Sulla guerra civile in Siria, riprendiamo i commenti di Franco Venturini dal CORRIERE della SERA, Carlo Panella dal FOGLIO:
Corriere della Sera-Franco Venturini: " Il dramma siriano, i tormenti occidentali "

Franco Venturini
Ora che la battaglia di Aleppo è diventata l'ennesima carneficina della guerra civile siriana, non possiamo più evitare una domanda scomoda: l'Occidente indignato dai massacri e scosso dall'emergenza umanitaria, è davvero unito nel desiderare la caduta di Assad ? Dietro il muro dell'ostruzionismo russo e cinese all'Onu, siamo davvero pronti a governare le conseguenze di una disgregazione del regime di Damasco e forse della Siria ? A simili interrogativi che riservatamente tutte le Cancellerie si pongono è difficile dare, come sempre quando un conflitto è ancora in corso, risposte definitive. Ma è possibile, ed è anche doveroso, andare a esplorare quali calcoli e quali paure si nascondano in una guerra che per interposta violenza coinvolge mezzo mondo. Una strage ad Aleppo sarebbe «un chiodo nella bara di Assad», ha detto ieri il segretario alla Difesa americano Leon Panetta. Parole forti, che confermano come gli Stati Uniti abbiano sui tragici avvenimenti siriani una posizione netta cui non è del tutto estranea la campagna presidenziale in corso. Nel difendere la sua politica estera (che conta assai meno dell'economia, ma conta) Obama ha già messo al suo attivo le «primavere arabe» e le loro malferme democrazie. Ha messo al suo attivo, beninteso, anche l'eliminazione di Osama Bin Laden. E ora la caduta di Assad prima di novembre, che oltretutto isolerebbe il reprobo Iran, sarebbe la classica ciliegina sulla torta elettorale.
Oggi questa convenienza, sorretta dai sentimenti di rivolta contro i continui massacri e alimentata dalla impossibilità di mostrarsi arrendevoli davanti ai nyet della Russia e della Cina, sembra prevalere alla Casa Bianca sulle incognite del «dopo Assad» e persino sulla presenza di Al Qaeda nel teatro bellico siriano.
Ma anche l'America, e anche i suoi alleati europei e mediorientali, sanno di avere a che fare con un tormento geopolitico al quale non si riesce a trovare soluzione: da un lato è inaccettabile che Assad lo stragista resti al suo posto; dall'altro sono incalcolabili le probabili conseguenze negative della caduta di Assad. E per rendersene conto non occorre scoperchiare troppi segreti.
La Turchia, fondamentale pedina della Nato, ha più che altro gesticolato contro l'ex amico Assad (soprattutto dopo l'abbattimento del suo Phantom) e ha dato asilo a decine di migliaia di rifugiati fuggiti dalla Siria. Ankara fornisce inoltre un discreto supporto ai ribelli dell'Esercito libero, e lascia passare qualche fornitura di armi. Ma una sola ipotesi ha indotto i massimi dirigenti di Ankara a preannunciare l'uso della forza: la costituzione di una entità curda siriana appena al di là dei confini meridionali della Turchia. Una sua unione con i vicini fratelli iracheni esporrebbe la Turchia a un rischio di destabilizzazione assolutamente inaccettabile, e la risposta sarebbe di ben più vasta portata rispetto agli sconfinamenti delle forze turche in Iraq.
L'Iraq, appunto. Lì gli americani non ci sono più, e sono ripresi gli attentati stragisti contro le comunità sciite (teoricamente vicine agli alauiti di Damasco). I sunniti di Al Qaeda non fanno mistero del loro progetto: dopo aver aperto una «sezione irachena» vogliono contribuire alla liberazione della Siria da Assad per costruire, a lavoro finito, una vasta area islamista e jihadista comprendente tanto l'Iraq quanto la Siria.
Secondo molte fonti di intelligence l'operazione è in corso, e malgrado tutti i suoi eccessi la Russia va ascoltata quando dice che un certo posto di confine è stato «liberato» dai qaedisti e non dai disertori siriani, oppure quando teme che un mini Stato islamista creato in una parte dell'attuale Siria finisca per contagiare le regioni musulmane del Caucaso. Prospettiva che non può essere esclusa, questa di un centro di irradiazione islamista collocato nei confini della Siria di oggi, se la guerra civile porterà a una frantumazione del territorio dello Stato con Assad che magari tenterà di sopravvivere all'interno di una entità alauita già predisposta attorno al porto di Latakia.
Il Libano, nelle sue convulse vicende, ha sempre avuto la Siria in casa. L'ha ancora oggi, se non altro attraverso gli sciiti di Hezbollah. E difatti la guerra civile siriana ha più volte varcato il confine, provocando morti e feriti nella regione di Tripoli. Se Assad cadesse a beneficio di un ipotetico potere sunnita, o semplicemente in una situazione di caos generalizzato, cosa accadrebbe nel fragilissimo e cruciale mosaico libanese? Hezbollah terrebbe duro pur non potendo più contare sui rifornimenti di armi che le giungevano dall'Iran attraverso la Siria? Sarebbe di nuovo guerra civile?
Israele, ovviamente, è molto interessato al Libano. In linea di massima a Gerusalemme un Assad indebolito fino a dover richiamare le sue forze dal Golan non è fatto per dispiacere. Altri possono preferire un isolamento dell'Iran con la caduta di Assad.
Ma due cose sono sicure. Primo, Israele non potrebbe tollerare una forte presenza jihadista nell'attuale Siria, suscettibile di collegarsi con Hamas. Secondo, se vi fosse il minimo indizio di un trasferimento di armi (e Assad ha anche armamenti chimici, come è noto) da Damasco alle brigate di Hezbollah, un nuovo intervento militare israeliano in Libano andrebbe messo in conto.
Una guerra atroce in Siria, altre tre o quattro che potrebbero scoppiare nella Santabarbara mediorientale se la giustamente auspicata caduta di Assad si accompagnasse all'incapacità occidentale (e anche russa) di controllare conseguenze geopolitiche e nuovi protagonisti. Il tormento c'è, e le formule altisonanti non riescono più a nasconderlo.
Il Foglio-Carlo Panella: " Quando Assad cadrà "

Carlo Panella
Washington e Mosca sono spiazzati di fronte a una rivoluzione: tra i primati che vanta la rivoluzione siriana questo è sicuramente il più singolare. Nessuna delle due massime potenze mondiali sa approfittare di un formidabile cambiamento nelle alleanze in medio oriente, come dimostra il veto di Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri russo, all’ultima risoluzione dell’Onu contro Bashar el Assad. “L’Onu non può favorire una rivoluzione”, ha detto Lavrov. Il punto è esattamente questo: è in atto in Siria la prima rivoluzione popolare degli anni duemila e – in assoluto – la prima rivoluzione in terra araba. Le altre, quelle del 2011, sono state potenti rivolte popolari che hanno favorito golpe militari, permettendo a larga parte dei più stretti e potenti gerarchi del rais spodestato di controllare il nuovo stato. L’esempio più evidente è quello della Libia, dove l’Onu si è affrettata a intervenire brandendo l’alibi dell’interventismo umanitario – e la Russia non si è ancora ripresa da quella scelta – e finendo per sancire gli esiti di una guerra civile, anzi di una guerra tribale, con Bengasi ancora non pacificata e molte domande di “secessione” da parte delle tribù che non riconoscono questo nuovo governo di ex gendarmi del regime di Gheddafi. La rivoluzione siriana non è interclassista come le rivolte in Tunisia ed Egitto: “Tutti i figli dei miei amici milionari sono in piazza Tahrir”, disse allora il tycoon Naguib Sawiris. E’ stata innescata ed è sostenuta da contadini affamati (questa è la caratteristica dei moti rivoluzionari di Deraa e di tanti villaggi del Crescente fertile in armi): è una rivoluzione dei poveri contro i ricchi. E i ricchi in Siria non sono soltanto gli alawiti (che controllano la burocrazia, le Forze armate e si sono arricchiti con la corruzione), ma soprattutto i sunniti e i cristiani. Su questi ultimi si è equivocato molto in Europa: indubbiamente le frange jihadiste – minoritarie – sono mosse da sentimenti feroci contro gli alawiti (setta sciita, quindi odiata dai wahabiti-salafiti) e contro i cristiani. Ma i cristiani siriani, così come lo furono i cristiani iracheni, sono stati uno degli assi portanti storici, da decenni del regime baathista, complici – ben ripagati – della sua ferocia e del suo autoritarismo. Proprio l’interpretazione del ruolo dei cristiani di Siria riflette il fallimento dell’approccio al quadro mediorientale (arabo e islamico) da parte dell’occidente. Soltanto Benedetto XVI col suo discorso di Ratisbona ha colto il nodo centrale della deriva islamista, anche nell’islam “moderato”: non a caso, il Pontefice è stato ben più duro contro il regime di Damasco di quanto non lo siano state le gerarchie locali. La rivoluzione siriana ha spiazzato Washington e Mosca perché ha sgretolato le “dottrine” esistenti nei confronti del medio oriente. Ha messo in luce lo straordinario deficit culturale delle potenze occidentali, l’incapacità da parte degli emissari americani in zona di condizionare i dirigenti militari della Free Syrian Army (molto legati e sovvenzionati invece dalla Turchia di Erdogan, dal Qatar e dall’Arabia Saudita), i legami pressoché nulli degli Stati Uniti con i dirigenti del Cns (ben poco rappresentativi del movimento in Siria) – tutti elementi che peseranno negativamente quando Assad cadrà. Per capire come mai l’approccio dell’Amministrazione Obama alla crisi siriana è stato così verboso e ininfluente bisogna tornare al 4 aprile del 2007. Allora Nancy Pelosi, speaker del Congresso, la leader dei democratici con la più alta carica istituzionale, fece un gesto inaudito di rottura della prassi istituzionale degli Stati Uniti e si recò a Damasco per un incontro ufficiale con Assad. Fu uno schiaffo – anche dal punto di vista formale – alla politica mediorientale dell’Amministrazione di George W. Bush che aveva interrotto due anni prima le relazioni diplomatiche con Damasco. Con quel gesto eterodosso, Pelosi indicò l’intenzione dei democratici di ribaltare – Bush regnate – l’intera dottrina americana in medio oriente. La “svolta” imposta dai democratici si basava sulla affidabilità di un raccordo con la Siria del Baath come nuovo baricentro per una politica di mediazione e di appeasement nei confronti dell’Iran, della questione israelo-palestinese e della crisi libanese. Per Pelosi, Assad era l’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti (“riformista”, appunto) nella lotta contro il terrorismo. Questa dottrina trovò subito riscontro nella Francia di Nicolas Sarkozy che – con grande, ma inutile scandalo di Jacques Chirac e dei generali francesi – invitò Assad ad assistere al suo fianco alla sfilata militare sugli Champs Elysées il 14 luglio 2008. Sfuggiva a Pelosi, così come all’Amministrazione Obama (ma non a Bush che inseriva Damasco nell’Asse del male), il fondante carattere nazionalsocialista del regime Baath, coperto da un maquillage modernista (di cui era simbolo Asma Assad, al livello di copertine di Vogue) che è emerso in tutta la sua ferocia nazista nella repressione della rivoluzione. Il discorso “storico” che Barack Obama tenne nell’università coranica di al Azhar il 4 giugno del 2009 inserì e sviluppò quella provocazione di Pelosi in una compiuta “dottrina” di politica mediorientale della nuova Amministrazione. Il presidente americano negava e nega il rapporto intrinseco tra fondamentalismo islamico e terrorismo (che considera un fenomeno criminale, da qui la sua “Kill list” e le centinaia di esecuzioni senza processo tramite droni di qaidisti e parenti), riteneva saldi i regimi islamici, valutava nulla la capacità di condizionarli da parte dei movimenti di opposizione (come invece aveva fatto Bill Clinton con l’Iraqi Act del 1998, 100 milioni all’opposizione irachena, e poi George W. Bush) e quindi “tendeva la mano” per una politica di dialogo con vaghi e confusi riferimenti allo schema “algebrico” di Henry Kissinger. Le conseguenze di quel discorso e della dottrina Obama espressa al Cairo sono state disastrose, come lo stesso presidente ha dovuto ammettere pochi giorni fa quando ha preso atto del fallimento della “storica” (parole sue) ripresa dei negoziati tra Israele e Abu Mazen da lui imposta nell’autunno del 2010. Lo spostamento dell’asse di proselitismo e azione dell’universo qaidista da Afghanistan, Iraq e penisola arabica (in cui ha sofferto perdite numeriche) al Maghreb e al Sahel (col trionfo in Mali e sud della Libia: è il nuovo Sahelistan, a detta del ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius) è stata una netta smentita di quanto gli islamici consiglieri di Obama gli hanno detto circa la natura “criminale” e non di piena contiguità ideologica e religiosa del jihadismo col fondamentalismo. I movimenti di opposizione, a tal punto disprezzati da Obama da tagliare le decine di milioni di dollari tradizionalmente destinati da tutte le Amministrazioni americane ai dissidenti iraniani, smontarono pochi mesi dopo il secondo assunto fondante della sua dottrina. La travolgente forza del movimento dell’Onda Verde in Iran fu piegata dalla ferocia del regime, con un presidente americano che sempre fece comprendere al governo iraniano di non volere “interferire”, pur di tenere aperto il negoziato sul nucleare. Quanto alla sua valutazione di solidità degli altri regimi arabi, la storia è stata impietosa con Obama e con Hillary Clinton, segretario di stato, soprattutto in Egitto: ora la Casa Bianca tenta di barcamenarsi tra il bonapartismo del feldmaresciallo Hussein Tantawi (“cliente” straricco di mazzette dell’industria bellica Usa) e le incognite del rapporto con i Fratelli musulmani. Il rifiuto di tutti i principali leader copti, laici e persino evangelici egiziani di incontrare al Cairo Hillary, benché da lei invitati, è un altro suggello del fallimento dottrinale dei democratici. Che cosa farà ora l’America quando Bashar el Assad cadrà? Il crollo del regime di Damasco innescherà una frattura che ricadrà in Libano (oggi in mano a Hezbollah, alleato di Assad), in Palestina e sicuramente in Iran. Il terremoto è imminente, ma la Casa Bianca non ha “alcun piano B”, come peraltro candidamente confessò il vicepresidente Joe Biden a fronte di un eventuale fallimento del piano A con l’Iran, imperniato sul dialogo. Ma se Washington piange, Mosca sicuramente non ride. Il suicida appoggio di Vladimir Putin ad Assad svela non solo la natura inerziale rispetto all’Urss della politica mediorientale russa, ma anche la sua inefficacia. Se è facile elencare le motivazioni dell’appoggio russo ad Assad (unico alleato arabo rimasto, fornitore delle due uniche basi navali strategiche russe nel Mediterraneo, a Latakia e Tartous, grande acquirente di armi e anche centrali nucleari, il contagio ceceno, l’odio per le rivoluzioni) è impossibile definire le linee razionali che portano il Cremlino ad appoggiare il regime Baath “perinde ac cadaver”. Una posizione politicamente tanto assurda quanto perdente – speculare a quella di Washington – che si può inquadrare soltanto andando indietro nel tempo. Il raccordo, l’alleanza politico-militareenergetica dell’Urss con i regimi arabi di dichiarata matrice nazista (il Baath siriano, il Baath iracheno, un Nasser “camicia verde” e combattente per l’Asse nei mesi di el Alamein, persino il gran Muftì di Gerusalemme) ha inizio con Nikita Kruscev nel 1955-56. Il segretario del Pcus ribaltò in quegli anni le confuse linee dell’Urss staliniana (fondamentale appoggio alla nascita di Israele, largamente basato sull’opposizione alla “natura feudale” dei regimi arabi, seguito da un rapido schieramento contro Israele), abbandonando la tradizionale politica basata sull’appoggio ai movimenti comunisti locali e alle loro alleanze, stile Cominform. Kruscev (con l’apporto ideologico di Suslov) impose una piroetta politica: i movimenti e i regimi del nazionalismo arabo furono dichiarati “punta di diamante del fronte antimperialista”. La svolta fu consacrata dall’appoggio che salvò Nasser dalla sconfitta nella guerra di Suez del 1956, anche grazie all’appoggio diretto di Washington, dove i fratelli John Foster e Allen Welsh Dulles – segretario di stato e capo della Cia – impostavano i disastri mediorientali della storia americana di cui saranno poi fedeli eredi ed esecutori Jimmy Carter e Barack Obama. Il ritorno di questa spregiudicata operazione fu immediato. Grazie a Nasser e ai suoi alleati nasseriani (a partire dal primo dittatore iracheno, Ghassem, che distrusse l’unica semi democrazia araba, il regno hashemita dell’Iraq), l’Urss iniziò una politica di proficui accordi petroliferi – le concessioni a Rumaila, in Iraq, e poi nella Cirenaica libica –, una massiccia vendita di armamenti nell’ordine di miliardi di dollari – sino al 1972, aviazione, carri armati, artiglieria pesante e leggera, marina, di Egitto, sud Yemen, Iraq, Siria, Libia e Algeria erano comprati esclusivamente in Urss, con l’aggiunta di contratti per il noleggio di decine di migliaia di “consiglieri militari” – e uno stretto raccordo politico diplomatico in sede Onu in funzione anti israeliana. L’emblema, il manifesto di questo osceno ircocervo ideologico fu la risoluzione Onu del 10 novembre del 1975 che stabiliva: “Il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale” (poi abrogata dall’Onu stessa, disgregatasi l’Urss). Sviluppata con l’abituale dose di realpolitik da Leonid Breznev, l’alleanza tra Urss e regimi arabi filonazisti fu rinvigorita nel 1979 dall’inaspettata (e immeritata) “alleanza strategica di fatto tra la Repubblica islamica dell’Iran e l’Urss”, annunciata dal figlio dell’ayatollah Khomeini, Ahmed, durante la lunga detenzione degli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran. L’alleanza non fu inficiata dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan, che mise in evidenza – così come poi la guerra civile in Cecenia – l’incapacità dei dirigenti del Cremlino, sovietici e post sovietici, di avere un approccio che non sia militare e “di potenza” alle crisi nei paesi islamici. Nel 1990, però, in occasione dell’annessione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, Mosca dovette prendere atto che proprio quella lontana, ma prepotente filiazione ideologica nazista dei suoi alleati arabi le impediva di manovrarli con saggezza e realpolitik dentro il proprio schema di contrapposizione con l’altra superpotenza. I ripetuti incontri di Eugeni Primakov, capo del governo sovietico, a Baghdad non ottennero il minimo di flessibilità di manovra da parte del dittatore iracheno che preferì una stupida sconfitta sul terreno alla trattativa dignitosa impostata dal Cremlino (va ricordato che Saddam Hussein e Muammar Gheddafi furono poi gli unici a riconoscere l’effimera Giunta militare di generali sovietici che tentò il golpe contro Eltsin il 18 agosto 1991, agendo dentro uno schema oltranzista che li accomunava). Lo stesso scenario si è ripetuto nel 2003, quando nulli furono i ripetuti sforzi di Mosca di non permettere che Saddam Hussein cadesse rovinosamente (sottraendo così alla Lukoil, come poi è successo, le immense concessioni petrolifere a bassissimo costo di Rumaila) e anche nel 2011, quando la stessa fine fecero le mediazioni russe nei confronti di Gheddafi. In questi, giorni, in queste ore, si ripete lo schema: Bashar el Assad detta la linea a Mosca, obbligandola a porre un veto sterile, e il governo russo non soltanto non riesce a piegare la rigidità suicida del suo alleato, ma non sa elaborare un piano B che permetta di contrattare con l’opposizione siriana da posizioni di relativa forza, un domani, almeno il permanere delle sue uniche basi navali militari nel Mediterraneo. Natura non facit saltus e quindi il vuoto di iniziativa e controllo della crisi siriana dimostrato da Washington e Mosca è stato subito riempito. Assieme al premier turco, Recep Tayyip Erdogan, pur politicamente claudicante per il fallimento della sua dottrina “nessun problema con i vicini” (oggi è in rotta con Russia, Grecia, Cipro, Siria e Iran), la figura che più governa la crisi siriana (come già fece con quella libica) è quella del leader di uno dei più piccoli stati del mondo: Hamad bin Khalifa al Thani, emiro del Qatar. Uomo ricchissimo, ma che deve la sua straordinaria potenza politica nella regione (mille volte più pesante di quanto non sia il suo paese e il suo denaro) unicamente a una strategia, una “dottrina”, intelligente, articolata, audace, adatta ai tempi e vincente, quanto cinica e pericolosa per l’occidente. Al Jazeera è uno dei capisaldi di questa dottrina (nulla, incredibilmente nulla è la penetrazione mediatica dell’occidente in terra araba e islamica), con tanto di capacità di condizionare l’opinione pubblica occidentale con la sua edizione in inglese (disinformatija pura). Il secondo caposaldo è ancora più interessante: Hamad bin Khalifa Al Thani si è reso conto dell’immobilismo a cui gli Stati Uniti sono condannati a causa del’idolatria del multilateralismo dell’Amministrazione Obama. Ha preso atto della vetustà inerziale della dottrina sovietico-russa a cui si ispira Putin. Ne ha tratto le conseguenze: ha lanciato una serie di operazioni multilaterali tanto spregiudicate quanto vincenti, cosicché i suoi consiglieri militari (peraltro addestrati in Italia) gli hanno permesso di contare oggi nella nuova Libia e altrettanto accadrà nella “nuova Siria”. Uno dei più piccoli stati del mondo sta dando lezioni di alta politica e di iniziativa strategica a Washington e Mosca. Questa è una delle tante, strane, nuove lezioni che vengono dalla rivoluzione siriana.
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