Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/08/2012, a pag. 15, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Sotto il fuoco delle truppe di Assad. Urla dal silenzio di Aleppo ".


Lorenzo Cremonesi, Aleppo
ERIHA — Cadaveri ammonticchiati sul pavimento della moschea Dureid, nel cuore della città vecchia, tra il sangue e le mosche. I compagni dei combattenti morti depongono blocchi di ghiaccio e versano bottigliate d'acqua gelata. «Grazie, questo è il regalo di Bashar Assad», dice qualcuno. Un giovane mostra il corpo martoriato del fratello. «È lui. Mio fratello Achmad», dice piangendo. «Intiqam!», vendetta, gridano i compagni alzando i mitra in aria. Il volto è irriconoscibile, la testa quasi staccata dal tronco. L'ennesima vittima dei colpi di razzo sparati dagli elicotteri e dei cannoni dei tank russi T72. Conto nove morti, tutti uomini, giovani e meno giovani. Probabilmente quasi tutti guerriglieri caduti nella battaglia che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Poco lontano, meno di un quarto d'ora a piedi, c'è l'ospedale privato di Eriha. Questa mattina presto era calmo, come in attesa. Ora, scrivo che sono le tre del pomeriggio, è pieno di morti. Giunge voce siano una trentina, compresi donne e bambini. Decine i feriti, tanti ancora intrappolati nelle proprie abitazioni. Un colpo di mortaio, scoppiato verso le dodici presso la porta principale, ha causato una dozzina di vittime.
Il bombardamento sulla città comincia in modo graduale. Già l'altra sera i gruppi della guerriglia avevano messo in guardia sulla possibilità di un attacco da parte dei lealisti. La storia è legata alla battaglia per Aleppo. Da giorni, dall'autostrada che passa attraverso Eriha, deve transitare un imponente convoglio di tank diretto a rinforzare l'assedio della seconda città del Paese. Le cinque brigate locali si sono coordinate per cercare di attaccarlo. I militari lo sanno. La loro intelligence funziona ancora bene. Monitora le comunicazioni telefoniche, ha bloccato i satellitari, ha informatori tra i civili. Da fuori città hanno persino telefonato ai medici dell'ospedale minacciandoli se dovessero «assistere i giornalisti stranieri».
Il rombo delle esplosioni è preannunciato dal ronzio degli elicotteri. Volano alto, sparano a casaccio. Più colpita è la zona attorno alla provinciale dove transita il convoglio: decine di tank, camion, jeep. Poi i colpi raggiungono il centro. Scoppia una grossa mina artigianale costruita dalla guerriglia. Non sembra abbia causato danni ai carri armati, è esplosa di fronte alla testa della colonna. Cinque carri armati si fermano a proteggere gli altri. È allora che i militari insistono sulla punizione collettiva, come tante altre volte in passato. Dalle moschee, dagli altoparlanti sui minareti, gli imam si appellano ai farmacisti affinché aprano per dare medicinali. C'è caos, rumore, urla, schianti, i vetri delle finestre tremano per i continui spostamenti d'aria. Quando sei chiuso in una stanza, specie ai piani bassi dove si sta più sicuri, non capisci quasi nulla di ciò che avviene attorno. Adrenalina e paura alimentano le voci incontrollate. Il passaggio di un motorino con la marmitta rotta può sembrare lo sferragliare di un tank. Ma all'apparenza i lealisti non si fidano a entrare troppo profondamente nel centro abitato. Preferiscono colpire da lontano. Loro dispongono del meglio delle armi moderne. Possono sparare senza essere colpiti. La guerriglia spara rabbiosamente verso il cielo. Fucili, pistole, possono quasi nulla contro le corazze blindate. Un gesto di sfida impotente, ma coraggioso, contro i tentacoli della dittatura.
Non c'è Al Qaeda, non ci sono Fratelli musulmani, solo una popolazione che si difende a mani nude e domanda giustizia. Ovvio che chiedono la protezione di Allah. Ovvio che si rivolgono a Dio, come questa società permeata di religione ha sempre fatto, ma non colgo segni particolari di guerra di religione. In ogni momento mi viene offerto aiuto. Sono contenti ci sia uno straniero a raccontare. Sono determinati a combattere. Andranno avanti. Eriha è ferita, offesa, dolorante, ma non battuta. Verso le cinque sembra imporsi una fragile tregua. Il silenzio è magico, rassicurante, dopo tanto minaccioso, terribile, mortale fracasso. I colpi dei cecchini si fanno radi, nella calma dopo la tempesta i loro colpi sono ancora più secchi. Poi dalle moschee leggono i nomi degli «shahid», i martiri «andati in paradiso». Sono tanti. Una colonna di fumo nero si alza pigra da qualche parte. Un ragazzo al piano di sopra della casupola dove mi sono rifugiato piange con lunghi singhiozzi inframmezzati alle preghiere la morte dell'amico ventenne. Assieme con una piccola telecamera hanno filmato la battaglia per molte ore. Volevano testimoniare e mettere in onda sulla rete. Il loro modo per lanciare un appello di aiuto alla comunità internazionale. Testimoniare la brutalità dell'esercito contro una popolazione che semplicemente si vuole scrollare di dosso l'oppressione della dittatura, i decenni di un regime che non vogliono più. Ma alla fine l'amico è stato colpito. È morto vicino alla sua motocicletta con la telecamera in mano. Tra poco sarà sera. Si conteranno le vittime. Ancora mentre scrivo le strade sono deserte. Si odono colpi. La terra trema. Ma sembrano lontani, meno letali di prima.
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