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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
11.08.2012 Siria: Assad appoggiato dall'Iran attraverso Hezbollah continua a bombardare
cronache e analisi di Lorenzo Cremonesi, Guido Olimpio, Daniele Raineri

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Lorenzo Cremonesi - Guido Olimpio - Daniele Raineri
Titolo: «Le terrazze dei ribelli e i cannoni di Assad. Nel cuore di Aleppo assediata - I passaporti europei e l'Hezbollah: la pista che porta in Iran - 'I ribelli siriani hanno bisogno dell’America', dicono i democratici - Ci vuole al Qaida»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/08/2012, a pag. 17, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Le terrazze dei ribelli e i cannoni di Assad. Nel cuore di Aleppo assediata ", l'articolo di Guido Olimpio dal titolo "I passaporti europei e l'Hezbollah: la pista che porta in Iran ". Dal FOGLIO, in prima pagina, due articoli di Daniele Raineri titolati "  “I ribelli siriani hanno bisogno dell’America”, dicono i democratici " e " Ci vuole al Qaida ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : "Le terrazze dei ribelli e i cannoni di Assad. Nel cuore di Aleppo assediata "


Lorenzon Cremonesi

ALEPPO — Nel cielo immobile del mezzogiorno il rombo del jet precede lo scoppio della bomba. Un sibilo, su in alto, che si propaga verso terra. L'aereo quasi non si vede. I guerriglieri che mi accompagnano sono terrorizzati. Lanciano grida, ordini concitati. «Al coperto! Nascondete le macchine!». Hanno bazooka per i carri armati, bombe artigianali contro i cingolati, cecchini e mine antiuomo per le truppe scelte lealiste, che comunque quasi non si muovono senza la protezione aerea e dei corazzati. Agli elicotteri contrappongono le mitragliatrici pesanti sottratte ai tank nemici danneggiati. In alcuni casi sono riusciti a montarle sui cassoni dei pick up, come facevano i ribelli in Libia. Ma gli aerei volano troppo in alto, troppo veloci, troppo tutto per questi giovani, molti dei quali sino a poche settimane fa servivano nello stesso esercito che adesso combattono.
Siamo entrati nella città assediata per circa quattro ore ieri a metà giornata. Aleppo da due settimane è bombardata quotidianamente. Negli ultimi giorni abbiamo visitato spesso le periferie, incontrato i profughi su ogni tipo di veicolo in fuga verso la zona del confine turco una trentina di chilometri più a nord. Il comandante della Qatiba (brigata) cui mi sono unito ha deciso di visitare i suoi 50 uomini posizionati non lontano dal quartiere di Salahaddin, cuore dei combattimenti. Il suo compito era di bloccare i convogli lealisti diretti ad Aleppo. Ma adesso la battaglia è decisamente in città. E lui vuole capire come far giungere armi e munizioni. La nostra strada arriva alla città dalla zona occidentale. Sono i guerriglieri locali che fanno da scorta negli ultimi chilometri. I loro posti di blocco sono dovunque, nascosti tra le case, sui tetti. Quattro giovani, sono poco più che ragazzi sui vent'anni della Qatiba «Taweed» (la Brigata del Monoteismo), ci scortano cauti sino al quartiere di Leramun. È una zona benestante. Grandi ville, palazzi costruiti da poco, strade ampie. A meno di 200 metri indicano le postazioni lealiste vicine a una vecchia stazione dei taxi. Si vedono chiaramente carri armati, camion, jeep e tanti soldati. L'ordine è di restare nascosti. «Hanno cecchini dovunque. Specie sui palazzi più alti. Se hanno un sospetto, prima sparano, poi mandano le pattuglie per vedere cosa hanno colpito», spiega un uomo sui quarant'anni che gentilmente offre il suo terrazzo al terzo piano per poter osservare la scena: «Ma fate in fretta per favore. Ci sono bambini in questa casa». Un sottile filo di fumo si alza dalla zona di Salahaddin e dall'area dell'antica cittadella medioevale. «A Salahaddin si sta ancora combattendo. Non è vero che ci siamo ritirati, come invece affermano i macellai del regime a Damasco», sostiene un guerrigliero. Spari giungono dalla cittadella. Si vedono le mura antiche, il fossato è individuabile presso una macchia di verde più alta del piano della città. A un'ora dal nostro arrivo si odono alcune forti esplosioni nel quartiere di Tamun. Ogni tanto qualche isolata raffica di mitragliatrice. In centro mancano acqua ed elettricità. Pur essendo venerdì gli altoparlanti sui minareti tacciono. Non si ode neppure il brusio dei generatori, tanto tipico delle città in guerra, o comunque in emergenza.
Una settimana fa il bombardamento di Eriha appariva molto più grave, più ampio e terribile: ogni casa, ogni strada, ogni quartiere erano obbiettivi potenziali. In verità, Aleppo sembra invece colpita a macchie di leopardo. Ci sono settori totalmente disabitati, privi di acqua ed elettricità da due settimane, danneggiati in un modo che ricorda i quartieri sciiti di Homs devastati a febbraio e marzo. Altre zone hanno ancora una parvenza di normalità, qualche negozio aperto, rivendite di benzina in taniche, rare auto civili per le strade. Il conflitto urbano ricalca la geografia della guerra civile. Le zone sunnite, più povere, sono le più bombardate. Relativamente più salvi i quartieri sciiti e cristiani, più benestanti, dove la popolazione in genere sostiene il regime. A destra di Leramun si trova un'ampia collina arida e sassosa chiamata Jamei Zaraa. Sulla cima i guerriglieri indicano le postazioni lealiste. «Là sopra le brigate di Bashar Assad hanno posto le artiglierie. Una quarantina di cannoni pesanti, che sparano a piacimento su Aleppo», spiegano. Ci avviciniamo da dietro, dopo un lungo aggiramento tra periferie sparse e macchie di ulivi. Alla fine individuiamo con chiarezza anche a occhio nudo un paio di cannoni. Non sparano mentre restiamo sul posto per una mezz'oretta.
Tornando verso nord incontriamo una trentina di auto di profughi. Per lo più camioncini e pick up carichi all'inverosimile di donne e bambini. In molti casi trasportano più di una famiglia. Mettono assieme gli ultimi risparmi per acquistare la benzina e pagare l'autista. Escono a tappe. Alcune famiglie raccontano di avere trascorso un paio di notti fuori casa prima di raggiungere le zone più sicure. Larga parte delle cittadine e dei villaggi attorno Aleppo sono stati devastati dalla guerra negli ultimi due mesi. È come se l'esercito lealista avesse avuto l'ordine di fare terra bruciata prima dell'assedio finale. Ma per loro è un gioco assurdo. Arrivano, distruggono, arrestano, uccidono e si ritirano. Subito dopo tornano le forze ribelli.
Quasi tutti i 35.000 abitanti di Anadan sono fuggiti. Dicono ci siano stati 200 morti. I danni delle bombe appaiono gravissimi. Sui muri dipinti in vernice nera i nomi dei partigiani morti nel combattimento. Poco lontano, non più di una decina di chilometri, c'è il posto di blocco dei curdi. Fanno parte del Pkk, il gruppo della guerriglia indipendentista che sino a poche settimane fa stava con Assad e ora si è schierato con la rivoluzione. Ma le milizie locali non si fidano e li hanno parzialmente disarmati. Ancora più avanti, nel vecchio castello crociato che domina il villaggio di Saaman, si sono appostati decine di volontari stranieri di Al Qaeda: barbe lunghe, bandane nere al capo. Hanno appena catturato due tank lealisti e stanno imparando a guidarli. Sembrano ben armati. Guardano con sospetto ogni estraneo che passa. Un guerrigliero locale consiglia di andare via «e in fretta».

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " I passaporti europei e l'Hezbollah: la pista che porta in Iran "


Bashar al Assad con Mahmoud Ahmadinejad

Sono documenti occidentali. Alcuni autentici, altri falsificati alla perfezione, altri in modo approssimativo e frettoloso. Spesso si tratta di passaporti di Paesi europei, indispensabili se si vuole viaggiare senza destare troppi sospetti. E questi «libretti» inquietano le polizie perché sono il filo investigativo che lega operazioni terroristiche diverse. A Bangkok, poi a Cipro, di recente a Burgas, in Bulgaria, teatro della strage di turisti israeliani. Azioni attribuite all'Unità 910 dell'Hezbollah o alla Forza Qods iraniana, le due «lance» usate da Teheran nella guerra segreta contro Israele e altri avversari.
In queste settimane gli agenti hanno lavorato molto sui documenti sequestrati e sulle persone arrestate. Interessanti le indagini svolte a Cipro, dove all'inizio di luglio è stato intercettato un sospetto terrorista legato all'Hezbollah. Il suo nome è Hussam Yacoub — l'identità fino ad ora non era stata rivelata — ha 24 anni, è cittadino svedese ma ha origini libanesi. Lo hanno catturato a Limassol mentre era impegnato in una missione di ricognizione in vista di un futuro attentato. Sorvegliava aerei, traghetti, bus usati da turisti israeliani. Yacoub non è l'unico svedese in questa trama segreta. A fine gennaio i thailandesi hanno bloccato il libanese Hussein Atras perché accusato di preparare un attacco con esplosivo artigianale. Interessante la sua storia. Immigrato nel 1991 in Svezia, dove avrebbe sposato una locale, poi è tornato dal 2006 al 2009 in Libano, quindi è riapparso nel territorio svedese. Professione: parrucchiere. In realtà un agente al servizio dell'apparato clandestino dell'Hezbollah che lo ha mandato in missione nello scacchiere asiatico. Atras aveva un complice identificato come James Sammy Paolo ma che è riuscito a fuggire: per i thailandesi ha usato un passaporto europeo. Come lo aveva Idris Hussein (questa volta svizzero), fermato sempre in Thailandia alla fine del 2011 in un'inchiesta legata al terrorismo. Non è invece ancora chiaro quali documenti avesse la cellula che ha colpito a Burgas. Nella zona dell'esplosione è stata trovata una patente del Michigan falsificata in modo rozzo e con errori grossolani. Ma la polizia locale ritiene che i terroristi fossero in possesso di altri passaporti. Probabilmente europei. Ci sono dubbi anche sulla dinamica: non è sicuro che si sia trattato di un kamikaze. Quanto alla matrice gli israeliani accusano l'Hezbollah e, a questo proposito, il New York Times ha aggiunto che sono emersi contatti telefonici «interessanti» tra la Bulgaria e il Libano. Comunicazioni che possono essere legate alla preparazione dell'agguato nella località di mare bulgara.
Analizzando il modus operandi del movimento libanese, l'antiterrorismo occidentale è convinto che gli alleati di Teheran abbiano aumentato il loro stock di passaporti europei nel corso degli ultimi 12 mesi. Una scelta fatta in collaborazione con la Forza Qods che garantirebbe il passaggio di documenti e materiale usando le «valigie diplomatiche». Altro risvolto segnalato dagli investigatori: l'Hezbollah preferirebbe prendere di mira obiettivi «morbidi» (come è avvenuto a Burgas) mentre gli iraniani della Qods hanno nel loro mirino bersagli più significativi (rappresentanze diplomatiche, funzionari). L'Hezbollah ha anche deciso di ampliare la rete logistica affittando case da cittadini inconsapevoli.
Le preoccupazioni europee e israeliane sono condivise dagli Stati Uniti, anche loro entrati nelle indagini sugli attacchi avvenuti dall'Asia alla Bulgaria. Con una presa di posizione piuttosto importante, Washington ha lanciato ieri un nuovo allarme. Per i servizi di sicurezza statunitensi l'Hezbollah può attaccare «in qualsiasi momento in Europa».

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " “I ribelli siriani hanno bisogno dell’America”, dicono i democratici "


Nicholas Kristof                Barack Obama

Roma. Nicholas Kristof, editorialista e inviato del New York Times, quindi del giornale più influente schierato dalla parte del presidente Obama, firma un editoriale duro contro Obama, accusato di essere assente sulla questione siriana. Kristof è ad Aspen, nel Colorado, per l’incontro annuale dell’Aspen Strategy Group, un gruppo bipartisan interessato ai grandi affari internazionali, ed è rimasto colpito dalla quantità di interlocutori che battono tutti sullo stesso concetto: è ora di muoversi più aggressivamente, anzi, l’America è già in ritardo. L’uomo del New York Times cita William Perry, segretario alla Difesa con Bill Clinton, che gli dice che se lui fosse ancora al Pentagono raccomanderebbe subito un intervento militare a due condizioni: che anche la Turchia partecipi e che non siano mandate truppe di terra. Nello specifico, Perry imporrebbe una “no fly zone” e una “no drive zone”, quindi una riserva protetta in territorio siriano in cui i carri armati, i bombardieri e gli elicotteri del governo del presidente Bashar el Assad non possano entrare. E’ chiaro che si tratta di una misura molto forte, di un atto di guerra, perché la creazione di una zona simile implica lo scontro militare anche se non a terra. “Non è una strategia sviluppata completamente, ma faciliterebbe la fine di Assad e se funzionasse aiuterebbe a influenzare il governo che verrà dopo. Se ce ne stiamo seduti ora, poi non potremo dire nulla”. Madeleine Albright, che è stata segretario di stato con Clinton – il paragone tra Clinton e Obama ora sta girando molto, complice anche il candidato repubblicano Romney – dice a Kristof di essere anche lei a favore dell’intervento: “Non possiamo permetterci di starcene in un cul de sac mentre la gente viene uccisa”. Albright sostiene che non c’è bisogno di un’autorizzazione delle Nazioni Unite, come non ce ne fu bisogno in Kosovo nel 1999, “ma non deve essere un intervento con truppe a terra”. Ieri il governo siriano ha riguadagnato il controllo su Aleppo, dopo due settimane di bombardamento, dimostrando di avere ancora risorse per continuare a combattere la guerra civile. “President Obama, your answer?”, chiede Kristof.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Ci vuole al Qaida "

I ribelli siriani avrebbero bisogno di al Qaeda? Una teoria piuttosto strana, avremmo detto tutti il contrario, che al Qaeda s'è infiltrata fra i ribelli per prendere il potere.
Ecco il pezzo:

Roma. Sul sito del Council on Foreign Relations, organo al livello alto dell’establishment americano, c’è un articolo firmato da Ed Husain che sostiene: “I ribelli siriani oggi sarebbero incommensurabilmente più deboli senza al Qaida. I battaglioni dell’Esercito libero siriano (Fsa) sono stanchi, divisi, confusi e inefficaci. Si sentono abbandonati dall’occidente e sempre più demoralizzati mentre affrontano la potenza di fuoco superiore e l’esercito professionista del regime di Assad. L’arrivo di jihadisti di al Qaida porta disciplina, fervore religioso, esperienza bellica dalle battaglie in Iraq, finanziamenti dai simpatizzanti nel Golfo e, soprattutto, risultati letali”. Conclusione del primo paragrafo: “In breve, l’Fsa ha bisogno di al Qaida ora”. In Siria il gruppo terrorista ha scelto di chiamarsi Jahbat al Nusrah, Fronte per la protezione, e sta rapidamente incrementando il numero degli attacchi contro il governo, dai sette di marzo fino ai sessantasei dello scorso giugno. A maggio la presenza di Jahbat al Nusrah / al Qaida in Siria è stata riconosciuta dal segretario alla Difesa americano, Leon Panetta, e a luglio il capo dell’antiterrorismo al dipartimento di stato, Daniel Benjamin, ha suggerito che l’America chieda ai ribelli siriani di respingere l’alleanza tattica con gli estremisti. Scrive Husain: “Il calcolo taciuto, tra chi decide la politica, è di sbarazzarsi prima di Assad e poi di occuparsi di al Qaida”. L’organizzazione terrorista non si è gettata nella furia della guerra civile soltanto per rovesciare il regime di Damasco (dopo decenni di collaborazione). Spera che nel dopo Assad il nuovo governo riconosca di essere indebitato con le tribù e i clan che hanno sostenuto il peso della guerra civile e che sono alleati con il Jahbat al Nusrah. Se proprio non si realizzerà l’utopia del nuovo califfato, almeno ci sarà una nuova rete di rapporti e di amicizie importanti. Per minimizzare questi rapporti di al Qaida con i combattenti, avverte Husain, il presidente americano Obama dovrebbe trovare un piano e attuarlo subito.

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