Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/09/2012, a pag. 3, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Armi, soldi dal Golfo e «consulenti» stranieri. I camaleonti della Jihad ". Dal GIORNALE, a pag. 14, il reportage di Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo dal titolo " ".
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Armi, soldi dal Golfo e «consulenti» stranieri. I camaleonti della Jihad "

WASHINGTON — Si camuffano. Solo pochi ostentano l'appartenenza a correnti salafite. Non dichiarano di essere jihadisti, preferiscono invece il più generico «rivoluzionari». Formazioni come Ansar Al Sharia fanno da ombrello a nuclei più sfuggenti (le Brigate Abdul Rahman) con intrecci che possono portare lontano o vicino. Ci sono quelli che hanno contatti con la rete qaedista internazionale ed altri — come è avvenuto in Iraq dopo la sconfitta di Saddam — che sono dei lealisti pentiti. Tra questi ex membri dei Comitati rivoluzionari. È su questa nebulosa che si concentra l'attenzione delle forze di sicurezza come degli 007. Infatti, ieri notte a Bengasi, sono scoppiati scontri tra la Brigata Folgore (governativa) e i militanti di Ansar dopo che quest'ultimi si sono rifiutati di consegnare il loro arsenale, un'importante risorsa per fare cassa.
Gli estremisti possono contare su diverse fonti di finanziamento. La prima è il traffico di armi. Il capoluogo della Cirenaica ha un mercato (nero) fiorente di fucili, granate, lanciarazzi rubati negli arsenali di Gheddafi. La polizia non è mai riuscita a stroncarlo. Anzi c'è chi dice che il governo abbia lasciato fare nella speranza di esaurire le scorte. Resta il fatto che le armi libiche sono state trovate — solo per citare alcuni Paesi — in Nigeria, Siria, Tunisia, Mali e Sinai. Quelli che hanno attaccato il consolato Usa non hanno usato le doppiette bensì camioncini con mitragliere antiaeree. E ne hanno a volontà, da vendere a chi ha il contante pronto. Disponibilità che si porta dietro un'altra conseguenza: i baratti di materiale bellico facilitano la collaborazione tra estremisti che agiscono sull'intero quadrante regionale.
Il secondo canale sono le offerte di cittadini e la zakat, l'obolo versato da ogni buon musulmano. È il 2,5% del proprio guadagno annuale. Quando si fa la somma il denaro è molto. Anche perché — aggiungono fonti mediorientali — è integrata dall'aiuto proveniente dal Golfo Persico, con soldi inviati da istituzioni o di privati. Flussi non tracciabili e dunque è facile smentirli. Quindi ci sono gli stipendi. Molti salafiti hanno il doppio cappello. Di giorno sono miliziani «ufficiali», inquadrati in qualche unità. Di notte ridiventano estremisti. Quanto è avvenuto alla sede diplomatica americana di Bengasi ne è la prova. La difesa era affidata alla «Brigata 17 Febbraio» guidata da Ismail Sallabi, salafita e fratello di un imam importante vicino al Qatar. Ma la notte dell'attacco non ha fatto da scudo. Spiegazione: «Gli assalitori avevano una potenza di fuoco superiore alla nostra».
Grazie alla disponibilità di fondi e uomini, i salafiti hanno curato l'addestramento. Con alcune «basi» più strutturate e punti d'appoggio. Le prime, segnalano fonti locali, si troverebbero nella regione della Montagna Verde, vicino al confine egiziano (area di Tobruk), infine a Derna, da sempre cuore pulsante del jihadismo libico. Meno identificabili i «campi volanti». Li aprono dove capita solo per qualche ora. Una caserma dismessa, un parco pubblico possono trasformarsi rapidamente in un luogo dove allenarsi. E le milizie nate durante la lotta contro il dittatore diventano una perfetta copertura per chi vuole prepararsi senza essere disturbato. Questa comunità radicale rischia di diventare un terreno ideale per eventuali interferenze esterne. Facendo da schermo o interagendo con possibili elementi qaedisti. Sulla presenza dei «professionisti» sono girate molte informazioni. Lo stesso ambasciatore americano Chris Stevens le aveva raccolte. Riferivano di emissari arrivati dal Pakistan. Con l'apparizione di un misterioso islamista britannico identificato solo con delle sigle. Pellegrinaggi sulla via della Jihad seguito da altri due coordinatori. Quindi di collusione con «Al Qaeda nella terra del Maghreb islamico», la formazione nata in Algeria e poi estesasi nella regione sub-sahariana.
Tutti segnali accolti con prudenza e anche scetticismo. La Libia non è il Pakistan, ci si conosce, i clan fanno la conta. E la comparsa di stranieri non può restare inosservata per troppo tempo. Ma se dovesse instaurarsi un clima di violenza diffusa i qaedisti troverebbero sicuramente nuovi spazi. L'obiettivo è quello di creare un bacino dove si muovono salafiti, seguaci di Al Zawahiri, laici scontenti e re-islamizzati. Meccanismi non sempre studiati a tavolino. Le dinamiche mediorientali spesso si innescano con un gesto di violenza cieca, magari con obiettivi limitati. E solo in un secondo momento si tramutano in fratture dalle conseguenze incalcolabili.
Il GIORNALE - Gian Marco Chiocci, Simone Di Meo : " La mappa dei predicatori d’odio che tornano a far paura all’Italia "

Lo Stivale dei predicatori d’odio travestiti, di volta in volta, da imam, guide spirituali, shaid (i martiri), «responsabili », tabligh itineranti, mujaheddin e «lone wolf» (i più pericolosi, i lupi solitari). Copre l’intera penisola la mappa aggiornata dall’antiterrorismo (oltre 820 luoghi di culto, 184 moschee) sulle sponde «religiose», dirette o indirette, del terrore islamico in Italia dove risiederebbero almeno tremila combattenti «in sonno » addestrati nei campi qaedisti in Afghanistan, Yemen e Pakistan. Tre sono le città dove si è fatta più serrata la sorveglianza «discreta » degli organismi investigativi: Roma (con le moschee di viale Marconi gestite da egiziani e altri centri di preghiera a sud della Capitale), Milano (quella nota di viale Jenner al centro di numerose inchieste) e Napoli. A preoccupare sono in special modo le strutture di culto «clandestine», non ufficiali, o quelle spacciate per associazioni para- culturali meta di numerosi cittadini arrivati in Italia coi barconi attraverso i confini meridionali: secondo gli ultimi rilevamenti le stazioni «ombra» per il proselitismo sarebbero all’incirca duecento, disseminate dalla Val d’Aosta alla Sicilia. E in particolare 12 sono «monitorate» nel capoluogo campano. La «base strategica» dell’apprendimento della cultura dell’odioresta comunque il Nord con oltre 45 soggetti e «ritrovi» sotto stretto controllo. In Lombardia, dove gli investigatori riscontrano l’«agile formarsi di mini- cellule», non necessariamente collegate a un’unica rete, i «religiosi» attenzionati sulle orme degli ex imam di Gallarate, Bergamo e Varese sono una decina, in parte già collegati al più famoso capo spirituale di viale Jenner, Abu Imad, condannato a tre anni e otto mesi (progettava attentati in Italia e in Europa) e al tristemente noto Abu Omar della moschea di via Quaranta. A Brescia, dov’è attiva la cellula Adl Walò Ihsane continuano le indagini dopo il ritrovamento di bloc notes indicato come «il decalogo della non integrazione», che si apriva con l’appello a punire il Papa per aver «battezzato Magdi Allam», il giornalista egiziano (preziosa firma di questo Giornale) convertitosi al cristianesimo. Passati ai raggi x anche i documenti (tra cui il manuale per la fabbricazione artigianale di una bomba e una mappa che sarebbe servita per un attentato alla Sinagoga di Milano) ritrovati in casa di un 20enne marocchino, esperto di informatica, finito in manette. Anche l’ex imam di Cremona, Mourad Trabelsi, è stato condannato con sentenza definitiva. In Veneto, dove i predicatori sotto sorveglianza sono più di quindici, la tensione è salita nel giugno scorso con la chiusura della moschea di via Anelli, a Padova, dove lo scontro tra fedeli marocchini ha portato alla destituzione dell’ex imam Abderrahim Malek. A Vicenza la Digos ha monitorato ingenti somme di denaro inviate all’estero (l’ex imam di San Donà di Piave, Ahamad Chaddad, è stato arrestato dalla Digos di Venezia nell’ambito di un’inchiesta in cui compare anche l’ex imam di Como, allontanato dall’Italia con l’accusa di fiancheggiamento terroristico) che potrebbero essere state utilizzate per finanziare campagne terroristiche in Medioriente. E, sempre nella stessa città, è stato indagato un predicatore perché collegato a un imam casertano risultato in contatto con soggetti vicini al terrorismo della moschea veneziana di via dei Mille; e un altro è stato indagato perché aveva picchiato la moglie che voleva vestirsi all’occidentale. L’antiterrorismo ha sottoposto a una attenta sorveglianza il centro culturale islamico di Treviso. Particolarmente incandescente, stando ai carabinieri, il Piemonte (23 centri monitorati) dove sono stati espulsi già tre imam;qui il pericolo viene dai predicatori d’odio «itineranti». Allerta in Emilia (18 centri), specie a Bologna, l’ex direttore della moschea Ann-nur ha elogiato i kamikaze palestinesi e invitato a colpire Israele. Tra Toscana (19), Campania (26) e Lazio ( 33) si concentra, invece, la più alta concentrazione di sospetti tunisini, algerini e egiziani. A Napoli si è arrivati a indagare sui contatti tra casalesi e pakistani trafficanti di droga sospettati di contiguità con formazioni salafite del nordafrica. In Umbria (7 centri attenzionati) si temono emulazioni rispetto alla scuola di terrorismo della moschea perugina guidata dall’ex imam marocchino Mostapha El Korchi (condannato a sei anni in Cassazione ed espulso dall’Italia con due connazionali). In Calabria (21 centri)l’ex imam Mhamed Garouan che predicava tra Catanzaro e Crotone arrestato col figlio con l’accusa di aver propagandato via internet la Jihad «virtuale», è libero in quanto i pm hanno chiesto l’archiviazione. A Cagliari, la situazione, è invece diversa: sono stati sì scoperti due manuali «esplosivi» ma nelle mani della Digos ci sono anche i documenti di soggetti vicini ad Al Qaeda e alcune notizie riservate relative ai gestori di un portale d’ispirazione jihadista. Soggetti e obiettivi sensibili anche in Sicilia (oltre 20 siti controllati), nella Marche (13), in Toscana (a Firenze è stato indagato per evasione fiscale da 2 milioni un ex imam di Castelfiorentino). La Puglia, dopo la caccia ai segreti custoditi in sei pen drive sequestrate a un ex imam siriano e a un informatico francese condannati a otto anni, preoccupa non poco gli addetti ai lavori. Perchè? La risposta è top secret, al momento.
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