Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 13/09/2012, a pag. 4, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Obama: è terrorismo. Giustizia sarà fatta ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 5, l'articolo di Paolo Valentino dal titolo " La promessa di Obama: faremo giustizia. Ma Romney lo accusa ", a pag. 44, l'articolo di Massimo Gaggi dal titolo " «Li abbiamo liberati, ci hanno traditi». L'America riflette sui nuovi alleati ".
In alto a destra, la vignetta di ellekappa su Repubblica. Dovrebbe far ridere? Dovrebbe essere satira? Il fatto che Mitt Romney abbia criticato la politica dell'amministrazione Obama con gli islamisti e che sia in corsa per diventare presidente degli Stati Uniti, non implica che sia felice dell'attacco in Libia.
Una vignetta che dimostra più cattivo gusto che capacità di fare satira.
Ecco gli articoli:
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama: è terrorismo. Giustizia sarà fatta"


Maurizio Molinari, Barack Obama
Barack Obama promette «giustizia» contro i killer dell’ambasciatore Chris Stevens, manda a Bengasi e Tripoli contingenti di Marines, e ordina ad Pentagono di dispiegare i droni sui cieli della Libia per identificare i campi di addestramento dei gruppi terroristi responsabili dell’attacco. Nella notte si è anche saputo che il Pentagono ha cominciato a spostare due navi da guerra verso le coste libiche.
La reazione del presidente degli Stati Uniti all’assalto al consolato di Bengasi lascia intendere che viene considerato alla stregua di un atto di guerra. É una scelta maturata nella notte fra martedì e mercoledì, quando i consiglieri per la sicurezza nazionale, Tom Donilon, e per l’anti-terrorismo, John Brennan, hanno aggiornato il presidente su quanto stava avvenendo. La coincidenza con gli attacchi dell’11 settembre, le valutazioni dell’intelligence sull’assalto «pianificato da tempo», l’uccisione di quattro americani e il coinvolgimento delle cellule salafite, emanazione di Al Qaeda in Maghreb, sono i tasselli che Obama valuta nello Studio Ovale poco dopo l’alba di ieri, decidendo di rivolgersi alla nazione dal Giardino delle Rose della Casa Bianca. Il primo pensiero è ai quattro caduti «impegnati incessantemente a far progredire interessi e valori della nostra nazione» vittime di «un attacco vergognoso e scioccante». Di Stevens ricorda l’impegno per «sostenere la giovane democrazia in Libia» finendo assassinato nella nazione «al cui rilancio aveva dedicato la propria missione». E la coincidenza con l’undicesimo anniversario dell’11 settembre lo porta a sottolineare che «come americani non dimenticheremo mai che le nostre libertà si fondano sulla volontà di difenderle».
Con il volto teso e al fianco il Segretario di Stato Hillary Clinton, Obama parla di «un atto di terrore che non indebolirà la determinazione della nostra nazione» avvertendo chi lo ha commesso che «Justice will be done», giustizia sarà fatta. É la stessa frase che il predecessore George W. Bush pronunciò dopo l’11 settembre ed a cui Obama si è richiamato dopo l’eliminazione di Osama bin Laden nel 2011 affermando «giustizia è stata fatta». La terminologia del presidente suggerisce che l’America perseguirà i responsabili dell’assalto di Bengasi ed a provarlo sono decisioni adottate della Casa Bianca. Un contingente di Marines del «Fast Team» di base a Rota, in Spagna, viene spostato a Bengasi dove «proteggerà la sede diplomatica e chi vi lavora» come spiegano i portavoce del Pentagono. Sono almeno 50 i soldati assegnati a Bengasi ed altrettanti vanno a difendere l’ambasciata a Tripoli. É un contingente in allerta permanente, incaricato di compiere missioni anti-terrorismo con il minimo preavviso e ciò significa che in Libia arrivano le truppe speciali, seppur con compiti di sorveglianza e difesa. A compiere l’altra mossa è Leon Panetta, il ministro della Difesa, che ordina a Martin Dempsey, capo degli Stati Maggiori Congiunti di «schierare i droni sulla Libia per individuare l’eventuale presenta di campi terroristi implicati nell’assalto di Bengasi». In concreto ciò significa che i droni armati di missili daranno la caccia a quelli che il vicepresidente John Biden, parlando da Dayton in Ohio, definisce «killer che faranno presto i conti con la giustizia».
In tale cornice a Hillary spetta, in un discorso dal Dipartimento di Stato, recapitare messaggi politici. Anzitutto a Tripoli assicurando che «“le nostre relazioni non saranno un’altra vittima di quanto avvenuto» per far sapere ai terroristi che, se pensavano di innescare un corto circuito fra alleati, hanno fallito.
E poi sul film ostile a Maometto indicato dagli aggressori come motivo del blitz Hillary aggiunge: «Il video infiammatorio non giustificava l’attacco». Come dire, niente scuse, è stato terrorismo.
CORRIERE della SERA - Paolo Valentino : " La promessa di Obama: faremo giustizia. Ma Romney lo accusa "

Mitt Romney
NEW YORK — Ha l'effetto di una frustata e imprime una torsione inattesa alla campagna presidenziale americana, l'attacco mortifero di Bengasi. In ritardo nei sondaggi e alla ricerca disperata di un'apertura, Mitt Romney attacca la Casa Bianca per la sua gestione della crisi, rompendo una consolidata tradizione bipartisan in simili situazioni e cercando di lucrarne un vantaggio. Il presidente Obama prima promette che «giustizia sarà fatta». Poi in un'intervista a 60 Minutes della Cbs, afferma che Romney «non sembra aver capito bene tutti i fatti». Anzi, è uno che «prima spara e poi prende la mira». E mentre il campo democratico accusa il candidato repubblicano di voler strumentalizzare politicamente una grave emergenza internazionale, perfino alcune voci conservatrici prendono le distanze da Romney.
Giornata di dolore, lutto, ma anche di piena escalation polemica, quella di ieri in America. Ancora prima di apprendere della morte dell'ambasciatore Stevens, l'ex governatore del Massachusetts ha reso nota una dichiarazione, dove stigmatizzava la nota dell'ambasciata Usa al Cairo, che aveva criticato il film nel quale veniva preso in giro il profeta Maometto: «È vergognoso che la prima risposta dell'amministrazione non sia stata di condannare chi attacca le nostre sedi diplomatiche, ma di simpatizzare con chi sostiene quegli attacchi». In realtà la nota della missione Usa in Egitto era stata emessa prima degli attacchi. Ma Romney lo ha volutamente ignorato e poche ore dopo, in un'improvvisata conferenza stampa, ha rilanciato: «Quel messaggio, di cui l'amministrazione è responsabile, equivaleva a delle scuse. È un grave errore, che ha mandato al mondo segnali confusi».
Barack Obama, parlando dal Rose Garden della Casa Bianca con accanto il segretario di Stato Hillary Clinton, ha condannato «un attacco oltraggioso e scioccante» e promesso che lavorerà «con il governo libico per assicurare alla giustizia i responsabili». Respingendo implicitamente l'accusa di Romney di essersi scusato per i valori americani, Obama ha aggiunto: «Respingiamo ogni tentativo di denigrare il credo religioso degli altri, ma non ci può essere alcuna giustificazione per questa violenza insensata».
L'affondo diretto è invece venuto dal senatore John Kerry, che ha definito i commenti di Romney «sbagliati, inappropriati, indice di insensibilità e di totale mancanza di giudizio». Critiche verso Romney sono venute anche dal suo campo: «Mi pare che non si sia fatto un favore», ha detto la celebre opinionista conservatrice Peggy Noonan.
In Italia, ferma condanna per il «gesto efferato» è stata espressa dal premier Mario Monti, mentre il presidente Napolitano ha inviato un messaggio a Obama, partecipando il suo cordoglio per «il vile atto terroristico».
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi : " «Li abbiamo liberati, ci hanno traditi». L'America riflette sui nuovi alleati "

Massimo Gaggi
Ma l'amara verità è che, nel giorno della tragedia più grave per la diplomazia Usa da vent'anni a questa parte, le notizie peggiori per l'America non vengono da Bengasi, ma dal Cairo e, in parte, da Kabul. Mentre, infatti, in Libia, dove gli estremisti sono stati sconfitti alle elezioni, il governo ha subito condannato l'attacco contro il consolato e lavora con le autorità di Washington per catturare i responsabili, in Egitto la Fratellanza musulmana è scatenata contro il film (amatoriale e blasfemo) che sarebbe stato prodotto negli Usa da un oscuro agente immobiliare che si è definito ebreo israeliano, mentre si è ben guardata dal condannare gli attacchi contro le rappresentanze diplomatiche degli Stati Uniti: un Paese che, prendendosi grossi rischi geopolitici, ha abbandonato al loro destino i vecchi autocrati appoggiando i movimenti della «primavera araba». E che, scommettendo sul processo di democratizzazione e sul prevalere dei gruppi più responsabili, ha fatto un investimento politico anche sulla Fratellanza musulmana e su Mohamed Morsi, il presidente egiziano che è espressione di questo movimento.
Ma Morsi, che chiede l'appoggio dell'Occidente e che tra pochi giorni a New York potrebbe incontrare Barack Obama all'Onu, fin qui ha ripagato tanta fiducia lasciando l'ambasciata americana in balia della piazza e chiedendo al governo Usa di punire gli autori di Innocence of Muslims, la pellicola che ridicolizza la figura di Maometto, mentre il suo movimento ha convocato per domani in tutto l'Egitto manifestazioni di protesta che rischiano di produrre altri gravi incidenti e di alimentare nuove ondate di antiamericanismo. Favorite, nei fatti, dallo stesso Morsi che continua a parlare della strage dell'11 settembre 2001 come di un'oscura macchinazione. Del resto un'indagine condotta l'anno scorso da un istituto americano credibile come il Pew Center ha confermato che in quasi tutti i Paesi islamici la maggioranza della popolazione, a volte addirittura i tre quanti, non crede che le Torri gemelle siano cadute per un attacco di Al Qaeda.
Si spiega forse così il fatto che ieri in Afghanistan anche Hamid Karzai, il presidente alleato degli americani fin dagli anni dell'Amministrazione Bush, ha assunto una posizione simile: condanna del film ma non delle violenze contro gli Usa.
A poche ore dall'undicesimo anniversario della strage dell'11 settembre celebrato nel segno del ritorno alla normalità, del «guardare avanti senza dimenticare», l'America si ritrova di nuovo di fronte alla minaccia di uno scontro di civiltà: quel Clash of Civilizations previsto 15 anni fa dal celebre saggio di Samuel Huntington e che negli ultimi anni si è cercato di scongiurare con attacchi «chirurgici» contro il terrorismo islamico e favorendo la democratizzazione del mondo arabo. Uno scenario che, dopo aver fatto sperare i riformisti, Morsi rischia di alimentare con la sua intransigenza.
Per Barack Obama, poi, c'è anche un problema più immediato: l'incubo di uno scenario come quello degli ostaggi americani in Iran nel '79 che costò a Jimmy Carter la rielezione alle presidenziali del 1980, vinte da Ronald Reagan. Senza aspettare sviluppi ancor più drammatici della situazione, ieri Mitt Romney è saltato su questa nuova gravissima crisi in Medio Oriente per cercare di recuperare terreno sul presidente nella corsa alla Casa Bianca. Per il candidato repubblicano, le vicende di questi giorni sono il frutto della fallimentare strategia mediorientale di un presidente che non è riuscito a riaffermare la leadership americana durante la Primavera araba e che ha fatto perdere peso agli Stati Uniti nella regione.
Obama è certamente in difficoltà: la politica della mano tesa al mondo arabo lanciata proprio al Cairo all'inizio del suo mandato presidenziale è caduta nel vuoto. E i sondaggi dicono che, dopo le speranze iniziali, in molti Paesi musulmani l'antiamericanismo è tornato ai livelli dell'era Bush. Ma, come nel caso dell'economia, che fino a ieri sembrava essere l'unico driver della campagna elettorale, anche per la politica estera gli insuccessi di Obama non significano necessariamente un trasferimento di consensi verso Romney: un candidato che una maggioranza degli elettori non sembra considerare sufficientemente affidabile, privo della forza di un vero leader. Mentre Obama, criticatissimo per i suoi insuccessi economici, viene considerato di gran lunga più affidabile come garante della sicurezza dell'America.
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