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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
14.09.2012 Usa: Hillary Clinton prende le distanze dalla pellicola 'disgustosa'
nessuna condanna all'islamismo? Commento di Daniele Raineri, intervista a Barack Obama di Josè Diaz-Balart, intervista a Robert Kaplan di Maurizio Molinari

Testata:Il Foglio - La Stampa - La Repubblica
Autore: Josè Diaz-Balart - Maurizio Molinari - Daniele Raineri
Titolo: «La kill list di Obama in Libia - Obama ha sbagliato, Tripoli non può imporre l’ordine a Bengasi - Obama ambiguo, Romney isolato»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 14/09/2012, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " La kill list di Obama in Libia  ". Da REPUBBLICA, a pag. 4, l'intervista di Josè Diaz-Balart a Barack Obama dal titolo " E' un attacco contro l'America perché siamo la guida del mondo ". Dalla STAMPA, a pag. 4, l'intervista di Maurizio Molinari a Robert Kaplan dal titolo " Obama ha sbagliato, Tripoli non può imporre l’ordine a Bengasi ".


Per quanto riguarda le reazioni americane all'attacco all'ambasciata Usa in Libia, segnaliamo come peggiore quella di Hillary Clinton, la quale è riuscita solo ad esprimere disgusto per la pellicola. Un po' poco da un segretario di Stato. Nessuna condanna per gli islamisti ? E la libertà d'espressione non conta nulla ? Almeno Obama, nell'intervista che riportiamo in questa pagina, ha specificato che, anche se avesse potuto farlo, non avrebbe mai bloccato la diffusione del film, proprio in nome della libertà d'opinione ed espressione che va garantita nelle democrazie. Non interessa a nessuno un giudizio estetico sul film da parte di Clinton. Una presa di posizione contro gli islamisti e le loro violenze, invece, sarebbe stata gradita.
Ecco i pezzi:

 Il FOGLIO - Daniele Raineri : "La kill list di Obama in Libia "


Navi Usa

Make no mistake, justice will be done” dice il presidente americano Obama dopo l’uccisione in Libia dell’ambasciatore Cristopher Stevens. Che forma prenderà la reazione della Casa Bianca questa volta? Nel 1986 Ronald Reagan ordinò il bombardamento della Libia dopo l’attentato ordinato dal regime di Gheddafi a una discoteca tedesca frequentata da soldati americani. Nel 1998 Bill Clinton ordinò il bombardamento di sei campi di al Qaida in Afghanistan e di un sito in Sudan dopo gli attentati a due ambasciate in Africa. E’ certo che oggi non sarà così rapida. La risposta di Obama avrà una parte visibile, di deterrenza e minaccia, e una parte clandestina. Due incrociatori sono stati spostati poco al largo delle coste africane e una forza di reazione rapida di duecento marine si sta occupando del rafforzamento della sicurezza attorno ai diplomatici americani. Le due navi da guerra, la Uss Laboon e la Uss McFaul, hanno missili Tomahawk che possono colpire con precisione bersagli sulla terraferma e offrono al Pentagono un’opzione in più. E’ la stessa arma scelta da Clinton nel 1998. La parte clandestina è affidata al mezzo preferito dall’Amministrazione Obama, i droni. Il Pentagono ammette che le Cap, le perlustrazioni effettuate con gli aerei senza pilota, non sono mai cessate sulla Libia. Erano andate avanti con discrezione anche dopo la fine della guerra, di cui erano stati protagonisti parecchio rumorosi: 145 missioni di bombardamento, molto più che sulle aree tribali del Pakistan. Lo stesso Gheddafi è morto il 20 ottobre 2011 perché il suo convoglio in fuga da Sirte è stato bloccato da un drone: poi i ribelli lo raggiunsero e fecero il resto. Grazie a un accordo riservato con il governo di Tripoli, non hanno mai lasciato il paese. Ci sono informazioni – che per il momento non è possibile confermare – su operazioni di droni armati con missili già avvenute nell’est della Libia, dove la densità di gruppi estremisti è più alta. A maggio ci sono state misteriose esplosioni in alcuni campi nella zona di Darna, secondo una fonte della Cnn. E’ la città considerata più pericolosa: da lì è partita la maggioranza dei volontari libici che sono andati a combattere in Iraq contro gli americani. Secondo un’altra fonte, un funzionario libico del governo, un comandante islamista sostiene che nello stesso periodo il suo campo è stato bombardato. Se è già successo, potrebbe succedere ancora, a maggior ragione adesso che i libici hanno dimostrato di non essere in grado di proteggere gli americani nel paese – martedì notte il comandante delle guardie libiche del Consolato ha indicato agli assalitori dove si erano nascosti gli americani sopravvissuti alla prima ondata di attacco. Fonti americane dicono alla Cnn che i droni stanno sorvolando l’area attorno a Bengasi in cerca di bersagli. Sulla lista dei sospetti ci sono le brigate Omar Abdul Rahman, che a giugno hanno attaccato anche l’ambasciatore inglese e gli uffici della Croce Rossa a Misurata. Noman Benotman, analista della Quilliam Foundation londinese e ex capo di al Qaida in Libia, è convinto che quanto è successo al Consolato sia collegato direttamente a un video diffuso tre giorni fa su Internet da Ayman al Zawahiri per l’undicesimo anniversario dell’11 settembre in cui il capo di al Qaida conferma la morte di Abu Yahia al Libi. “Il suo sangue vi chiama, e vi spinge e vi incita a combattere e a uccidere”. E’ considerato un “via libera” all’esecuzione dell’attacco contro gli americani. All’inizio dell’estate le brigate hanno messo su Internet il video del primo attacco al Consolato di Bengasi, datato 5 giugno, una serie di esplosioni notturne inframezzate da spezzoni di Osama bin Laden e Zawahiri, tanto per chiarire la linea ideologica senza possibilità di equivoci. Nel video il gruppo afferma di avere lanciato l’attacco in risposta alla notizia della morte di al Libi, colpito da un drone in un’area tribale del Pakistan. Per questo motivo martedì le parole di Zawahiri sono suonate sospette, a tre mesi di distanza. Nel video si dice che l’attacco è stato lanciato in corrispondenza con i preparativi per l’arrivo di un funzionario di alto livello del dipartimento di stato. “La scelta di tempo – scrisse Benotman in un report a giugno – indica che il gruppo segue e raccoglie attivamente informazioni sulle attività diplomatiche nel paese”. Chi finisce quindi nel mirino dei droni? Secondo i servizi di sicurezza libici tra Bengasi e Darna ci sono circa 20-30 jihadisti “hardcore” che potrebbero finire nella kill list della Casa Bianca. Due nomi. Uno è Abdulbasit Azuz, che è in collegamento diretto con Zawahiri ed è stato mandato da lui nel paese africano l’anno scorso, quando è scoppiata la rivolta contro il regime. Azuz è un veterano dei tempi dell’Afghanistan ed è stato anche a Belmarsh, la prigione di massima sicurezza britannica, dopo gli attentati del luglio 2005, perché l’intelligence lo teneva d’occhio per la sua campagna di reclutamento di estremisti a Manchester. Il secondo nome è Sufian bin Qamu, conosciuto anche come Abu Faris al Libi, un ex detenuto di Guantanamo che ha un campo nascosto nella zona boscosa di darna, vicino alla costa del Mediterraneo. Quando il governo ha mandato nell’est del paese il gran muftì Sadiq al Gharayli per stringere un patto di non belligeranza fra Tripoli e i cinque comandanti delle brigate estremiste, Qamu è stato l’unico a rifutarsi di firmare, perché vuole avere la libertà – anche formale – di compiere attacchi. Anche Qamu, 53 anni, è stato in Afghanistan e Pakistan. In Libia il patto politico militare con l’America è stato tradito in modo disastroso e spettacolare. L’ambasciatore Christopher Stevens era il simbolo di quel patto, quasi un eroe nazionale libico: durante la guerra il regime di Gheddafi trasmetteva le sue telefonate con il Consiglio dei ribelli come prova delle interferenze straniere. L’America contava sul governo di Tripoli per la sicurezza in Libia – ora potrebbe prendere iniziative unilaterali. Non è il solo accordo che sta cedendo, alla prova delle proteste violente contro il film su Maometto C’è il patto politico militare ignorato dallo Yemen. Là le forze di sicurezza locali non hanno sbarrato la strada a cinquecento manifestanti che sono entrati con la violenza nell’Ambasciata nella capitale Sana’a – fortunatamente l’edificio è una fortezza costruita a settori concentrici e quelli hanno espugnato solo il primo, il più esterno, e non gli altri dove erano chiusi, pregando per il meglio, gli americani. Però a Washington si chiedono: è possibile che le stesse forze di sicurezza yementie che riescono a tenere lontane cinquemila manifestanti furiosi dalla casa dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh non riescono a fermarli quando sono dieci volte meno (forse perché sono ancora agli ordini di Yahya Saleh, nipote dell’ex autocrate)? Con tutti i milioni di dollari che gli diamo ogni anno? E c’è – più importante di tutti – il patto militare politico con l’America ignorato dall’Egitto. Al Cairo le forze di sicurezza locali non sono riuscite a fermare le proteste davanti all’Ambasciata americana anche se quasi ogni giorno disperdono con le brutte maniere quelle davanti all’ambasciata siriana, due isolati più in là. Di nuovo: con tuti i milioni di dollari che Washington dà ai generali ogni anno (1,3 miliardi, per la precisione), davvero finisce con la bandiera nera dei salafiti che sventola sul muro esterno? Ieri il governo del Cairo ha respinto la richiesta americana di mandare più marine a proteggere l’Ambasciata. “La protezione la garantiamo noi”.

La REPUBBLICA - Josè Diaz-Balart : " E un attacco contro l'America perché siamo la guida del mondo "


Barack Obama

WASHINGTON — Signor presidente, per la prima volta dal 1979 un ambasciatore in carica, Christopher Stevens, più altri tre cittadini americani, sono stati uccisi nell'adempimento del loro dovere. Abbiamo inviato più di un miliardo di dollari all'anno all'Egitto, decine di milioni di dollari alla Libia dopo la sua liberazione: è arrivato il momento di riconsideraregli aiuti a Paesi dove molti degli abitanti non ci vogliono? «Gli Stati Uniti non possono scegliere di ritirarsi dal mondo, noi siamo l'unica nazione indispensabile: Paesi di ogni parte del mondo ci riconoscono un molo guida, anche dove a volte bisogna confrontarsi con proteste; è importante per noi mantenere aperto il dialogo. Ma è evi-denteche qu el lo che è successo la notte scorsa è stato straziante, e la Libia in particolare è un governo molto vicino a noi. La stragrande maggioranza dei libici ha accolto con favore il coinvolgimento degli Stati Uniti: sono consapevoli che è grazie a noi se sono riusciti a sbarazzarsi di un dittatore che aveva annichilito il loro spirito per quarant'anni. Molti libici sono accorsi in difesa della nostra squadra a Bengasi, quando siamo stati attaccati, ma ora quello che bisogna fare è condurre un'indagine approfondita, trovare le persone che hanno commesso queste azioni terribili e portarle di fronte alla giustizia». Che cosa intende con portarle di fronte alla giustizia? Quali sono le opzioni a disposizione? «La nostra speranza è di riuscire a catturarli, ma ovviamente Vogliamo giustizia Chiediamo aTripoli di trovare le persone che hanno commesso queste azioni e di portarle di fronte alla giustizia dovremo collaborare con il governo libico, e io ho fiducia che gli sforzi saranno incessanti, perché Chris Stevens era una persona che ha consigliato direttamente me e il segretario di Stato Hillary Clinton fin dall'inizio della rivolta libica.I libici sapevano che Stevens era dalla parte della gente e troveremo aiuto, troveremo collaborazione da parte della popolazione. Il discorso più generale su quello che è successo in Medio Oriente e in Africa del Nord è che siamo di fronte a democrazie nuove. In Egitto questa è forse la prima democrazia da 7.000 anni, un'autentica democrazia, dove il popolo ha potuto dire la sua; non hanno tradizioni di società civile, non hanno alcuni degli aspetti importantissimi della nostra democrazia, e li svilupperanno pian piano: lungo questo percorso ci saranno momenti travagliati, è una cosa che bisogna capire. Ma il messaggio che abbiamo trasmesso agli egiziani, ai libici e a tutti gli altri è che ci sono certi valori su cui insistiamo, in cui crediamo, e sicuramente ci aspettiamo che la sicurezza dei nostricittadinielaprotezionedei diplomatici in questi Paesi sia garantita: perciò analizzeremo tutti gli aspetti del modo di operare delle nostre ambasciate in quelle aree». Leiconsidera l'attuale regime egiziano un alleato degli Stati Uniti? «Non li consideriamo alleati, ma non li consideriamo nemici. In Egitto c'è un nuovo governo che sta cercando di trovare la sua strada, che è stato eletto democraticamente. Sono del parere che dobbiamo stare a vedere quale risposta daranno a questo incidente, che atteggiamento assumeranno, ad esempio, rispetto al mantenimento del trattato di pace con Israele. Finora quello che abbiamo visto è che in alcuni casi hanno detto e fatto le cose giuste, in altri casi hanno reagito a diversi eventi in un modo che forse non collima con i nostri interessi: penso quindi che l a situazione sia ancora in evoluzione, ma sicuramente in questo caso ci aspettiamo che diano risposte al -le nostre insistenze sulla necessità di proteggere l'ambasciata e il personale diplomatico degli Stati Uniti, e se faranno delle cose che indicano che non si stanno facendo carico di queste responsabilità, come fanno tutti i Paesi dove abbiamo una rappresentanza diplomatica, penso che sarà un grosso problema». Oggi il governatore Romney ha detto che la sua politica estera manca di chiarezza; l'onorevole Ryan ha detto implicitamente che lei non parla al mondo con forza. Lei ha detto che questa questione non dev'essere politicizzata, ma poi ha reagito alledichiarazioni di Romneye qualcuno ha detto che anche lei adesso sta politicizzando laquestione. «Non condivido questa lettura. Le mie dichiarazioni sono state molto chiare. Ho detto che non era il momento di fare politica. Ho osservato che c'è una tendenza a sparare alla cieca, e come presidente il mio dovere è concentrarmi sulla sicurezza dei nostri cittadini, assicurarmi che siano accertati tutti i fatti, assicurarmi di fare gli interessi dell'America e non diatribe ideologiche in un giorno in cui piangiamo la perdita di persone eccezionali, che hanno servito ottimam ente il nostro Paese. Penso che a questo punto la cosa migliore da fare sia rivolgere le domande sui commenti di Romneyallo staffelettorale di Romney».

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama ha sbagliato, Tripoli non può imporre l’ordine a Bengasi"


Robert Kaplan, Maurizio Molinari

Le maggiori minacce arrivano da Libia e Algeria perché sono delle non-nazioni mentre a mettere in pericolo l’Egitto è la sfida islamica a un governo islamico»: lo stratega Robert Kaplan legge la pericolosa trasformazione delle Primavere arabe sulla base della tesi esposta nel suo libro «The Revenge of Geography» (La vendetta della geografia) appena uscito per Random House.

Quale interpretazione dà dell’attacco a Bengasi?

«L’errore di Obama è stato immaginare che Tripoli potesse imporre l’ordine in Cirenaica. Neanche Gheddafi ci riuscì mai del tutto. La Libia come nazione non è mai esistita. Bengasi e la Cirenaica sono più legate all’Egitto che a Tripoli. Le rivolte anti-dittatori che scongelano il mondo arabo fanno tornare alla ribalta l’importanza strategica della geografia. Per stabilizzare Bengasi, Il Cairo conta più di Tripoli».

Quali sono le nazioni del Maghreb che rischiano di più a causa degli attacchi salafiti?

«Quelle che sono una finzione geopolitica ovvero Libia e Algeria. Tunisia, Marocco ed Egitto invece hanno un’identità che viene dalla Storia, hanno maggiore capacità di essere stabili».

Eppure l’Egitto preoccupa Obama ancor più della Libia...

«Il motivo è che in Egitto sta avvenendo una sfida senza precedenti. Abbiamo un governo islamico, guidato da un leader espressione dei Fratelli Musulmani, sfidato da fazioni islamiche, come i salafiti. Lo scontro è per il controllo della Valle del Nilo, da cui dipende l’Egitto. É una crisi inter-islamica sull’identità nazionale, non un problema di rivolte endemiche come in Libia, che potrebbe ripetersi in Algeria».

Quali opzioni ha l’amministrazione Obama per evitare che la Primavera araba finisca in mano ai gruppi jihadisti?

«Deve affrontare le singole rivolte non come un unico fenomeno ma trattandole da singoli eventi nazionali. Ognuno dei quali ha caratteristiche proprie. Prendiamo ad esempio lo Yemen, dove i jihadisti hanno assaltato l’ambasciata americana. A sostenerli ci sono leader di tribù che si oppongono all’attuale presidente, essendo rimasti fedeli al predecessore. I gruppi jihadisti si giovano delle realtà geopolitiche locali meglio della Casa Bianca che continua a immaginare le rivolte come se fossero un monolite, sul modello di quelle avvenute in Europa dell’Est dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989».

Che opinione si è fatto delle rivolte di piazza innescate da film o pubblicazioni considerati offensivi di Maometto?

«L’entità delle proteste nasce dalla combinazione fra mezzi di comunicazione e tipologia delle metropoli. Gli stessi nuovi media che contribuiscono a sostenere le rivolte contro i dittatori possono funzionare da vettore per promuovere la Jihad. Ma l’impatto è sempre diverso: in una grande metropoli come il Cairo si muove una folla di giovani, disoccupati, gente comune, mentre in una città di milizie come Bengasi le proteste vengono guidate da gruppi combattenti, assai bene armati, come quelli che hanno ucciso l’ambasciatore Chris Stevens».

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