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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Repubblica- Corriere della Sera Rassegna Stampa
24.08.2012 Egitto: come i Fratelli Musulmani hanno preso il potere
Zvi Mazel aveva previsto tutto. Commenti di Daniele Raineri, Fabio Scuto. Cronaca di Cecilia Zecchinelli

Testata:Il Foglio - La Repubblica- Corriere della Sera
Autore: Daniele Raineri - Fabio Scuto - Cecilia Zecchinelli
Titolo: «Black out al Cairo, così Obama e Israele tentano di ristabilire i contatti - Nei palazzi del Cairo dove la marea islamica smonta la Primavera - Molestate in strada in pieno giorno. La primavera tradita delle egiziane»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 24/08/2012, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Black out al Cairo, così Obama e Israele tentano di ristabilire i contatti   ". Da REPUBBLICA, a pag. 39, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo " Nei palazzi del Cairo dove la marea islamica smonta la Primavera ", preceduto dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 16, l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Molestate in strada in pieno giorno. La primavera tradita delle egiziane ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Daniele Raineri : "Black out al Cairo, così Obama e Israele tentano di ristabilire i contatti "


Daniele Raineri, Bibi Netanyahu, Barack Obama

Roma. Il Pentagono sta tentando di ristabilire i contatti con le Forze armate egiziane, dopo la decapitazione dei vertici ordinata dal presidente Mohammed Morsi, che è anche un leader del movimento islamico dei Fratelli musulmani. Al Cairo l’intelligence della Difesa americana ha rimpiazzato Joseph Lengyel – che era lì dal 2009 ed era considerato troppo vicino agli uomini del vecchio regime di Mubarak – con il generale Richard Clark, un ufficiale più alto in grado che arriva da una lunga esperienza in Iraq. Clark dovrà stabilire un contatto con il generale egiziano Abdel Fattah el Sissi, ex capo dei servizi segreti militari ora diventato ministro alla Difesa del governo nominato dai Fratelli musulmani, e con il capo di stato maggiore Sedky Sobhy. Quest’ultimo sarà un osso duro: nel 2005, mentre studiava in un college militare americano, scrisse una tesi sulla necessità per gli Stati Uniti di diminuire la propria presenza in una regione, il medio oriente, che non capiscono. Mercoledì Morsi ha annunciato un viaggio a Washington per il mese prossimo, confermato dalla Casa Bianca, che però non ha ancora specificato se il presidente egiziano incontrerà di persona Barack Obama. Se gli ufficiali americani, che contribuiscono ogni anno al budget dell’esercito egiziano, hanno difficoltà a ristabilire la relazione con il Cairo, figurarsi gli ufficiali israeliani, con i quali gli egiziani sentono l’obbligo di esternare diffidenza e freddezza. Mercoledì, scrive il New York Times, sia il ministero della Difesa sia le Forze armate israeliane hanno mandato messaggi preoccupati al governo del Cairo sulla situazione nel Sinai, ma non hanno ricevuto risposta. E’ un “breakdown in communication a sole due settimane da un attacco terrorista che ha colpito entrambi i paesi”. Yasser Ali, portavoce di Morsi, dice di non avere ricevuto nessuna nota di protesta ufficiale da Israele, facendo sorgere il dubbio che Gerusalemme, continua il quotidiano americano, “abbia dei problemi di comunicazione con il nuovo governo” egiziano. In questo contesto indecifrabile, gli occhi sono puntati sulle mosse che il presidente Morsi effettivamente compie in politica estera. Il presidente egiziano procede con una linea politica di ambiguità e doppiezza: non vuole perdere gli alleati tradizionali, l’America e l’Arabia Saudita, ma intende metterli in condizioni di sofferenza, così da poter definire l’amicizia in nuovi termini assai più vantaggiosi. Per fare questo sta alzando la posta. Prima ha schierato i carri armati e ha mandato gli elicotteri da guerra nella penisola del Sinai – in piena zona demilitarizzata – sottoponendo il trattato di pace del ’79 con Israele a una torsione decisamente violenta. Tra una settimana, ci sarà il secondo affondo: la partecipazione a Teheran al vertice dei paesi non allineati (che, come succedeva durante la Guerra fredda, in realtà sono allineatissimi: contro gli Stati Uniti). La riapertura delle relazioni diplomatiche con l’Iran – interrotte nel ’79 – è un segnale importante, anche se non è ancora chiaro se ci saranno incontri bilaterlai tra Morsi e il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Su questo tipo di ambiguità si gioca la partita diplomatica nei prossimi trenta giorni: se Morsi s’incontra faccia a faccia con l’iraniano, fuori dall’ambito del vertice, poi avrà anche accesso alla Sala ovale della Casa Bianca (sotto elezioni)? Questa pressione, che assomiglia a una sfida lanciata agli alleati nel Sinai e a Teheran, è legata alle richieste arrivate dal Cairo agli americani: un prestito da mezzo miliardo di dollari e la copertura di Washington a favore degli egiziani nelle trattative con il Fondo monetario internazionale per un megaprestito da 4,6 miliardi di dollari che l’Egitto nel mezzo di una crisi economica disastrosa deve negoziare a proprio favore. Alla ricerca di sponsor nuovi o alternativi, il viaggio di Morsi comincia dalla Cina, il più grande investitore straniero in Africa.

La REPUBBLICA - Fabio Scuto : " Nei palazzi del Cairo dove la marea islamica smonta la Primavera "


Mohamed Morsi

I Fratelli Musulmani hanno preso il potere e, a poco a poco, stanno trasformando l'Egitto in una teocrazia stile Iran. I lettori di IC erano già informati di questo grazie alle analisi di Zvi Mazel, sempre in anticipo sulla descrizione di quanto succede in Egitto.
Ecco il pezzo di Scuto:

IL CAIRO -  I santuari del jet set egiziano sono vuoti come le tombe dei Faraoni nella valle dei Templi. Le terrazze degli alberghi dove, cellulare in una mano e un cocktail nell’altra, la jeunesse dorée, la generazione del baby miliardari dell’era Mubarak, passava le sue serate sono deserte. Inutile cercare. I grandi parcheggi del “Conrad”, del “Fairmont” sono vuoti, fatta eccezione per le sgangherate Fiat dei custodi. Non c’è traccia dei Suv neri con i vetri oscurati e dei body guard in attesa che il “Basha” – il ricco, il potente, il boss – abbia concluso la sua serata sulla terrazza girevole al quarantesimo piano del Grand Hyatt sulle rive del Nilo. Sono deserti anche i divani bianchi del “Sequoia” nell’esclusiva isola di Zamalek. Quel mondo è come scomparso, dissolto senza lasciare traccia. Nel “nuovo corso” egiziano quell’ostentazione di ricchezza, potenza e impunità, non sono più ammissibili. Molte sono le cose cambiate nei due mesi dall’elezione del presidente Mohammed Morsi, il primo islamista eletto democraticamente in un Paese arabo, alla guida dell’Egitto. Forte della sua “investitura” popolare, Morsi a colpi di decreti si è sbarazzato dello Scaf, la Giunta militare che ha guidato la transizione fino alle elezioni di giugno; si è dato il diritto di legiferare e controllare la stesura di una nuova Costituzione; ha annullato tutti gli emendamenti alla “Carta costituzionale” provvisoria, concentrando nelle sue mani lo stesso potere che aveva il deposto raìs Hosni Mubarak, cacciato da quella “primavera araba” che tanto entusiasmo aveva suscitato in Occidente prima di trasformarsi in una “primavera islamica”. Forte di questi poteri Morsi ha sfidato il potere dei militari: in un colpo solo ha messo fuori dalla porta il Feldmaresciallo Tantawi, veterano di tre guerre arabe e capo della Giunta militare, il ministro della Difesa, il capo dei servizi segreti, della Marina, sfruttando abilmente la disfatta della sicurezza egiziana nel Sinai, dove dopo la strage di soldati dello scorso 5 agosto non passa giorno senza uno scontro a fuoco tra esercito e bande di terroristi islamisti legate ai clan beduini. Quello di Morsi forse non è stato “ un golpe islamico”, come hanno titolato molti giornali indipendenti egiziani ma più “una congiura di palazzo” dove il presidente ha potuto giostrare fra le rivalità nella gerarchia militare in declino, favorendo l’ascesa di una nuova generazione di cinquantenni e offrendo un’onorevole via d’uscita alla “vecchia guardia”. Il generale su cui ha puntato Morsi è appunto un cinquantenne, Abdel Fattah al-Sissi, nominato ministro della Difesa. Sissi, religioso praticante con moglie velata, è giudicato con posizioni abbastanza vicine alla Fratellanza musulmana. «Tutto questo movimento non sarebbe stato possibile senza una intesa preventiva tra il presidente e alcuni membri della Giunta militare per ridistribuire le carte al vertice della gerarchia militare », spiega il politologo Mustafa Kamel el Sayed dell’Università del Cairo. Intesa che oggi dopo questo passaggio indolore appare più chiara: i militari hanno valorosamente barattato il loro silenzio con il mantenimento dei privilegi di casta che hanno sempre avuto nella società egiziana. Persino gli Usa che avevano “intimato” solo due mesi fa ai militari di togliersi di mezzo e lasciare il potere «al presidente eletto», adesso sono preoccupati per la rapida islamizzazione che Morsi e la Fratellanza musulmana stanno imponendo con uno spoils system efficace e rapido che va dai ranghi dello Stato, alle grandi aziende pubbliche, ai direttori dei giornali, ai governatori. «Siamo di fronte a un presidente determinato a smontare la macchina della tirannia... o uno che la sta riorganizzando per servire i suoi interessi, così da poter porre le basi per l'autorità della Fratellanza?», si chiedeva lo scrittore Alaa al-Aswani, l’altro giorno su un giornale indipendente. Lunedì scorso la Commissione del Consiglio della Shura, la camera alta egiziana, (che è presieduta dal cognato di Morsi) ha fatto le nuove nomine per i 50 direttori dei giornali dello Stato - fra cui il prestigioso Al-Ahram, il quotidiano più letto e prestigioso d’Egitto – scegliendo per la maggior parte dei casi giornalisti “vicini” al movimento islamico. «Dai nuovi nomi», dice Khaled Meeri avvocato e dirigente del sindacato giornalisti, «vedo un desiderio di controllare le politiche editoriali dei giornali e servire l'ordine del giorno dei Fratelli Musulmani». E ne fa due su tutti: Abdel-Nasser Salama, nuovo direttore di Al-Ahram, si vide sospendere la sua rubrica nel 2010 per gli articoli infiammatori contro i cristiani; quello di Al-Akhbar, Mohammed Hassan al-Banna, è il nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna. Per giornali e tv d’opposizione l’attacco è stato frontale, perché il nuovo corso islamista non sembra più tollerante con la stampa di quello di Mubarak o della Giunta. Tawfik Okasha, proprietario della tv Al Faraeen (I Faraoni), di orientamento esplicitamente anti-islamico e critico verso la presidenza, sarà processato con l’accusa di «istigazione all’omicidio del presidente«, accusa che sembra ridicola ma intanto la tv è stata chiusa. Il direttore del quotidiano Al DostourIslam Afifi è finito in cella per «aver pubblicato false informazioni» che hanno offeso il presidente. Il consolidamento del potere di Morsi e della Fratellanza sull’Egitto giunge in un momento in cui i suoi avversari probabilmente sono troppo deboli o distratti per sfidarlo. I gruppi pro-democrazia, i ragazzi di Facebook che stavano dietro la rivolta di Piazza Tahrir sono allo sbando. Litigi, divisioni e egoismi, hanno spento quella scintilla, quell’attimo in cui si poteva cambiare la Storia; adesso possono fare poco più che denunciare la “rivoluzione rubata”. Oggi l’opposizione a questa “marea islamica” proverà a ritrovarsi in Piazza Tahrir, sarà un modo per contare le proprie risorse che in questo momento appaiono piuttosto scarse. La Fratellanza è compatta, coesa, determinata, con un solo obiettivo: islamizzare lo Stato. L’opposizione è divisa, frazionata, evanescente e senza una linea comune. Sullo sfondo aleggia la più seria e complessa crisi economica che l’Egitto abbia mai affrontato. Il deficit dello Stato ha obbligato il nuovo corso egiziano ad accettare un prestito dal Fondo monetario internazionale, lsenza gli aiuti americani e del Qatar il Paese sarebbe già fallito. L’industria del turismo, un terzo delle entrate dello Stato, è crollata. Nel cuore di Cairo Dowtown, dietro Piazza Talaat Harb, in una grande caffetteria c’è il ritrovo dei “khirtiyya”. Sono gli “accompagnatori”, senza licenza né permessi, che assistono il turista durante il suo soggiorno, contrattano i prezzi, organizzano escursioni e giri nei musei. Parlano tre-quattro lingue e finché il turista paga possono procurare di tutto, lecito e illecito. Naturalmente ricevono provvigioni dai negozianti, ristoranti, alberghi, night club, tassisti. Muovono una piccola industria. Anche stasera la caffetteria è stracolma, non è un buon segno. Se il “khirtiyya” è disoccupato, dice il detto popolare, «resta vuota la pancia dell’Egitto».

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Molestate in strada in pieno giorno. La primavera tradita delle egiziane "

I giorni quando una donna nel centro del Cairo rischiava al massimo una «mano morta» e qualche complimento innocente («miele», «anatroccola», «panna») sono lontani. Attacchi violenti a ragazze e signore sono oggi frequenti. In questi ultimi giorni di festa, alla fine del mese di digiuno del Ramadan, la violenza misogina è esplosa in una vera ondata contro centinaia di donne, molte di loro velate. «Un'epidemia, un'emergenza», denunciano i giornali e le tv indipendenti, i blog e i siti dei gruppi femministi e dei diritti umani. Molti riportano liste dettagliate di aggressioni e molestie sessuali, una pagina Web ha perfino un mappa con le zone più a rischio, aggiornata a ogni nuovo caso. Si vede che nessun quartiere è escluso, nemmeno quelli più chic e cosmopoliti come Zamalek e Maaadi. È nel cuore della megalopoli però che il fenomeno è più diffuso: la mitica piazza Tahrir, l'icona della rivoluzione che oggi tutto il mondo conosce, da mesi è diventata un postaccio da evitare. E negli ultimi giorni ha confermato la nuova e triste fama. Il brutto piazzale e la zona vicina, compresa la romantica Corniche sul Nilo e il centro degli affari intorno a Talaat Harb, soprattutto con il buio sono off-limits per le donne.
«Non è un fenomeno nuovo, da alcuni anni la violenza in pubblico contro le donne è in crescita», commenta Farida Naqqash, femminista, giornalista, ai vertici del partito socialista Tagammu, che ricorda come perfino la manifestazione contro le molestie sessuali organizzata a Tahrir in giugno sia stata attaccata. «La responsabilità è degli integralisti islamici, della loro propaganda massiccia e aberrante che sminuisce la donna e la vuole chiudere in casa, che la giudica una vergogna se esce per strada. La violenza maschilista ne è il risultato, e contagia soprattutto i giovani». I molestatori, confermano infatti foto e testimonianze, sono in genere ragazzi, adolescenti e perfino bambini, che si muovono in branchi in cerca di vittime. Un po' come i migliaia di ultras, sempre giovanissimi, che però hanno nelle forze dell'ordine il loro nemico e non nell'altro sesso. Non tutti in Egitto pensano peraltro che ad aver plagiato i giovani siano stati i gruppi islamici, o almeno che questi siano la principale causa del fenomeno. «Un comportamento così malato si ha perché tutta la società è malata, la nostra gioventù è frustrata, senza lavoro né speranze in un domani migliore e soprattutto è ignorante», scrive ad esempio sul sito di Masry Al Youm Hefni El Tarzi.
Ad aggravare le cose interviene la sostanziale assenza della polizia nelle strade: dai giorni della rivoluzione, quando uccisero quasi mille manifestanti, i suoi uomini sono spariti causando un forte aumento della criminalità di ogni genere. Ed è per questo che al di là delle denunce sui media e nei tribunali (32 molestatori sessuali sono stati arrestati), gli attivisti e le attiviste si sono mossi per creare pattuglie di vigilanza nei luoghi a rischio: nei parchi, allo zoo di Giza, davanti ai cinema, ovviamente nel centro, ovunque stanno organizzando gruppi di volontari per proteggere le ragazze e scoraggiare gli assalti, hanno lanciato una campagna nazionale mai vista prima. Non è una soluzione, qualcuno pensa, il problema è profondo. Ma queste iniziative sono comunque un passo avanti rispetto al passato, quando le vittime non denunciavano nemmeno le molestie, certe che nessuno le avrebbe credute e difese. E sono un segno che lo spirito di Tahrir, della vecchia Tahrir, non è del tutto scomparso.

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