Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/08/2012, a pag. 12, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " I ribelli siriani e l'abbraccio di Al Qaeda ". Dalla STAMPA, a pag. 12, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " Gli Usa lavorano al dopo-Assad. Più aiuti e assistenza agli insorti ".
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " I ribelli siriani e l'abbraccio di Al Qaeda "


Lorenzo Cremonesi
PROVINCIA DI ALEPPO — Come trovare denaro, armi e munizioni? Accettare le offerte di Al Qaeda, al prezzo di perdere la propria indipendenza, oppure rischiare di venire massacrati dall'esercito regolare siriano? Il dilemma non è nuovo tra le file della guerriglia. Se ne parla da mesi e regolarmente diventa più acuto quando la situazione si fa più seria. Ora però torna all'ordine del giorno in questo momento particolarmente critico per i ribelli. Dopo l'entusiasmo di quasi un mese fa, quando gli attentati che avevano decapitato i massimi quadri militari lealisti e l'arrivo della battaglia nel cuore della capitale avevano acceso le speranze di una vittoria rapida, la situazione per loro è quasi drammatica. A Damasco l'esercito ha ripreso il controllo (nelle ultime ore sembra siano caduti anche gli ultimi focolai di resistenza nel quartiere di Tadamon) e soprattutto ad Aleppo si parla adesso di 20.000 soldati appoggiati da centinaia di blindati, oltre ad elicotteri e jet, pronti a lanciare l'assalto finale.
Aleppo è la città natale del primo astronauta siriano, il generale Muhammad Ahmed Faris, 61 anni, fuggito ieri in Turchia. Nella seconda città del Paese l'aviazione ha bombardato i quartieri di Shaar e Sakhur. Lo ha riferito l'Osservatorio siriano dei diritti umani. «Hanno bombardato con i caccia», ha detto il portavoce Abdel Rahman, secondo il quale più di 40 persone sono state uccise nei bombardamenti dell'esercito in diverse province. La guerriglia ha diffuso un video in cui «rivendica» il sequestro dei 48 pellegrini iraniani, smentendo la notizia della loro liberazione data per certa ieri in serata. Nel video vengono definiti «miliziani in missione di ricognizione a Damasco».
Ieri abbiamo assistito in diretta al dialogo tra due capi di una delle più importanti brigate partigiane che operano nelle regioni appena a sud di Aleppo. Tra loro ci sono tra l'altro centinaia di uomini della «Al-Kassas» (Il giusto), che due mesi fa si è distinta nella liberazione della regione collinare di Jebel Az Zawya. In tutto contano quasi 1.500 uomini, di cui però soltanto 400 armati. Non diamo i nomi per intero dei due comandanti. Ci limitiamo a chiamarli Ali (il comandante in capo) e Achmad, suo fratello e vice sul campo. Rispettivamente di 34 e 30 anni. Da tempo Ali vorrebbe inviare 200 dei suoi, guidati del fratello, a dare man forte ai compagni delle altre brigate accerchiate nell'assedio di Aleppo. Ma mancano munizioni (se prendessero quelle che restano nei loro piccoli arsenali locali, non sarebbero in grado di difendersi in caso di attacco sulle loro zone), anche i veicoli sono pochi e non basta la benzina per il viaggio di andata e ritorno. È da notare che questi uomini sono solo relativamente religiosi. Per loro ciò che conta è distruggere la dittatura, a ogni prezzo. Per il resto in maggioranza fumano e bevono durante il Ramadan. Il digiuno lo rispettano a metà, sostenendo che chi fa la «guerra santa» è esentato dallo stretto rispetto dei precetti religiosi. A me straniero offrono cibo di continuo, a tutte le ore del giorno. Nulla a che vedere con il rigore dei Fratelli musulmani in Egitto, e men che meno con il fanatismo afghano. I ribelli in Libia l'anno scorso sembravano molto più religiosi di loro. Alla televisione guardano film occidentali. Vorrebbero venire in vacanza in Italia e andare a studiare negli Stati Uniti. Non si coglie nelle loro parole alcun odio per l'Occidente e nessuno dei preconcetti ostili che si trovano tra i simpatizzanti dell'estremismo musulmano e ancora di più tra i filo-Al Qaeda.
Achmad: «È tempo di prendere decisioni importanti. Da più giorni non facciamo più operazioni militari perché siamo a corto di tutto. Aleppo soffre e noi restiamo a guardare. Perché non accettiamo le offerte di Al Qaeda?».
Ali: «Abbi pazienza. Stiamo aspettando un carico di munizioni dalla Turchia. Per qualche motivo che non conosco tarda ad arrivare. Attendi ancora qualche giorno».
Achmad: «Attendere cosa? Di essere uccisi tutti? Io sono pronto a morire per il mio Paese. Ma non in questo modo così stupido. L'altro giorno ero a fare la guardia a un posto di blocco con il caricatore vuoto. Se fossimo stati attaccati saremmo morti per nulla. Ora basta! Dobbiamo accettare soldi e armi da Al Qaeda. A me importa poco. Farei i patti con il diavolo pur di avere munizioni. Accetterei armi persino da Sharon (l'ex premier israeliano considerato in generale nel mondo arabo come l'incarnazione del nemico numero uno) pur di potermi battere».
Ali: «E poi cosa faremo quando Al Qaeda pretenderà di dettare la sua politica nella nuova Siria libera? Rischiamo di liberarci di un dittatore per cadere nelle mani di un nuovo padrone».
Achmad: «Per quello che mi riguarda Al Qaeda non è al comando degli elicotteri e dei tank che ci uccidono ogni giorno. Vorrà dire che a fine guerra renderemo le armi, li ringrazieremo e li rimanderemo a casa loro».
Ali: «Potrebbe essere la nostra rovina».
Achmad: «Più rovinati di così! E non mi interessa neppure l'opinione pubblica internazionale. Non mi interessano i media occidentali. Ci sostengono a parole. Ma nei fatti non cambia nulla. Cosa fanno l'Onu, la Nato, l'Europa? Nulla. Al Qaeda ci offre aiuto illimitato. Prendiamolo, subito. Si tratta di vita o di morte. Poi, quando ci saremo salvati, avremo il tempo per parlare di politica».
Per quello che ho capito non hanno ancora preso una decisione. Il gruppo resta in attesa delle armi dalla Turchia. Ma il tema è aperto. Giunge notizia che le brigate impegnate nella battaglia di Aleppo abbiano accettato l'arrivo di militanti, soldi e armi da Al Qaeda. Presto, molto presto, con le spalle al muro, Ali potrebbe essere convinto dal fratello a fare lo stesso.
La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " Gli Usa lavorano al dopo-Assad. Più aiuti e assistenza agli insorti "

Hillary Clinton
Il dipartimento di Stato e il Pentagono stanno già lavorando alla Siria del dopo Assad, aiutando i ribelli, fronteggiando la crisi umanitaria, e creando le condizioni per evitare un vuoto di potere dopo la caduta del regime. Questo mentre il capo della diplomazia Hillary Clinton prepara una visita in Turchia, prevista per sabato prossimo, proprio allo scopo di discutere la crisi con l’alleato più coinvolto nelle operazioni. Sono tutte notizie che confermano l’accelerazione del confronto sul terreno, dopo che l’intransigenza russa e cinese ha impedito di trovare una soluzione diplomatica all’Onu.
Il New York Times ha rivelato che i preparativi hanno cambiato passo proprio quando si è capito che Mosca avrebbe impedito il successo della mediazione di Kofi Annan. A quel punto, basandosi sull’esperienza negativa del dopo guerra in Iraq, il dipartimento di Stato e il Pentagono hanno costituito cellule incaricate di gestire i vari aspetti della transizione, anche per evitare l’esplosione di un’emergenza proprio durante le elezioni presidenziali. Washington ha già stanziato 25 milioni in aiuti diretti ai ribelli, e 76 per quelli umanitari.
Gli sforzi di Foggy Bottom sono coordinati dal vice segretario di Stato William Burns, e quindi al massimo livello. Il dipartimento ha creato uffici dedicati alle questioni umanitarie, la ricostruzione economica, la sicurezza, il controllo delle armi chimiche possedute da Damasco, e la transizione politica. Questo aspetto è guidato dall’ex ambasciatore in Siria Robert Ford, che la settimana scorsa ha incontrato oltre 250 oppositori siriani al Cairo, per cercare di costruire un fronte unito dei ribelli capace di esprimere un governo di unità nazionale e tenere fuori dal processo Al Qaeda e gli altri estremisti.
Il Pentagono invece ha mobilitato il Central Command di Tampa, cioè quello che si occupa del Medio Oriente, formando dei «crisis action team», ossia unità di crisi con compiti specifici. Il più importante è localizzare e neutralizzare le armi chimiche, che lo stesso regime ha minacciato di usare in caso di invasione esterna. Quindi sono stati offerti aiuti a Giordania e Turchia per difendere i loro confini e prepararsi all’arrivo dei profughi. Il segretario alla Difesa Panetta ha discusso i dettagli con il re Abdullah II, giovedì ad Amman, e anche se l’intervento militare è formalmente escluso, il Pentagono ha pronti gli eventuali piani.
Queste sono le operazioni ufficiali in corso, ma a fianco ci sono quelle coperte. Il presidente Obama ha firmato l’ordine che consente alla Cia e agli altri servizi segreti di operare. Al momento dovrebbero limitarsi all’assistenza dei ribelli con mezzi non letali, come le comunicazioni, ma è noto che Turchia, Arabia Saudita e Qatar stanno armando da tempo l’opposizione, con mitra, munizioni, dispositivi anti carro armato e altre forniture. Gli agenti americani sono sul terreno per aiutare gli alleati a indirizzare questi aiuti verso gruppi non ostili.
In questo quadro, sabato prossimo Hillary Clinton sarà a Istanbul per discutere la situazione. Sul tavolo però ci saranno gli aspetti operativi, a meno che la Russia non capisca che senza un accordo diplomatico si va verso l’escalation militare.
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