Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 23/08/2012, a pag. 3, l'articolo dal titolo " Il piano di Khamenei per evitare l’accerchiamento nel post Assad ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-15, l'articolo di Bernardo Valli dal titolo " La linea rossa che divide Usa e Israele sul caso Iran ".
Ecco i pezzi:
La REPUBBLICA - Bernardo Valli : " La linea rossa che divide Usa e Israele sul caso Iran "


Bernardo Valli, Bibi Netanyahu, Barack Obama
A Washington, parlando al Congresso, l’anno scorso, Benjamin Netanyahu ha battuto il record delle standing ovations: per ventinove volte i parlamentari sono balzati in piedi per applaudirlo. Senatori e rappresentanti hanno manifestato la loro calorosa approvazione quando il Primo ministro israeliano ha scandito che lui segue la politica americana, ma si guarda bene dall’interferire negli affari interni degli Stati Uniti. Quelle parole ( I don’t interfere in American politics), pronunciate con un tono suadente, quasi umile per un personaggio non particolarmente incline all’umiltà, hanno fatto senz’altro aggrottare le sopracciglia di qualcuno alla Casa Bianca. La bugia, sfacciata al punto da apparire una battuta scherzosa, ha forse fatto inarcare quelle dello stesso Presidente. Un tempo i primi ministri israeliani pensavano che la chiave delle relazioni speciali tra lo Stato ebraico e la superpotenza si trovasse anzitutto alla Casa Bianca. Ed è quindi là che si rivolgevano. Bibi, vale a dire Netanyahu, si è ben guardato dal seguire quella tradizione, diventata una regola. Lui, considerandolo soltanto un primo tra i pari, e non un interlocutore obbligato ed unico, non si è limitato ad avere rapporti col Presidente, ha allargato il campo d’azione ai membri del Congresso, all’opinione pubblica americana, agli Ebrei americani e ovviamente ai media. INSOMMA per lui un’intesa particolare con la Casa Bianca non era, non è indispensabile. Gli Stati Uniti non si riassumono nella figura del presidente. Bibi ne è convinto. E si comporta di conseguenza. Il suo integro cuore israeliano non gli impedisce di essere quasi americano. Oltre Atlantico ha vissuto, studiato e si sente a casa. E’ a suo agio. Al punto da poter sfidare politicamente il presidente. Con Barack Obama è diventato evidente: tra il presidente e il primo ministro non corre, non è mai corso buon sangue. Non è un segreto. Tra i due non si è mai accesa una fiducia reciproca. E tanto meno una spontanea simpatia. Fin dalla sua elezione, i consiglieri di Bibi hanno visto Obama come qualcuno più vicino agli Arabi, come qualcuno che non spezzava ma ridimensionava, raffreddava, la fedeltà speciale a Israele, rispettata, dimostrata in particolare da George W. Bush, l’immediato predecessore, ma anche dagli altri presidenti risalendo nel tempo. Nessuna rottura, comunque. Ci mancherebbe altro! Israele resta il principale alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente, e la loro mano protettrice è pronta a stendersi sullo Stato ebraico, al quale sono elargiti aiuti militari, in armi e denaro, con una generosità non concessa ad altri alleati. A poche settimane dall’elezione presidenziale, e mentre si arroventano le speculazioni, i dibattiti, le polemiche, su un eventuale attacco di Israele alle installazioni nucleari iraniane, la velata tensione tra i due alleati, tra il presidente e il primo ministro, si manifesta tuttavia con maggiore evidenza. Ed è dovuta a motivi di grande rilievo, che non è eccessivo definire esplosivi, poiché riguardano un’azione militare di primaria importanza, e indirettamente la stessa rielezione di Obama alla Casa Bianca. Gli israeliani, sia pur da posizioni dissimili, sono d’accordo sulla necessità di fermare il programma nucleare iraniano. Il loro dibattito riguarda il modo di arrivarci. Si discute anzitutto il costo (quello umano per l’inevitabile ritorsione di Teheran), l’urgenza, e l’impatto sulle relazioni con gli Stati Uniti. Ehud Barak, il ministro della Difesa, è apertamente per un’azione a breve scadenza. Stando ai suoi calcoli manca poco al momento in cui il programma iraniano entrerà in una fase di immunità, durante la quale potrà puntare alla realizzazione di un’arma atomica, senza correre il rischio di essere fermato. Da qui la fretta di agire. Benjamin Netanyahu è d’accordo, anche se non con la determinazione di Barak, e fa trapelare indiscrezioni secondo le quali l’attacco israeliano potrebbe essere scatenato prima dell’elezione americana di novembre. Shimon Peres, il presidente della Repubblica, si è pronunciato contro un’iniziativa indipendente israeliana, ossia senza l’appoggio o la partecipazione americana. Dello stesso parere sono molti militari, in attività o no, e numerosi esperti dei servizi segreti. I quali, come tanti intellettuali, giudizo cano sconsiderata l’idea, ritenendo pesanti le conseguenze. L’opinione pubblica è divisa e tormentata. Il Canale 10 della tv ha fatto un sondaggio secondo il quale il 42% degli interrogati è contrario a un’operazione unilaterale, ossia senza la partecipazione americana; il 32% favorevole; il 22% incerto. Shaul Mofaz, ex capo di stato maggiore ed ora leader del partito d’opposizione Kadima, dice che l’attacco «in queste circostanze sarebbe immorale e operativamente illogico», perché ritarderebbe soltanto il programma nucleare iraniano e provocherebbe reazioni disastrose. Ma l’ex generale denuncia in particolare il dissenso con gli americani, i quali puntano sulle sanzioni e su un’azione politica per dissuadere Teheran, e soltanto nel caso tutti i tentativi dovessero fallire ipotizzano un intervento militare. E comunque, nonostante l’ammorbidimento nel contrastare le intenzioni dei falchi israeliani, Washington ritiene che l’operazione non sia tanto urgente, poiché le capacità militari americane, essendo più efficaci di israeliane, allungano il tempo in cui il programma iraniano entrerà nella temuta zona di immunità. Cioè diventerà invulnerabile. Barack Obama si guarda dunque dal fissare una scadenza, dal tracciare la «linea rossa», dall’indicare la data di un eventuale intervento, come vorrebbe Benjamin Netanyahu. Shaul Mofaz accusa apertamente il primo ministro di alimentare la minaccia di un intervento per favorire il candidato repubblicano Mitt Romney, nella corsa alla Casa Bianca. Denuncia in sostanza l’interferenza di Netanyahu negli affari interni americani e lo considera responsabile per i deteriorati rapporti con l’amministrazione Obama. Romney si è dichiarato favorevole a un’operazione contro l’Iran in tempi ravvicinati. Si è platealmente affiancato ai falchi israeliani. Oltre ad apprezzarlo politicamente, Netanyahu conosce il leader repubblicano da tempo. Lavoravano insieme al Boston consulting group, dove erano impiegati, appena usciti dall’università. Sottolineando con insistenza la necessità di arrestare al più presto il programma nucleare iraniano, Netanyahu mette in risalto l’indecisione di Obama e la fermezza di Mitt Romney. Negli Stati Uniti vivono circa sei milioni e mezzo di ebrei, mezquelle milione di più che in Israele. E tra di loro Benjamin Netaniahu è senz’altro popolare. Ma Barack Obama è molto più popolare di Mitt Romney. All’inizio dell’estate un sondaggio dava il 61 % degli elettori ebrei in favore di Obama e soltanto il 28 % in favore di Romney. Tradizionalmente il partito democratico è preferito. Ed è difficile rovesciare la tendenza. Più in generale, al di là dell’elettorato ebreo, sul piano nazionale, Romney arranca nei sondaggi dietro Obama. Netanyahu non può troppo contare su di lui. Può tuttavia tenere Obama sotto pressione, con la minaccia di un attacco al nucleare iraniano prima dell’elezione di novembre. Per evitare questa possibilità che lo metterebbe in una situazione difficile in un momento politico cruciale, Obama potrebbe fissare una «linea rossa» che lo impegnerebbe una volta rieletto ad agire di concerto con Gerusalemme. Su questo conta il primo ministro israeliano. La sua sarebbe una mossa (un bluff, dicono i suoi avversari, un’ispirazione messianica dicono i suoi amici) per mettere Obama con le spalle al muro. Gli imperi vanno usati, tanto passano, come i loro presidenti.
Il FOGLIO - " Il piano di Khamenei per evitare l’accerchiamento nel post Assad "

Ali Khamenei
Roma. Dopo la cacciata della Siria – seppur temporanea – dall’Oci, il consesso dei paesi islamici, la Guida Suprema iraniana Ali Khamenei ha riunito in tutta fretta il Consiglio nazionale di sicurezza di Teheran per valutare le conseguenze di quella che sembra essere una mossa preparata e voluta dai sauditi per indebolire la grande potenza sciita della regione. Secondo quanto scrive Con Coughlin sul Telegraph – che cita fonti dei servizi occidentali –, Khamenei ha commissionato all’intelligence iraniana un rapporto per valutare gli effetti che ricadrebbero su Teheran dalla caduta dello storico alleato Bashar el Assad. Il dossier prefigura uno scenario drammatico per la Repubblica islamica, indicando come la sopravvivenza del regime siriano sia considerata “vitale per tutelare gli interessi nazionali dell’Iran e per il sostegno alle attività di Hezbollah nel Libano meridionale”.
Interessi che sono messi in grave pericolo dalle sanzioni delle Nazioni Unite imposte per il programma nucleare e per l’appoggio (la cui portata rimane comunque incerta) dell’occidente ai gruppi d’opposizione che operano a Damasco. Per queste ragioni, la Guida Suprema avrebbe incaricato il capo di al Quds – il reparto dei pasdaran cui vengono demandate le operazioni segrete –, Qassem Suleimani, di intensificare gli attacchi contro tutti coloro che lavorano per rovesciare il regime siriano. L’obiettivo è dimostrare che l’Iran non accetterà passivamente un cambiamento dello status quo senza essere consultato preventivamente, e per far sentire il proprio peso intende ricordare a Washington, Riad e Doha che tra Aleppo e Damasco ci sono alcune “linee rosse” ben definite che Teheran non lascerà mai oltrepassare. Nel rapporto – stando a quanto riferisce chi ha avuto l’opportunità di leggerlo – si suggerisce la necessità di “mandare degli avvertimenti all’America, ai sionisti, alla Gran Bretagna, alla Turchia, all’Arabia Saudita e al Qatar”. Khamenei, una volta letto il dossier, avrebbe quindi ordinato all’Unità 400 di al Quds – specializzata nelle operazioni all’estero – di riprendere con forza gli attacchi contro obiettivi strategici in terra straniera come già accaduto in passato, come il tentativo di assassinare l’ambasciatore saudita a Washington nell’ottobre del 2011 o come gli attentati contro cittadini israeliani in India, Thailandia, Azerbaigian e Georgia.
“L’Iran è deciso a far sentire la propria voce e a rispondere ai tentativi dei paesi che sostengono l’opposizione ad Assad di influenzare il corso degli eventi nella crisi siriana”, dice al Telegraph un funzionario d’intelligence occidentale. Per questo, la Guida Suprema ritiene che Teheran “non possa essere passiva davanti alle nuove minacce” e da tale considerazione deriverebbe la decisione di ordinare ad al Quds di agire ovunque si possano colpire gli interessi del nemico.
Teheran avverte sempre di più la sindrome dell’accerchiamento e sente l’ostilità crescente dei paesi islamici nei suoi confronti: l’Iran è stato l’unico membro dell’Oci – su 57 aderenti all’organizzazione – a votare contro la sospensione della Siria. Se Assad dovesse cadere, lasciando Damasco nelle mani di una nuova leadership presumibilmente sunnita, la Repubblica degli ayatollah verrebbe privata del miglior alleato nella regione e vedrebbe ostacolati e allentati (se non compromessi) i rapporti con Hezbollah. Un quadro critico che rende nervosi i vertici iraniani, al punto da arrivare ad augurarsi che Israele bombardi presto Teheran: “Un attacco di Gerusalemme contro di noi sarebbe il benvenuto”, ha detto la settimana scorsa l’ex comandante dei pasdaran Mohsen Rezaei, perché “un’azione del genere ci consentirebbe di rispondere e di sbarazzarci di Israele per sempre”.
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