chiama sharia, la legge islamica». Ecco la conferma di quello che Ansar al Sharia aveva già detto a giugno e luglio, «la democrazia non serve, la legge è quella della sharia». E questo è anche un primo elemento per capire come si è arrivati all´attacco al consolato: Ansar ha iniziato a presentarsi in forze a Bengasi all´inizio di giugno, quando con i loro pick-up armati hanno fatto caroselli proprio nel centro in piazza della Rivoluzione. Da allora hanno deciso di far chiudere i parrucchieri per signora e soprattutto hanno iniziato a impossessarsi poco alla volta di uno spicchio di città. Bengasi è come un grande ventaglio adagiato in riva al Mediterraneo: loro se ne sono presi una fetta centrale, in cui ci sono caserme, uffici politici e anche l´ospedale Al Jalaa, il più importante della città, presidiato dentro e fuori dai suoi miliziani. Poi sono iniziati gli attentati: devastati i santuari sufi, una setta musulmana considerata eretica. Bombe alla Croce rossa, al consolato Usa, contro l´ambasciatore inglese. Jalal el Ghallal, ex portavoce del Cnt, rimasto in politica ma ora fuori dal Cnt, spiega quello che tutti vedono: «In Libia ci sono ancora 300 milizie o brigate, più o meno grandi e potenti. Il governo è debole, ha appaltato la sicurezza del paese a brigate che dipendono dagli Interni o dalla Difesa. Molte sono state infiltrate dagli stessi salafiti, anche da gente vicina ad Al Qaeda, per cui il livello di insicurezza e di inaffidabilità è altissimo». Ma Jalal, uomo d´affari figlio di una ricca famiglia che in Libia fra l´altro importa Benetton, aggiunge un particolare di cui molti parlano: «E´ molto probabile che l´attacco al consolato sia stato organizzato da gente di Ansar al Sharia quando hanno visto che partiva il corteo. Ma io vedo un collegamento tra gli integralisti e i loro ex nemici gheddafiani, che dall´Egitto stanno arrivando con borse cariche di migliaia di dollari per provare a destabilizzare la Libia del dopo elezioni». Molti citano Ahmed Gaddafeddam, l´uomo che per conto del colonnello teneva i contatti col regime di Mubarak: è rifugiato al Cairo, ha conti milionari a disposizione, ha il know-how del perfetto trafficante e destabilizzatore gheddafiano. La manovra è chiara: il voto ha detto che non c´è spazio per gheddafiani e integralisti nella Libia che vuole essere democratica, e che al 90 per cento piange la morte del povero ambasciatore Stevens. E allora meglio far saltare tutto, con le bombe. Il gioco è ben chiaro al presidente del parlamento libico Mohammed al Megaryef, di fatto il capo dello stato: «L´attacco al consolato è un punto di svolta, oggi nel mirino ci sono gli americani, domani ci saranno i libici. Sembra esserci Ansar al-Shariah dietro l´attacco, ma ci sono anche elementi stranieri, abbiamo fatto 50 arresti e perseguiremo chi ha voluto quell´assalto». Megaryef aggiunge un elemento importante: «Per il momento è meglio che gli americani stiano fuori fino a che noi non abbiamo fatto quello che dobbiamo fare». Come dire "aspettate a bombardare", un attacco militare o una squadra dell´Fbi sul campo sarebbero una ulteriore delegittimazione del potere libico, che solo da una settimana ha un nuovo premier, Abu Shagur. I 50 arresti, l´inchiesta di una polizia debole e infiltrata dagli integralisti non hanno grande credibilità, ma Megaryef spera di evitare che gli americani, con uomini a terra o con un bombardamento dall´alto, rafforzino la campagna elettorale di Barack Obama ma affossino il governo di Tripoli. «Ma gli americani attaccheranno, faranno di duro presto, e magari aiuteranno proprio l´alleanza gheddafiani-integralisti», dice Jalal. Anche stamane e per tutta la notte i droni dell´Usaf hanno fotografato dall´alto Ansar Al Sharia, magari anche il cortile della caserma di Gheddafi che loro hanno conquistato.

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