Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Siria: Aleppo, chi vincerà ? Le cronache di Lorenzo Cremonesi, Gian Micalessin
Testata:Corriere della Sera-Il Giornale Autore: Lorenzo Cremonesi-Gian Micalessi Titolo: «Siria,assalto finale su Aleppo-Assad schiaccia Aleppo e gli insorti disperati si fanno massacrare»
Siria, la battaglia per Aleppo. Dal CORRIERE della SERA, Lorenzo Cremonesi a pag.12, dal GIORNALE, Gian Micalessin a pag. 13. Ecco gli articoli
Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi: " Siria,assalto finale su Aleppo"
DAL NOSTRO INVIATO MAGHARA (Provincia di Aleppo) — Partorire sotto le bombe: senza alcuna possibilità di raggiungere l'ospedale. Con gli elicotteri che tirano in continuazione sulle auto in movimento. Nel buio rischiarato dalla tenue luce delle torce e una candela nell'angolo. Con i vicini che offrono tinozze delle loro sempre più scarse riserve d'acqua e un'anziana levatrice trovata all'ultimo minuto che ha fatto nascere il piccolo Mohamed tra lo stupore e le mille paure della famiglia raccolta attorno alla brandina di fortuna. Arwa Ghanass, 31 anni, racconta con voce esausta la sua avventura. Pallida, il viso segnato da profonde occhiaie, è riuscita a fuggire dall'assedio di Aleppo ieri mattina e, a mezzogiorno, ce ne parlava finalmente al sicuro nella casupola di contadini del padre nel villaggio di Maghara, una cinquantina di chilometri a sud della zona bombardata. Il suo è uno degli infiniti drammi che si stanno consumando nella Siria martoriata dalla guerra civile e dalla brutalità della dittatura. E che ora sono diventati una cascata di gemiti e dolori corali nella seconda città del Paese messa a ferro e fuoco dall'esercito di Bashar Assad. La gente ne parla con reticenza. Non sono abituati a vedere stranieri da queste parti. Peggio ancora, uno sconosciuto che pone domande è quasi automaticamente una possibile spia. I collaborazionisti sono dovunque, travestiti da civili con fucili e coltelli nascosti sotto i sedili delle auto. Quando poi capiscono che possono lasciarsi andare, e che anzi possono denunciare al mondo questa catena di crimini, allora raccontano senza fermarsi. «Perché il mondo non fa nulla per noi?» chiedono in tanti. Vedono l'impotenza dell'Onu, la reticenza della Nato, il braccio di ferro tra Washington e Mosca. Mentre in Siria gli orrori continuano indisturbati ieri una risposta più decisa è giunta dal presidente francese François Hollande, che ha chiesto un intervento immediato del Consiglio di Sicurezza dell'Onu per fermare il bagno di sangue. Arwa però a raccontare non c'e la fa davvero. È stravolta dalla stanchezza. E' la cugina ventenne Khadija a narrare per lei. «Da 4 giorni avevamo deciso di scappare da Aleppo. I carri armati hanno ormai accerchiato la città. Gli elicotteri sparano sulle abitazioni. Non risparmiano nessuno. Avevamo abbandonato il nostro appartamento al quinto piano ed eravamo scesi al secondo. Stare in basso è più sicuro. Cercavamo una vettura. Ma non ne abbiamo trovate. Non c'è benzina, chi può è già partito. Così ci siamo rassegnate ad attrezzarci per il parto in casa». Il loro quartiere, Sukkari, è nel centro, vicino a quelli liberati dai partigiani e più pesantemente bombardati dai lealisti. Da tre giorni un gruppo di guerriglieri ha fatto incetta degli ultimi sacchi di farina trovati nei negozi chiusi, ha forzato la saracinesca del fornaio e ha cotto il pane per i pochi civili rimasti. Le doglie per Arwa iniziano alle 5 del pomeriggio. Chiamano la levatrice, che però non vuole uscire di casa. Gli elicotteri stanno sparando più intensamente, come spesso avviene con l'avvicinarsi dell'ora dell'Iftar, la cena che pone fine al digiuno quotidiano nel mese del Ramadan. Allora Khadija, la madre e due cugine accompagnano Arwa dalla levatrice, strisciano lungo i muri per 500 metri nelle strade deserte con le esplosioni che rimbombano tra i palazzi. La levatrice è esperta. Acqua calda e asciugamani bianchi, Mohamed nasce in fretta. Alle 7.30 di sera sono di ritorno al loro rifugio e ieri alle 5 di mattina erano in strada con il neonato alla ricerca della vettura mandata dal marito di Arwa dalla campagna. Lui si chiama Ahmed, ex poliziotto di Aleppo che 5 mesi fa assieme a 2 cugini si è unito alla rivolta e ora combatte tra le colline. È impegnato nelle operazioni mirate a rallentare il confluire delle colonne lealiste verso Aleppo. Sono una decina di civili, quasi tutte donne, quelli che arrivano al sicuro a Maghara. Ma viaggiare sulle strade è un terno al lotto. Nell'abitazione della famiglia Ibrahim, due 14enni vengono curati con mezzi di fortuna per i colpi di mitragliatrice che li hanno feriti alle gambe mentre viaggiavano nella regione di Aleppo. Erano in 15, assiepati nella loro vettura, racconta Ahmed Ibrahim, 25 anni, il fratello maggiore che guidava il pick-up: «Abbiamo superato un gruppo di militari fermo sul lato della strada assieme a una decina di civili collaborazionisti. Hanno fatto segno di fermarci. Io ho accostato, hanno visto bene che non c'era neppure un guerrigliero a bordo. Mi hanno detto che potevo ripartire. Ma dopo pochi secondi ci hanno sparato. Qualche colpo secco di kalashnikov a bruciapelo. I miei fratelli gridavano dal dolore, c'era sangue dappertutto. Ma non mi sono fermato, anzi ho accelerato, avrebbero potuto massacrarci tutti. È già successo molte altre volte». Il Giornale-Gian Micalessin: " Assad schiaccia Aleppo e gli insorti disperati si fanno massacrare"
La disfida di Aleppo, la madre di tutte le battaglie è iniziata. Da ieri elicotteri e artiglierie vomitano uragani di fuoco sui villaggi e sui sobborghi in cui resistono i ribelli siriani. E i tank snidano una dopo l'altra le postazioni antigovernative lasciandosi dietro decine di cadaveri. Più che una prova di forza degli insorti sembra l'inizio di un altro bagno di sangue. Stavolta però bisognerebbe chiedersi chi sia il responsabile di questa nuova mattanza annunciata. Liquidare il tutto come una nuova dimostrazione della crudeltà del regime è troppo comodo. Le forze ribelli stavolta non possono esser derubricate al comodo ruolo di vittime. Non paghe di esser state fatti a pezzi a Homs questo inverno, non contente di essersi fatte sloggiare da Damasco due settimane orsono, stanno facendo di tutto per farsi massacrare anche ad Aleppo. Di fronte a tanta insensata temerarietà persino la spietata reazione delle forze governative, pronte a sfruttare al meglio la supremazia garantita da artiglieria ed elicotteri, appare militarmente giustificata. Ma l'incoscienza dei ribelli non basta da sola a spiegare l'assurdo gioco al massacro. A dar retta a Mosca dietro al masochismo delle forze anti Assad c'è anche il perverso gioco della propaganda che da Washington ad Ankara, da Parigi a Doha continua a dar per agonizzante un regime che seppur non in splendida forma, è ancora in grado d'infliggere colpi durissimi ai propri nemici. «Gli amici occidentali e qualche nazione confinante continuano a incoraggiare e appoggiare la lotta armata al regime... non possono certo aspettarsi che il governo di Damasco stia a guardare», ricorda con una certa perfidia il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov. Il cinismo dei cattivi consiglieri unito all'assoluta imperizia delle forze anti Assad è in effetti l'autentico catalizzatore di questo massacro annunciatoGli insorti trincerati nei sobborghi sud occidentali di Salah al-Din e Hamdanieh e nei villaggi a est di Aleppo impiegano una strategia assolutamente suicida. Invece di agire in piccoli gruppi per ridurre le perdite e sfruttare al meglio la mobilità si concentrano in massa nelle zone dove godono di consenso popolare. Così oltre a offrire un comodo bersaglio ad elicotteri e mortai trasformano in bersagli anche i civili costringendoli a morire o fuggire. Non paghi di farsi ammazzare prosciugano insomma quel fiume indispensabile alla guerriglia per muoversi, come spiegava Mao, alla stregua di un pesce nell'acqua. Ma l'altro problema degli anti governativi è l'aridità di quel fiume. Ad Aleppo, cuore commerciale e industriale del paese, la popolazione seppure a maggioranza sunnita, e quindi teoricamente ostile al regime alawita di Bashar, guarda con scarsa simpatia a quei partigiani barbuti venuti a rovinar i loro lucrosi affari. Anzi per molti abitanti di Aleppo quei combattenti armati da Arabia Saudita, Turchia e Qatar sono pericolosi e inaffidabili. I primi ad ammetterlo sono i nemici di Bashar Assad. «Questa è una città complessa, la classe media e quella più agiata non ci vogliono. Per loro contano solo gli affari. C'è molto malcontento nei confronti di chi si ha dispiegato le proprie forze in città», spiegava al quotidiano inglese Guardian un abitante di Aleppo sostenitore dei ribelli. Non paghi d'essersi scelti un fronte dove soffrono di un evidente inferiorità strategica i rivoltosi cercano anche di scavar trincee in una città che non li vuole. A questo punto vien da chiedersi quale sia la strategia dei consiglieri militari di Arabia Saudita, Qatar e Turchia che, secondo indiscrezioni d'intelligence, coordinano l'offensiva ribelle da un centro di Adana, città turca a un centinaio di chilometri dal confine siriano. L'ultimo slogan emanato da quell'opaca retrovia suggerisce di trasformare Aleppo in una nuova Bengasi. Ma è l'ennesimo suggerimento stonato. La Bengasi libica era ed è la capitale di una Cirenaica fieramente anti gheddafiana. Aleppo è la città simbolo del consenso garantito al regime di Basahr Assad non solo dalla minoranza alawita, ma anche da tanta parte della popolazione sunnita e cristiana.
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