lunedi` 12 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
14.09.2012 Attacco all'ambasciata Usa in Libia: Olivier Roy crede ancora alla favola della 'primavera'
Barbara Spinelli, invece, preferisce usare termini a sproposito

Testata:Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Olivier Roy - Barbara Spinelli
Titolo: «Tra libertà e responsabilità»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 14/09/2012, a pag. 8, l'articolo di Olivier Roy dal titolo " Le primavere non sono al capolinea ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-34, l'articolo di Barbara Spinelli dal titolo " Tra libertà e responsabilità  ".

Olivier Roy, mentre tutti, ormai, hanno compreso la verità sulla favola delle 'primavere arabe', resta legato alla vecchia idea.
Gli islamisti si sono ben infiltrati. Dopo le rivolte sono saliti al potere, travestiti da 'moderati' ad uso e consumo dell'Occidente, che ci è cascato.
Basta vedere la situazione in Tunisia, in Egitto e ora anche in Libia per rendersi conto che dalle rivolte erroneamente denominate 'primavere' sono nati regimi islamici.
Barbara Spinelli, invece, si concentra sul significato della morte dell'ambasciatore Chris Stevens arrivando a scrivere : "
non stupisce che abbia colpito un giusto, un ambasciatore che il Corano lo conosceva e lo rispettava. Anche i morti nel crollo delle Torri, nel 2001, erano innocenti — a loro modo giusti — delle malvagie politiche attribuite ai governi americani. ".
Ora, che Chris Stevens fosse un fautore del dialogo, una colomba, siamo d'accordo. Ma definirlo 'giusto' è assurdo. 'Giusti' sono quelle persone coraggiose che, durante la Shoah, hanno messo a rischio la propria vita e quella dei propri famigliari per aiutare ebrei a sfuggire ai rastrellamenti e allo sterminio dei nazisti. Non ci sembra che in Libia sia in atto un genocidio contro gli islamici per mano americana, nè che Chris Stevens stesse aiutando qualcuno a nascondersi e a mettersi in salvo.
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Olivier Roy : " Le primavere non sono al capolinea"


Olivier Roy

Non credo che ci sia una relazione diretta tra quel che succede alle ambasciate americane e il futuro delle primavere arabe, in particolare in Siria. A mio parere la conseguenza più significativa dei morti dell'11 settembre 2012 si vedrà sull'opinione pubblica americana, più che sulla politica di Washington. Anche se a Bengasi si è trattato di un'azione programmata in anticipo da gruppi vicini a Al Qaeda, entra in gioco comunque il film realizzato da estremisti anti-islamici negli Stati Uniti. Probabilmente l'America sarà costretta a interrogarsi su come comportarsi con i pochi fanatici che realizzano provocazioni a tavolino contro l'Islam. Dal pastore Terry Jones che organizza falò pubblici del Corano ai produttori di questo film su Maometto, siamo di fronte non al gesto isolato di un artista o di un giornale, come può essere capitato in passato in Europa con le vignette su Maometto, ma a un movimento, per quanto di piccole dimensioni; il clima anti-islamico negli Stati Uniti è già presente e potrebbe aumentare. Il commento a caldo del rivale del presidente, Mitt Romney, che ha subito accusato Obama di eccessiva comprensione per la rabbia degli autori delle violenze, mostra che si tocca un tema sensibile, e che la situazione in Medio Oriente ha un impatto sulla campagna elettorale.
Quanto alla politica dell'amministrazione di Washington nelle primavere arabe e nello scenario siriano, non credo invece che ci saranno grossi cambiamenti, soprattutto perché per adesso gli Stati Uniti non stanno facendo granché di concreto in Siria. Forniscono un supporto teorico, un sostegno morale, ma che le primavere arabe, e adesso la rivoluzione siriana, siano soprattutto opera delle grandi potenze occidentali, è un'idea che circola negli ambienti dell'estrema sinistra europea che si dice «anti-imperialista». Un'idea sbagliata.
In Egitto gli americani, più che finanziare i movimenti della primavera araba, finanziano l'esercito. E in Libia abbandonare il governo adesso sarebbe assurdo, perché le nuove autorità post-Gheddafi sono l'unico strumento per opporsi ai gruppi radicali che hanno scatenato le violenze di Bengasi.
L'aspetto importante che credo vada sottolineato è che gli assalti alle ambasciate americane, per quanto impressionanti, non segnano un cambiamento di fondo, un ritorno indietro della «piazza araba». A Bengasi, ad attaccare il consolato americano, non c'erano certo migliaia di persone, ma una squadra bene attrezzata di terroristi muniti di lanciarazzi. Anzi, molti cittadini libici hanno rischiato la vita — e alcuni l'hanno persa — per cercare di difendere il personale del consolato. Non è stata una manifestazione di piazza. È stato un attentato.
È in corso un'alleanza tra i gruppi salafisti e i jihadisti, ma in fondo non c'è niente di nuovo, è gente attiva da dieci anni, che usa qualsiasi pretesto per lanciare azioni contro gli americani. L'opinione pubblica araba non è cambiata rispetto alle speranze suscitate dai movimenti di democratizzazione in Tunisia, Egitto e Libia. Ora, come reagirà l'America? Il presidente Obama è riuscito a usare i droni con grande efficacia in Afghanistan e Pakistan, ma non è detto che possa riuscire a fare lo stesso in Libia o altrove. I droni sono capaci di centrare il bersaglio se sono preceduti da un lavoro di intelligence e di infiltrazione sul territorio durato anni. E non sono sicuro che gli americani abbiano questa profondità di conoscenza degli ambienti salafiti libici. È certo comunque che quel che è accaduto spingerà le agenzie di intelligence occidentali ad ampliare la definizione di minaccia: i nemici saranno quanti appartengono all'area più vasta che va dai jihadisti di Al Qaeda ai salafiti.
Barack Obama ha subito dichiarato che «giustizia sarà fatta». In che modo? Il presidente americano continuerà ad affidarsi all'intelligence, come ha fatto in passato. La sua dottrina è questa: non si combatte Al Qaeda e la minaccia del terrorismo con le invasioni militari, ma con la raccolta di informazioni e poi azioni molto mirate. Non credo affatto a un intervento militare, a parte i marines inviati a proteggere le ambasciate: gli americani cercheranno i colpevoli della morte dell'ambasciatore Stevens con metodi di intelligence e di polizia, e una volta che saranno sicuri di averli trovati colpiranno, magari facendo ricorso ai droni. Non vedo poi grosse conseguenze sull'altro scenario, quello dell'Iran e di un possibile attacco israeliano. Il mondo arabo non sta cambiando in questi giorni, ma potrebbe cambiare l'elettorato americano. Ma non è detto che sarà il repubblicano Romney, tentato dall'islamofobia, ad avvantaggiarsene.

La REPUBBLICA - Barbara Spinelli : " Tra libertà e responsabilità "


Barbara Spinelli

ANCORA una volta, come l’11 settembre 2001, il volto stupefatto dell’America s’è accampato davanti ai nostri occhi. L’ambasciatore Christopher Stevens era appena stato ucciso, e Hillary Clinton non si capacitava. « Perché è potuto succedere tutto questo? Perché in un paese, la Libia, che abbiamo aiutato a liberare? In una città, Bengasi, che abbiamo salvato dalla distruzione?» Dall’attentato alle Torri sono passati undici anni, e l’angoscia resta muta, quasi l’occhio non vedesse che orrore e buio. Ancora una volta si risponde con le armi o con i droni, ma la parola è lenta a venire. Ieri Hillary Clinton ha denunciato il video anti-Islam, ma l’attonimento iniziale è significativo. L’occidente lancia al mondo la sua domanda — Perché non ci amate? — e mai fornisce una risposta, mai lo sguardo smette d’appannarsi, disperatamente miope. Il male è nero, e il nero non è dicibile. C’è il rischio di giustificarlo, se provi a vederlo, a capirlo. C’è il rischio di sovvertire il bene di cui ti credi l’artefice: le rivoluzioni arabe, le primavere democratiche, la guerra senza screzi in Libia. Il dilemma è comprensibile: se fai «parlare» il male, gli dai diritto di parola e di esistenza. Invece bisogna capirlo, il nemico: e studiarlo, osservarlo, anche quando lo combatti, proprio se lo vuoi combattere. È evidente che il video sul Corano è un pretesto, che dopo l’uccisione di Bin Laden si voleva punire l’America, nell’anniversario dell’11 settembre, e scommettere sul peggio: la disfatta elettorale di Obama. Cercare di capire è tutt’altra cosa che giustificare, e non è nemmeno restare neutrali. Nella sua Teoria del Partigiano, Carl Schmitt scrive una cosa su cui vale la pena riflettere, in questi giorni d’ira contro il filmato trasmesso da organizzazioni vicine a Terry Jones, il reverendo che invoca i roghi del Corano: «Il nemico è la forma che assume la nostra questione ». Conoscerlo e misurarlo significa conoscere se stessi, la «questione su chi siamo». Un video distruttore della figura di Maometto ha scatenato in vari paesi musulmani la furia di piccoli ma bene armati gruppi di estremisti. Furia divenuta sanguinaria, a Bengasi: non stupisce che abbia colpito un giusto, un ambasciatore che il Corano lo conosceva e lo rispettava. Anche i morti nel crollo delle Torri, nel 2001, erano innocenti — a loro modo giusti — delle malvagie politiche attribuite ai governi americani. Ma se vogliamo analizzare quello che chiamiamo nemico, e non ripetere sempre la stessa intontita domanda davanti alle telecamere, dobbiamo tentare qualche risposta, e cominciare a formulare quel che la violenza in Libia, Egitto, Yemen dice su di noi, sulle nostre illusioni, sulla «nostra questione». Lanostra questioneè la forza prima infamante e infine incendiaria che può emanare da un video diffuso mondialmente su YouTube. Può emanare anche da vignette anti-islamiche, come si è visto in Danimarca nel 2005, o più recentemente da un libro, come quello scritto da Richard Millet in Francia (Langue fantôme — Lingua fantasma, Gallimard). Questa forza di offendere ha un nome sacro, sancito dalle leggi liberali e specialmente inviolabile nella cultura politica statunitense: si chiama libertà di opinione, di espressione, di pubblicazione. È una libertà che non ammette limiti, che si fa forte dello spirito di tolleranza, che si inventa un Voltaire permissivo che non è mai esistito (non è sua la frase «Disapprovo quel che dite, ma lotterò fino alla morte perché possiate dirlo»). Voltaire difese dalla censura dei benpensanti testi e autori che esecrava: bisognava tuttavia che i testi contenessero qualcosa che per lui era una «verità, anche se triviale». Wikileaks e Assange per esempio portano alla luce fatti veri, e il loro diritto di parola va difeso: cosa che non accade. Non sputano bugie come quelle dette, solo per insultare, sul fondatore della religione musulmana. La libertà d’opinione professata in democrazia diventa una questione nostra — interpella innanzitutto noi occidentali, dice qualcosa su di noi — quando si trasforma in forza sovranamente indifferente alle conseguenze di quel che viene detto, ignara del rapporto fra parola e azione, negatrice della propria responsabilità. Quest’ultima non ha come scudo leggi egualmente cogenti, e articoli inviolabili delle costituzioni liberali. La responsabilità per le conseguenze di quel che diciamo o scriviamo o filmiamo non è egualmente protetta. È l’uomo pensante che mette insieme quel che l’istinto bruto disgiunge: la libertà e la responsabilità, il diritto di dire qualsiasi cosa capiti e il dovere di non sprezzare e declassare persone e religioni diverse. Un dovere che nelle società liberali abbiamo comunque, con o senza reciprocità. Gli autori del video non sentivano questo dovere pensante, erano solo sicuri della propria libertà e delle leggi che la tutelano. Che importa se dico che Muhammed era un pedofilo, o quant’altro? Importa invece molto, come Max Weber insegna a proposito della vocazione dell’intellettuale e del politico: chi esercita tali professioni deve saper combinare l’etica delle convinzioni e quella della responsabilità, senza far prevalere l’una sull’altra e sapendo che l’equilibrio fra le due è fragile e sempre scabroso. La libertà senza confini pensa di essere puro convincimento, e per questo la sua energia desta spesso ammirazione. Ma quando viene meno la responsabilità anche la convinzione vacilla, perde la purezza cui pretende: diventa non solo irresponsabile, ma falsificatrice della realtà. È quel che viene da dire sulle convinzioni dello scrittore Millet. Il suo libro, che sta dividendo i francesi, contiene una riflessione sull’attentato di Breivik nell’isola norvegese di Utoya, il 22 luglio 2011 (69 morti, più otto uccisi a Oslo). La convinzione di Millet è la seguente: Breivik è «il segno disperato, e disperante, del fatto che l’Europa ha sottostimato le devastazioni del multiculturalismo, e segnala anche la disfatta dello spirituale a vantaggio del denaro ». I giovani uccisi nel meeting socialdemocratico incarnano un’Europa «uscita dalla Storia», perché islamizzata e contrassegnata dalla «conversione dell’individuo in piccoloborghese meticciato, mondializzato, incolto e socialdemocratico — ossia la tipologia delle persone uccise da Breivik ». Contrariamente a Millet, non credo che l’eccidio di Utoya sia una catastrofe perché gli europei sono affetti dalle malattie elencate nel libro (più precisamente, nel brano che ha per titolo «Elogio letterario di Anders Breivik », apparso sul Foglio il 30 agosto): malattie cui l’autore dà il nome di nichilismo multiculturale, perdita di identità, islamizzazione, denatalità, irenica fraternità. Quel che è stato veramente tragico a Utoya, è più semplice e quasi indicibile. Perché i ragazzi presenti nella riunione socialdemocratica non hanno organizzato una difesa, a Utoya? Perché non hanno escogitato espedienti, gettando sassi o tendendo tranelli, per limitare la furia di Breivik? Come mai sono andati come agnelli al macello? Alcuni di loro hanno reagito: tre adolescenti ceceni, abituati a una vita di guerriglia, hanno salvato ventitré ragazzi, prima gettando pietre poi nascondendoli in una grotta, e in Norvegia sono ricordati come eroi. Anche le vittime hanno responsabilità: questoè quasi indicibile. Il tremendo è che a volte, perché imprigionati o minacciati, hanno solo quella. Ecco un’altra questione nostra. Ma è diversa da quella di Millet o dei video anti-musulmani. Lasciamo stare le false citazioni di Voltaire, quando parliamo di tolleranza. Voltaire non ha detto che bisogna esser tolleranti con gli intolleranti. Limitiamoci a constatare che la scelta è tragica (ci sono perle incomparabili nei pamphlet più antisemiti di Céline, non ve ne sono, pare, nel libro di Millet e tanto meno nei video contro il Corano) e che la frontiera tra libertà e responsabilità è un’esilissima linea. Ma una risposta dobbiamo cercarla, in noi stessi, se davanti alla violenza non vogliamo divenire sordomuti senza speranza.

Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@corriere.it
rubrica.lettere@repubblica.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT