Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 10/08/2012, a pag. 14, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo "Il pugno dell'Egitto: raid nel Sinai contro i jihadisti " , a pag. 43, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Se il presidente Morsi tradisce se stesso" , preceduto dal nostro commento. Dalla STAMPA, a pag. 13, l'articolo di Ibrahim Refat dal titolo " I beduini del Sinai abbandonato fra contrabbando e terrorismo ". Da REPUBBLICA, a pag. 10, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo " Armi, cemento e auto di lusso in quelle gallerie di sabbia nelle mani del contrabbando ".
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Il pugno dell'Egitto: raid nel Sinai contro i jihadisti "

Mohamed Morsi
GERUSALEMME — Ne hanno già sigillati sessanta. Blocchi di cemento piazzati proprio lì, all'ingresso dei tunnel: sempre meglio di Mubarak che senza preavviso pompava dentro l'acqua, e chi era ancora sotto peggio per lui. Oggi, per l'arrivo sul confine del neopresidente Mohammed Morsi, i militari egiziani dicono che verranno chiuse tutte le gallerie più grosse, quelle con le rotaie e il neon, dove si riuscivano a far passare perfino le moto cinesi e le mucche frisone. Tempo qualche giorno, promettono, e di quel formicaio non resterà più traccia: addio ai 1.000-1.200 tunnel scavati nel deserto fra Gaza e l'Egitto, l'economia nera di Hamas, la boccata d'ossigeno per una Striscia isolata dal mondo, diecimila spalloni e milioni di dollari, dove uomini come topi hanno contrabbandato cibo e jihad.
«Ripulite il Sinai», è l'ordine di Morsi. Il pugno di ferro dei nuovi faraoni del Cairo. Che dopo il massacro di domenica sera a Rafah, 16 guardie di frontiera, l'hanno capita: la Penisola rischia di diventare un'ingovernabile area tribale di tipo pachistano, centinaia di qaedisti arrivati dall'Afghanistan e dall'Iraq, migliaia di beduini che non hanno nulla da perdere e perciò li supportano. Martedì notte, è scattata l'operazione «Aquila»: elicotteri Apache e batterie missilistiche, forze speciali e blindati, roba che nemmeno Mubarak azzardò mai. In poche ore gli egiziani hanno ucciso 27 salafiti, stanato i terroristi. Nella rete è finito pure un canadese, tale David Edward, un Taliban Johnny che combatteva per il sogno del califfato islamico. Il repulisti continuerà sulle montagne, a Jabel Hilal, Al Mahdia e ovunque si nascondano i primi, veri nemici del nuovo corso egiziano. Anche la guerriglia è solo all'inizio: ieri mattina, un po' di spari davanti al commissariato di El Arish hanno fatto intuire la strategia dei jihadisti, sostenuti da molti «badu» locali che temono di perdere l'unica fonte di guadagno ben sapendo che i tunnel, tante volte chiusi, altrettante volte sono stati riaperti... Morsi ha rotto un tabù, perché era dal Kippur (1973) che nessuno osava bombardare il Sinai. Per farlo, il presidente ha cacciato il capo dell'intelligence (che aveva trascurato le segnalazioni del Mossad israeliano), l'ha rimpiazzato col generale Shehata (noto per i suoi buoni rapporti con gl'israeliani) e infine ha naturalmente avuto l'ok da Israele, dove ora s'applaude sia pure con riserva: «È solo maquillage — scriveva ieri un giornale di Gerusalemme —. Per riprendere il Sinai, servono molte più risorse di quanti Morsi possa metterne. I blitz non risolveranno il problema, che resta un problema degli israeliani».
Il blitz è già qualcosa, però. In questa cerniera che unisce l'Asia e l'Africa, dove la pace di Camp David è messa ogni giorno in discussione, chi avrebbe mai detto che i Fratelli musulmani si sarebbero confrontati — prima che con l'Odiato Sionista — coi fratellini di Hamas e coi cuginetti salafiti? Più di tutto, chiaro, poterono i conti in rosso del Mar Rosso: l'economia turistica di Sharm el-Sheikh, già dimezzata, non può reggere a lungo un deserto in mano a predoni e rapitori. Ma nessuno si nasconde, scrive il Jerusalem Post, che «il Sinai è anche un test politico per il nuovo Egitto, chiamato a scegliere: o l'Occidente, o l'Iran». A fine mese, Morsi è stato invitato a Teheran per il vertice dei Non Allineati (ebbene sì, esistono ancora...). Sarà uno spottone per il nucleare degli ayatollah, che vogliono il presidente egiziano di persona. Gli americani hanno fatto sapere che sarebbe meglio di no: la marcia nel deserto è solo cominciata.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Se il presidente Morsi tradisce se stesso "

Hillary Clinton con Mohamed Morsi
Ferrari conclude con queste parole il suo pezzo: " Senza il sostegno degli Usa e della Ue il Cairo pagherebbe un prezzo insopportabile. Ecco perché, vestendo l'abito dello statista, ha scelto di lasciare un'immediata e realistica impronta della propria presidenza.". Gli Usa hanno garantito il loro sostegno a Morsi e i loro finanziamenti. L'azione fratricida dei terroristi ha obbligato Morsi a intervenire e a fare questo passo, non il timore di perdere l'appoggio Usa.
Ecco il pezzo:
L e convivenze sono sempre difficili. Spingere a un matrimonio d'interesse il neopresidente Mohammed Morsi, leader dei Fratelli musulmani moderati, con le inossidabili Forze armate egiziane, che hanno subio soltanto qualche trascurabile graffio alla propria influenza, pareva davvero un'impresa. Nessuno poteva immaginare che a poche settimane dalla vittoria elettorale si sarebbe assistito a una dura resa dei conti fra la Fratellanza e i suoi naturali alleati, i fondamentalisti salafiti, secondo partito d'Egitto e convinti paladini di un doppio estremismo: politico e religioso.
Pensare che il prudente Morsi avrebbe ordinato, o più credibilmente condiviso il raid punitivo contro gli estremisti islamici che avevano offeso l'onore del Paese con il disastroso e miseramente fallito attacco contro Israele, era un'ipotesi ritenuta impossibile. Invece è accaduto. Il potere è uno straordinario collante, e quanto sta avvenendo al Cairo ne è chiara dimostrazione. Morsi, il leader che rappresenta la svolta dopo il ruvido trentennio di Hosni Mubarak, è finito subito contro il muro del realismo, pronto a contraddire se stesso e la propria ideologia. Dimostrando quindi che tutti i proclami e le convinzioni possono essere sacrificati quando più urgente è il peso delle responsabilità. L'Egitto è un grande Paese, il più importante del mondo arabo, e la durissima reazione militare che colpisce anche il cordone ombelicale tra il turbolento Sinai e la Striscia di Gaza palestinese, controllata da Hamas, è la prova che Morsi è pronto a rivedere, almeno in parte, il proprio credo politico. Non ha infatti intenzione, né ora né probabilmente in futuro, di denunciare gli accordi di pace con Israele, e forse neppure la volontà di imporre in fretta la legge del Corano per soddisfare i desiderata degli islamici duri e puri. La brutale e sanguinosa punizione dei più fanatici salafiti è un segnale alto e forte, che vuol dire due cose: la prima è che al comando vi sono saldamente il capo dello Stato assieme al suo ministro della difesa, che poi è Mohammed Tantawi, capo del Consiglio supremo militare; la seconda è che il Sinai, da area smilitarizzata come prescritto dagli accordi di Camp David, diventa di fatto una regione dove il potere centrale egiziano può controllare tutto, con il consenso — ormai evidente — di Israele.
Ma il quadro e gli equilibri interni del Cairo non possono spiegare questo immediato e clamoroso sviluppo. L'asprezza della spietata rappresaglia militare egiziana contro i salafiti si spiega anche con l'orgoglio di un Egitto che non vuol perdere il proprio ruolo di guida del mondo arabo, e in particolare di quello sunnita. Gli ultimi sviluppi della tragedia siriana hanno concentrato l'interesse sulle ambizioni politiche dell'Arabia Saudita e del suo piccolo e ricco alleato Qatar, avvinghiati nel fronte decisionista contro l'Iran sciita e i suoi alleati regionali. Non solo. L'altro grande Paese regionale, non arabo ma a maggioranza sunnita, che ha un prestigio e un'influenza indubbiamente crescenti è la Turchia, da sempre in competizione con l'Egitto per assicurarsi il sostegno degli Stati Uniti e dell'Occidente. Morsi lo comprende molto bene. Senza il sostegno degli Usa e della Ue il Cairo pagherebbe un prezzo insopportabile. Ecco perché, vestendo l'abito dello statista, ha scelto di lasciare un'immediata e realistica impronta della propria presidenza.
La STAMPA - Ibrahim Refat : " I beduini del Sinai abbandonato fra contrabbando e terrorismo "

Il pesce comincia a marcire dalla testa», dice un proverbio non solo egiziano. Nella penisola del Sinai sta succedendo il contrario. Qui il declino è cominciato in una periferia abbandonata da uno Stato troppo centralizzato e autoritario.
La penisola, una delle regioni più belle dell’Egitto, da paradiso turistico è diventato roccaforte dei neo jihadisti, una vasta terra di nessuno, che il nuovo Egitto, uscito dalla sua «primavera araba» del 2011, non riesce a gestire. Le avvisaglie, in realtà, si potevano cogliere già al tempo di Mubarak, con gli attentati di Taba nel 2004, di Sharm el-Sheikh, nel 2005, e di Dahab, nel 2006. Attacchi messi a segno da diversi gruppi terroristici: un centinaio di morti, uno choc per il regime del vecchio raìs, che rispose con il pugno di ferro. Non meno di quattromila persone furono arrestate e torturate dagli apparati di sicurezza. Il risultato fu di allargare il divario tra Il Cairo e gli abitanti del Sinai, tra gli «effendi» (i burocrati) venuti dalla Valle del Nilo per amministrare (e saccheggiare) queste terre di beduini. Un fossato fra centro e periferia.
I beduini vivono ancora in società tribali, dominate da culture arcaiche. I dati sono impietosi: nel Sinai centrale si vive con 300 dollari pro capite l’anno, contro una media nazionale di 1400. Quelli che abitano lungo la costa del Mar Rosso, nel
Sud del Sinai, bene o male, hanno un tenore di vita più decoroso grazie al turismo, all’espansione negli Anni Novanta di resort come Sharm elSheikh, Dahab, Nuweiba, Taba. Anche se la fetta maggiore del boom la mettono in saccoccia gli investitori venuti dalla valle del Nilo, quelli che i beduini chiamano i «masrin» (gli egiziani), perché loro orgogliosamente rifiutano di chiamarsi tali.
A parte la costruzione di alberghi di lusso per i turisti, il governo investe poco o nulla nel resto della Penisola. Un solo cementificio e nessuna miniera. I sindaci, o meglio i «podestà», dal momento che non vengono eletti, sono in prevalenza ex ufficiali dell’esercito, per non parlare dei governatori, nominati dal capo dello Stato.
Un ex colonnello sindaco ci confida in privato la sua ricetta per cambiare la mentalità dei suoi cittadini beduini: «Bisognava spedire i più giovani nei collegi militari». Dei posti di lavoro nel turismo ai locali non vanno nemmeno le briciole, e lo stesso vale per gli impieghi più umili, come il bidello o l’usciere. I concorsi sono riservati a quelli che vengono dal Wadi, cioè dalla valle del Nilo. In compenso la pressione demografica è formidabile. Oltre quattro figli per ogni donna sposata.
Di fronte a uno Stato latitante, molti beduini intraprendono la strada del crimine: traffico di uomini, di armi, di droga. Alcuni si mettono al servizio dei terroristi. Aiutati dalla loro perfetta conoscenza del terreno, degli anfratti inaccessibili nelle montagne, riescono a avere la meglio sui «piedi piatti» venuti dal Cairo. Un imprenditore sequestrato nei pressi di Santa Caterina racconta di aver visto bande armate appostate sulle cime delle colline con bazooka e kalashnikov.
Per quietare le tribù l’Egitto di Mubarak pagava una sorta di obolo agli anziani sheikh, in cambio i capiclan controllavano le «pecore nere» per conto del potere. Ma gli sheikh sono sempre più screditati agli occhi dei giovani, specie di quelli che hanno studiato un po’ o hanno avuto contatti con il mondo esterno. Nelle zone di non facile accesso alle aree turistiche, come nel centro della penisola e nel Nord, ci sono soltanto due strade per uscire dalla miseria: il crimine organizzato (traffico di droga e di armi e contrabbando) o l’integralismo islamico. La vicinanza di Gaza ha aiutato la nascita delle prime organizzazioni jihadiste a El-Arish. I giovani indottrinati dai salafiti dell’enclave hanno messo a segno gli attentati nei resort affollati di stranieri nel Sud della penisola, e in seguito hanno compiuto lanci di razzi contro Eilat e Aqaba, dal versante egiziano.
Spesso sono stati aiutati dallo scarso addestramento degli agenti che presidiano i check-point. Come i sedici falciati domenica scorsa dai killer mentre consumavano l’Iftar, il pasto tradizionale con cui si rompe il digiuno alla sera, nel mese del Ramadan.
La strada del contrabbando passa per i tunnel sotterranei sotto la città di Rafah, cresciuti dopo l’assedio di Gaza da alcune decine a 1200. Un’industria fiorente che ha fatto nascere una nuova classe ad El-Arish e nei dintorni, e così pure a Gaza dove il governo di Hamas riscuote una sorta di dazio sulla merce clandestina.
Infuriato per la strage dei suoi soldati, il governo del Cairo ha ora spedito i bulldozer per radere al suolo tutte le 1200 gallerie. Per farlo dovrebbero abbattere metà di Rafah: i tunnel sbucano sotto le case lungo un fronte di ben sette chilometri. Poco distante, a Shiekh Zuwaid,i camion sostano in attesa di scaricare di notte il loro carico. «Farina, mucche, benzina, automobili, fucili, missili, medicine, droga», racconta un palestinese.
Le guardie di frontiera si girano dall’altra parte in cambio di bustarelle. Le autorità del governatorato fanno finta di nulla: «Tutto in ordine» scriveva l’ex governatore Mabrouk (licenziato mercoledì), mentre i militari danno la colpa del caos nel Sinai al trattato di Camp David con Israele, che impone la smilitarizzazione della penisola. In realtà la colpa è dell’anarchia e del caos in cui è piombato l’Egitto dopo la rivoluzione, e della lotta intestina fra le fazioni adesso al potere. E nel Sud del Sinai, come se non bastassero i sequestri lampo dei turisti, scarseggia pure la benzina.
La REPUBBLICA - Fabio Scuto : " Armi, cemento e auto di lusso in quelle gallerie di sabbia nelle mani del contrabbando "

Tunnel
GERUSALEMME — A Rafah, la città tagliata in due dal confine con Gaza, c'è un vero boom edilizio, circolano soldi, molti soldi, milioni di dollari al giorno che arrivano dal contrabbando o dalla "economia dei tunnel" come la chiamano nella Striscia Negli ultimi due anni la zona di frontiera ha visto sorgere dal nulla una serie di ville con i colonnati e i tetti stile pagoda giapponese che sono il segno distintivo dei contrabbandieri e dei mafiosi arabi "con una certa classe". Nei vicoli polverosi di Rafah, Kia, Toyota, Mercedes, Bmw e altre auto di lusso — molte ancora con le targhe libiche attaccate—sono appena state contrabbandate attraverso i tunnel. Quasi diecimila ne sono entrate nella Striscia in meno sei mesi. «In una notte sola ne hanno fatte passare più di 130 dallo stesso tunnel», racconta la leggenda metropolitana. Nei 400 tunnel in attività lungo i 13 km di frontiera fra la Striscia di Gaza e l'Egitto passano oltre alle automobili rubate in Libia o in Egitto, pannolini e lavatrici, forni a microonde e matite, mucche e quaderni per scuola, cemento, benzina, medicine, mobili da cucina, motociclette e tagliaerba cinesi. Ma soprattutto armi, anni di ogni tipo come i missili Grad (40-60 km di raggio) in grado di colpire le principali città israeliane del sud, che sono andati ad arricchire l'arsenale delle milizie fondamentaliste come Hamas e dei gruppi jihadisti filo-al Qaeda. Ventimila missili, spiega Sameh Seif Al-Yazal, generale egiziano in congedo e esperto di terrorismo, sono arrivati quest'anno a Gaza dalla Libia. Due navi cariche d'amni — lanciarazzi a spalla, razzi, munizioni, missili a medio raggio—che avevano fatto scalo in Libia sono state intercettate dalla Guancia Costiera egiziana. Il carico doveva essere sbarcato a ElArish e da qui trasferito via tunnel nella Striscia. Per queste gallerie, scavate sotto la sabbia e puntellate come bracci di una miniera, passano anche gli uomini dei gruppi jiahadisti che hanno ornai trasferito le loro basi avanzate contro Israele nel Sinai, il vasto deserto dove le bande di beduini hanno finora regnato incontrastate dalla caduta di Mubarak nel 2011. Hamas gestisce in prima persona"i tunnel militari", quelli attraverso i quali passano le armi e i suoi milizia-ni in "trasferta", su tutti gli altri esige una "decima" per ogni merce che transita che va dal al 10% del valore; un giro d'affari milionario che —dopo i soldi che arrivano dai ricchi emirati del Golfo — rappresenta il maggiore finanziamento per il gruppo fondamentalista. I "tunnel commerciali" sono invece nelle mani di cinque-sei potenti famiglie mafiose palestinesi che hanno stretto accordi con clan beduini egiziani, altre gang criminali palestinesi e gruppi armati. Il fondamentalismo jihadisticosi autofinanzia con attività criminali: spesso leader dei movimenti filo-al Qaeda e capi mafia sono le stesse persone. I Daghmush, una Famiglia con oltre cinquemila affiliati, sono soprannominati i "Sopranos di Gaza" e sono sempre stati attivi nel contrabbando. Nel 2009 alcuni membri della Famiglia hanno dato vita a un gruppo salafita molto attivo nel sud della Striscia—e nel Sinai egiziano—che si è scontrato più volte con la polizia di Hamas. Dal 2007, da quando Israele e Egitto hanno imposto il blocco economico alla Striscia di Gaza dopo che Ha-mas ha preso il potere, i ricavi di questi gruppi mafiosi sono saliti alle stelle. Un'industria che vale tra i 40 e i 60 milioni di dollari ogni mese. C'è un mercato di quasi due milioni di palestinesi— ostaggio di Hamas e dell'assedioa Gaza —dasoddisfare; seneoccupa la rete di tunnel saldamente nelle mani della Mafia araba con guadagni enormi. I ragazzini di Gaza dovranno aspettare per poter vedere dei veri elefanti, rinoceronti o giraffe. Da qualche mese però possono ammirare animali esotici, rettili, uccelli e persino belve feroci, trafugati attraverso i tunnel per il capriccio di un boss. Lo zoo di Khan Yunis, città nel sud della Striscia, offre ai bambini la possibilità di osservare da vicino animali visti finora solo alla tv. Le operazioni di transito sotterraneo sono state molto delicate ma ben gestite dall'organizzazione mafiosa. Le belve sono state anestetizzate prima del passaggio, e quindi seguite da vicino al loro risveglio sul versante palestinese della frontiera. Viste le complessità logistiche — e le dimensioni dei tunnel — per ora l'arrivo dei pachidermi dovrà aspettare tempi migliori. Ma intanto in città tutti ringraziano il Padrino.
Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera, Stampa e Repubblica, cliccare sulle e-mail sottostanti