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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
21.08.2012 Assad può continuare coi massacri, a patto che non usi armi chimiche
La posizione di Obama nei confronti del dittatore siriano. Cronache di Guido Olimpio, Daniele Raineri

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Guido Olimpio - Daniele Raineri
Titolo: «Siria, la 'Linea Rossa' di Obama - Il clan degli irlandesi»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 21/08/2012, a pag. 14, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Siria, la «Linea Rossa» di Obama ". Dal FOGLIO, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo "  Il clan degli irlandesi  ".

Obama ha dichiarato che : " L'eventuale uso di armi chimiche potrebbe aprire le porte a un intervento militare Usa. È la nostra linea rossa ". Una minaccia che non spaventerebbe nessuno. Tanto valeva che dicesse: 'Continua pure coi massacri, caro, solo, per piacere, non usare armi chimiche. Quelle proprio no. Continua a mandare i carri armati contro le case, spara con l'aviazione, reprimi la popolazione nel sangue con torture e assassini se vuoi, ma niente armi chimiche, ok? Se no mi tocca intervenire'. E' così che parla il presidente degli Usa ?
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Siria, la «Linea Rossa» di Obama"


Guido Olimpio, Barack Obama

Obama minaccia, i curdi colpiscono e il conflitto siriano si fa ogni giorno più duro allungando la conta delle vittime. Quasi 5 mila i morti nel mese sacro ai musulmani del Ramadan, a testimoniare la durezza dei combattimenti. Una giornata intensa, quella di ieri, segnata da scontri. Il presidente americano Obama, ribadendo una posizione già espressa, ha avvertito Damasco: «L'eventuale uso di armi chimiche potrebbe aprire le porte a un intervento militare Usa. È la nostra linea rossa». Nulla per ora fa pensare a questa ipotesi ma la Casa Bianca ha probabilmente voluto accrescere la pressione su Assad in un momento delicato per il potere. Continua infatti il mistero sulle condizioni di Maher Assad, fratello del leader, e sul presunto arresto del vicepresidente Farouk Al Sharaa. Le tensioni di Damasco si intrecciano, pericolosamente, con quelle in Turchia. I separatisti del Pkk, spalleggiati da Damasco e con basi disseminate lungo l'asse Siria-Iraq, sono tornati a colpire. Prima con un agguato a un convoglio militare: due i soldati uccisi. Quindi con l'esplosione di un'autobomba contro un commissariato a Gazientep. Otto le vittime, 50 i feriti, molti i danni. Su questo secondo episodio non c'è la certezza che vi sia la mano del Pkk ma i sospetti sono forti. I guerriglieri hanno intensificato le loro operazioni lungo il fronte meridionale della Turchia. Diverse colonne si sono infiltrate nelle scorse settimane e sono poi passate all'attacco. Colpi di mano accompagnati, in qualche occasione, da attacchi dinamitardi (anche nell'Ovest). L'offensiva del Pkk non è una sorpresa. Lo stato maggiore turco ha segnalato il rischio di «gesti spettacolari» da parte dei ribelli curdi. Proprio per questo ha organizzato una serie di rastrellamenti destinati a ripulire alcune aree o a impedire il rientro dei guerriglieri verso i loro «santuari» in Iraq e in Siria. Movimenti segnalati da Ankara che ha più volte accusato i siriani di aiutare il Pkk. Lo scenario curdo si somma a quello dei rifugiati dalla Siria. Ieri Ankara ha annunciato che è disposta ad accoglierne fino a 100 mila (attualmente ve ne sono già 70 mila) ma superato questo limite dovrà essere la comunità internazionale a occuparsene. E i turchi hanno rilanciato l'ipotesi di una «fascia di sicurezza» a cavallo del confine con la Siria. Una manovra che potrebbe facilitare l'assistenza ai profughi e favorire il sostegno ai gruppi armati che si battono contro Assad.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Il clan degli irlandesi "


Daniele Raineri

Il governo della Siria sostiene che nel paese non c’è una rivoluzione di popolo: ci sono soltanto “gruppi di terroristi” e “bande armate”, che ricevono soldi e ordini dall’estero per distruggere il paese secondo la trama geopolitica disegnata da potenze straniere. Gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e la Turchia. Sulla tv di stato i ribelli sono chiamati con infinito disprezzo “terroristi”, “estremisti” e “mercenari libici”. E’ disinformatia? Al 90 per cento sì. La versione propalata da Damasco non ricorda che i siriani per mesi sono scesi a protestare pacificamente in massa nelle piazze, ignora che c’è una campagna feroce di repressione militare contro i civili e non riesce a spiegare perché mai ogni giorno generali, soldati e uomini politici siriani abbandonano il regime del presidente Bashar el Assad per passare con i “terroristi” e i “mercenari libici”. Detto questo, ecco: in Siria c’è un battaglione di ribelli comandato da libici che raggruppa almeno tremila combattenti sotto il nome di Liwa al Ummah – la brigata della Umma – e che non si considera parte del Jaish al Hur, vale a dire dell’Esercito libero di Siria, quella galassia di gruppi locali nati spontaneamente in tutto il paese per rovesciare il regime. La brigata della Umma è stata fondata da Mahdi al Harati, 37 anni, un libico con passaporto irlandese che da vent’anni quando non è impegnato in guerra – vive e insegna arabo a Firhouse, periferia di Dublino. Durante la rivoluzione libica contro il colonnello Muammar Gheddafi al Harati lasciò la capitale irlandese e tornò nella sua prima patria per fondare la brigata Tripoli. E’ l’unità dei ribelli che nell’agosto 2011, dopo un periodo di addestramento clandestino con le forze speciali del Qatar a Nalut, una città tra le montagne occidentali della Libia – quindi da tutt’altra parte rispetto al grosso dei ribelli, che guerreggiava da est, da Bengasi – scese sulla capitale e in meno di due giorni la conquistò – com’era scritto nel suo nome. La brigata Tripoli fu la prima a fare breccia nel compound fortificato di Bab al Aziziyah, dove viveva il rais Gheddafi. Nell’inverno 2011 l’irlandese al Harati si è spostato in Siria, nel nord del paese, dove è stato avvistato da inviati di giornali occidentali che lo avevano conosciuto in Libia. Non si è preoccupato di nascondersi. C’è una foto di lui con un braccio cameratescamente attorno al collo di Paul Conroy, fotografo per il Times di Londra, che più tardi sarà ferito durante l’assedio di Homs. Al Harati spiega a Mary Fitzgerald, dell’Irish Times, poi ripresa da Foreign Policy, di essere in Siria perché così gli è stato chiesto da alcuni “fratelli siriani”, convinti che sia necessaria la sua expertise nell’arte di montare una guerriglia efficace contro un regime determinato. I siriani vogliono che Harati, dopo Gheddafi, faccia il bis contro Bashar el Assad. Assieme a lui ci sono almeno altri ex venti comandanti della brigata Tripoli originale, anche se insiste che “il novanta per cento dei combattenti che sono con me sono siriani”. Miracolo. Secondo i corrispondenti che li hanno incontrati, gli uomini della brigata hanno tutti lo stesso tipo di mimetica e dispongono dello stesso buon equipaggiamento, e questo è un fatto straordinario in mezzo ai ribelli siriani che sono vestiti e armati alla bell’e meglio e sono come i fiocchi di neve: è impossibile trovarne uno identico. I soldi contano. “Siamo finanziati da un network di donatori siriani – dice al Harati – e di donatori nei paesi del Golfo, non da stati” (sulla pagina Facebook del gruppo ci sono ringraziamenti ripetuti a misteriosi finanziatori del Kuwait). La questione dei finanziamenti è interessante. Nell’ottobre 2011 al Harati si dimise dal posto di vice nel Consiglio militare di Tripoli per “motivi personali”, in realtà perché c’erano incomprensioni irrisolvibili con il Consiglio nazionale transitorio su come organizzare la sicurezza nella capitale – in breve: il nuovo governo voleva sbarazzarsi il prima possibile delle brigate ribelli che spadroneggiavano in città. Pochi giorni prima delle sue dimissioni, sul Sunday World, un giornale irlandese, apparve la notizia di un furto nella sua casa di Dublino: 200 mila euro in banconote da 500, che nell’Irlanda conciata male dalla crisi sono introvabili ancor più che nel resto d’Europa. Harati confessò candidamente alla polizia che facevano parte di una somma più grande ricevuta dai servizi segreti americani durante la guerra contro Gheddafi – nello specifico: li aveva ricevuti dopo un viaggio in Francia e in Qatar, entrambi paesi impegnati dalla parte dei ribelli. Harati aveva diviso la somma e messo quel denaro da parte, custodito dalla moglie, una irlandese convertita all’islam. Sembra che il furto sia stato un colpo fuori programma della sorte: poco dopo la polizia irlandese segnalò l’improvvisa circolazione di banconote da 500 euro a Rathkeale, dove vive una banda di topi d’appartamento pregiudicati. La brigata Umma, con i suoi misteriosi finanziatori, con i suoi veterani di Libia e con il suo equipaggiamento superiore alla norma attrae molti locali. Harati assicura che il suo ruolo nel paese finirà con la guerra, ma dice anche che è in preparazione un’ala politica, formata esclusivamente da siriani, per rappresentare nel dopo Assad il capitale di consensi conquistato sui campi di battaglia (l’attuale ala politica dell’opposizione, il Consiglio nazionale siriano, è divisa al suo interno e soffre di una crisi di credibilità, perché i suoi membri sono accusati di passare troppo tempo lontano dalla Siria e dai rischi della rivoluzione). Gli uomini si rivolgono allo “Sceicco Mahdi” con deferenza. E’ uno degli effetti della guerra, che fa e disfa vite e fortune personali (il nemico numero uno degli americani durante la guerra in Iraq, Abu Musab al Zarqawi, era agli inizi soltanto un venditore di videocassette in una brutta città giordana). Assieme a lui c’è il cognato muratore, un altro libico irlandese, Hassan Najjar, 33 anni, detto “Sam”, protagonista della cavalcata inarrestabile verso Tripoli nell’agosto 2011, ripresa su video da uno spericolato inviato di France 24, Matthieu Mabin, fra cecchini e colpi di mortaio. L’incredulo Mabin stava attaccato a Sam senza perderlo di vista per un attimo. Chiaro che l’addestramento dei consiglieri militari qatarioti deve essere stato molto buono perché lui – che nella vita irlandese non aveva mai preso un’arma in mano – ora è chiamato dai suoi uomini “il cecchino di Dublino”. La colonna è bloccata dal fuoco di un lealista acquattato dietro un’auto: Sam si inginocchia e lo uccide al secondo tentativo, davanti all’obiettivo della telecamera del francese. “L’orrore dei video che arrivavano dalla Siria è stato abbastanza per farmi decidere di fare qualcosa”, dice adesso Sam. “Non riusciamo a capire perché il mondo non sta ascoltando le invocazioni del popolo siriano. Loro non hanno preso posizione, noi abbiamo deciso di agire”, dice a Fitzgerald. “Ora siamo come fratelli con i siriani”, dice. I “fratelli” attorno a lui rispondono: “Allahu akbar”. Legato all’irlandese e alle sue brigate in Libia e Siria è Abdul Hakim Belhadj, un ex leader del Gruppo islamico di combattimento che durante gli anni Novanta tormentò l’esercito di Gheddafi. Nel 2004 Belhadj fu catturato dalla Cia all’aeroporto di Bangkok e consegnato al Colonnello con una extraordinary rendition (prima del 2001 il libico comandava un campo d’addestramento in Afghanistan, a Jalalabad, separato dalla rete di Osama bin Laden). Anche alcuni agenti dei servizi segreti inglesi assistettero – in almeno un’occasione – ai suoi interrogatori brutali in carcere da parte dei libici. Per questo motivo Belhadj, quando la guerra finì e fu nominato capo del Consiglio militare che veglia sulla sicurezza di Tripoli, disse di volere intentare causa al governo di Londra per ottenere un risarcimento da un milione di sterline – sarebbe stata una causa contro lo stesso governo che assieme ad altri ha aiutato i ribelli libici a vincere e che ora – secondo l’ultima edizione del Sunday Times – aiuta i ribelli siriani con la sua intelligence. C’è anche Belhadj nella foto privata con Conroy e lo Sceicco Mahdi. Un dublinese, un inglese e un libico, fotografati in Siria.

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