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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Giornale Rassegna Stampa
14.09.2012 La minaccia del terrorismo islamico nel mondo e in Italia
analisi di Guido Olimpio, reportage di Gian Marco Chiocci, Simone Di Meo

Testata:Corriere della Sera - Il Giornale
Autore: Guido Olimpio - Gian Marco Chiocci - Simone Di Meo
Titolo: «Armi, soldi dal Golfo e 'consulenti' stranieri. I camaleonti della Jihad - La mappa dei predicatori d’odio che tornano a far paura all’Italia»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/09/2012, a pag. 3, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Armi, soldi dal Golfo e «consulenti» stranieri. I camaleonti della Jihad ". Dal GIORNALE, a pag. 14, il reportage di Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo dal titolo "  ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Armi, soldi dal Golfo e «consulenti» stranieri. I camaleonti della Jihad "

WASHINGTON — Si camuffano. Solo pochi ostentano l'appartenenza a correnti salafite. Non dichiarano di essere jihadisti, preferiscono invece il più generico «rivoluzionari». Formazioni come Ansar Al Sharia fanno da ombrello a nuclei più sfuggenti (le Brigate Abdul Rahman) con intrecci che possono portare lontano o vicino. Ci sono quelli che hanno contatti con la rete qaedista internazionale ed altri — come è avvenuto in Iraq dopo la sconfitta di Saddam — che sono dei lealisti pentiti. Tra questi ex membri dei Comitati rivoluzionari. È su questa nebulosa che si concentra l'attenzione delle forze di sicurezza come degli 007. Infatti, ieri notte a Bengasi, sono scoppiati scontri tra la Brigata Folgore (governativa) e i militanti di Ansar dopo che quest'ultimi si sono rifiutati di consegnare il loro arsenale, un'importante risorsa per fare cassa.
Gli estremisti possono contare su diverse fonti di finanziamento. La prima è il traffico di armi. Il capoluogo della Cirenaica ha un mercato (nero) fiorente di fucili, granate, lanciarazzi rubati negli arsenali di Gheddafi. La polizia non è mai riuscita a stroncarlo. Anzi c'è chi dice che il governo abbia lasciato fare nella speranza di esaurire le scorte. Resta il fatto che le armi libiche sono state trovate — solo per citare alcuni Paesi — in Nigeria, Siria, Tunisia, Mali e Sinai. Quelli che hanno attaccato il consolato Usa non hanno usato le doppiette bensì camioncini con mitragliere antiaeree. E ne hanno a volontà, da vendere a chi ha il contante pronto. Disponibilità che si porta dietro un'altra conseguenza: i baratti di materiale bellico facilitano la collaborazione tra estremisti che agiscono sull'intero quadrante regionale.
Il secondo canale sono le offerte di cittadini e la zakat, l'obolo versato da ogni buon musulmano. È il 2,5% del proprio guadagno annuale. Quando si fa la somma il denaro è molto. Anche perché — aggiungono fonti mediorientali — è integrata dall'aiuto proveniente dal Golfo Persico, con soldi inviati da istituzioni o di privati. Flussi non tracciabili e dunque è facile smentirli. Quindi ci sono gli stipendi. Molti salafiti hanno il doppio cappello. Di giorno sono miliziani «ufficiali», inquadrati in qualche unità. Di notte ridiventano estremisti. Quanto è avvenuto alla sede diplomatica americana di Bengasi ne è la prova. La difesa era affidata alla «Brigata 17 Febbraio» guidata da Ismail Sallabi, salafita e fratello di un imam importante vicino al Qatar. Ma la notte dell'attacco non ha fatto da scudo. Spiegazione: «Gli assalitori avevano una potenza di fuoco superiore alla nostra».
Grazie alla disponibilità di fondi e uomini, i salafiti hanno curato l'addestramento. Con alcune «basi» più strutturate e punti d'appoggio. Le prime, segnalano fonti locali, si troverebbero nella regione della Montagna Verde, vicino al confine egiziano (area di Tobruk), infine a Derna, da sempre cuore pulsante del jihadismo libico. Meno identificabili i «campi volanti». Li aprono dove capita solo per qualche ora. Una caserma dismessa, un parco pubblico possono trasformarsi rapidamente in un luogo dove allenarsi. E le milizie nate durante la lotta contro il dittatore diventano una perfetta copertura per chi vuole prepararsi senza essere disturbato. Questa comunità radicale rischia di diventare un terreno ideale per eventuali interferenze esterne. Facendo da schermo o interagendo con possibili elementi qaedisti. Sulla presenza dei «professionisti» sono girate molte informazioni. Lo stesso ambasciatore americano Chris Stevens le aveva raccolte. Riferivano di emissari arrivati dal Pakistan. Con l'apparizione di un misterioso islamista britannico identificato solo con delle sigle. Pellegrinaggi sulla via della Jihad seguito da altri due coordinatori. Quindi di collusione con «Al Qaeda nella terra del Maghreb islamico», la formazione nata in Algeria e poi estesasi nella regione sub-sahariana.
Tutti segnali accolti con prudenza e anche scetticismo. La Libia non è il Pakistan, ci si conosce, i clan fanno la conta. E la comparsa di stranieri non può restare inosservata per troppo tempo. Ma se dovesse instaurarsi un clima di violenza diffusa i qaedisti troverebbero sicuramente nuovi spazi. L'obiettivo è quello di creare un bacino dove si muovono salafiti, seguaci di Al Zawahiri, laici scontenti e re-islamizzati. Meccanismi non sempre studiati a tavolino. Le dinamiche mediorientali spesso si innescano con un gesto di violenza cieca, magari con obiettivi limitati. E solo in un secondo momento si tramutano in fratture dalle conseguenze incalcolabili.

Il GIORNALE - Gian Marco Chiocci, Simone Di Meo : " La mappa dei predicatori d’odio che tornano a far paura all’Italia "

Lo Stivale dei predicatori d’odio travestiti, di volta in volta, da imam, guide spirituali, shaid (i martiri), «re­sponsabili », tabligh itineranti, mujaheddin e «lone wolf» (i più pericolosi, i lupi solitari). Copre l’intera penisola la mappa aggior­nata dall’antiterrorismo (oltre 820 luoghi di culto, 184 moschee) sulle sponde «religiose», dirette o indirette, del terrore islamico in Italia dove risiederebbero alme­no tremila combattenti «in son­no » addestrati nei campi qaedisti in Afghanistan, Yemen e Paki­stan. Tre sono le città dove si è fat­ta più serrata la sorveglianza «di­screta » degli organismi investiga­tivi: Roma (con le moschee di via­le Marconi gestite da egiziani e al­tri centri di preghiera a sud della Capitale), Milano (quella nota di viale Jenner al centro di numero­se inchieste) e Napoli. A preoccu­pa­re sono in special modo le strut­ture di culto «clandestine», non uf­ficiali, o quelle spacciate per asso­ciazioni para- culturali meta di nu­merosi cittadini arrivati in Italia coi barconi attraverso i confini meridionali: secondo gli ultimi ri­levamenti le stazioni «ombra» per il proselitismo sarebbero al­l’incirca duecento, disseminate dalla Val d’Aosta alla Sicilia. E in particolare 12 sono «monitorate» nel capoluogo campano. La «ba­se strategica» dell’apprendimen­to della cultura dell’odioresta co­munque il Nord con oltre 45 sog­getti e «ritrovi» sotto stretto con­trollo. In Lombardia, dove gli inve­stigatori riscontrano l’«agile for­marsi di mini- cellule», non neces­sariamente collegate a un’unica rete, i «religiosi» attenzionati sul­le orme degli ex imam di Gallara­te, Bergamo e Varese sono una de­cina, in parte già collegati al più fa­moso capo spirituale di viale Jen­ner, Abu Imad, condannato a tre anni e otto mesi (progettava atten­tati in Italia e in Europa) e al triste­mente noto Abu Omar della mo­schea di via Quaranta. A Brescia, dov’è attiva la cellula Adl Walò I­h­sane continuano le indagini dopo il ritrovamento di bloc notes indi­cato come «il decalogo della non integrazione», che si apriva con l’appello a punire il Papa per aver «battezzato Magdi Allam», il gior­nalista egiziano (preziosa firma di questo Giornale) convertitosi al cristianesimo. Passati ai raggi x anche i documenti (tra cui il ma­nuale per la fabbricazione artigia­nale di una bomba e una mappa che sarebbe servita per un attenta­to alla Sinagoga di Milano) ritrova­ti in casa di un 20enne marocchi­no, esperto di informatica, finito in manette. Anche l’ex imam di Cremona, Mourad Trabelsi, è sta­to condannato con sentenza defi­nitiva. In Veneto, dove i predicato­ri sotto sorveglianza sono più di quindici, la tensione è salita nel giugno scorso con la chiusura del­la moschea di via Anelli, a Pado­va, dove lo scontro tra fedeli ma­rocchini ha portato alla destitu­zione dell’ex imam Abderrahim Malek. A Vicenza la Digos ha mo­nitorato ingenti somme di dena­ro inviate all’estero (l’ex imam di San Donà di Piave, Ahamad Chad­dad, è stato arrestato dalla Digos di Venezia nell’ambito di un’in­chiesta in cui compare anche l’ex imam di Como, allontanato dal­l’Italia con l’accusa di fiancheg­giamento terroristico) che potreb­bero essere state utilizzate per fi­nanziare campagne terroristiche in Medioriente. E, sempre nella stessa città, è stato indagato un predicatore perché collegato a un imam casertano risultato in con­tatto con soggetti vicini al terrori­smo della moschea veneziana di via dei Mille; e un altro è stato inda­gato perché aveva picchiato la mo­glie che voleva vestirsi all’occi­dentale. L’antiterrorismo ha sot­toposto a una attenta sorveglian­za il centro culturale islamico di Treviso. Particolarmente incan­descente, stando ai carabinieri, il Piemonte (23 centri monitorati) dove sono stati espulsi già tre imam;qui il pericolo viene dai pre­dicatori d’odio «itineranti». Aller­ta in Emilia (18 centri), specie a Bologna, l’ex direttore della mo­schea Ann-nur ha elogiato i kamikaze palestinesi e invita­to a colpire Israele. Tra Toscana (19), Campania (26) e La­zio ( 33) si concentra, invece, la più alta concentrazione di sospetti tunisini, al­gerini e egiziani. A Napoli si è arrivati a indagare sui contatti tra casalesi e pakista­ni trafficanti di dro­ga sospettati di conti­guità con formazio­ni salafite del norda­frica. In Umbria (7 centri attenzionati) si temono emulazio­ni rispetto alla scuo­la di terrorismo della moschea perugina guidata dall’ex imam marocchino Mostapha El Korchi (condannato a sei anni in Cassa­zione ed espulso dall’Italia con due connazionali). In Calabria (21 centri)l’ex imam Mhamed Ga­rouan che predicava tra Catanza­ro e Crotone arrestato col figlio con l’accusa di aver propaganda­to via internet la Jihad «virtuale», è libero in quanto i pm hanno chie­sto l’archiviazione. A Cagliari, la situazione, è invece diversa: sono stati sì scoperti due manuali «esplosivi» ma nelle mani della Digos ci sono anche i documenti di soggetti vicini ad Al Qaeda e al­cune notizie riservate relative ai gestori di un portale d’ispirazio­ne jihadista. Soggetti e obiettivi sensibili anche in Sicilia (oltre 20 siti controllati), nella Marche (13), in Toscana (a Firenze è stato indagato per evasione fiscale da 2 milioni un ex imam di Castelfio­rentino). La Puglia, dopo la cac­cia ai segreti custoditi in sei pen drive sequestrate a un ex imam si­riano e a un informatico francese condannati a otto anni, preoccu­pa non poco gli addetti ai lavori. Perchè? La risposta è top secret, al momento.

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