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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-Corriere della Sera Rassegna Stampa
28.07.2012 Siria: in attesa del massacro ? gli inviati
Daniele Raineri, Lorenzo Cremonesi

Testata:Il Foglio-Corriere della Sera
Autore: Daniele Raineri-Lorenzo Cremonesi
Titolo: «Intervista con il nemico nella Stalingrado di Siria-Siria, nell'inferno di Aleppo Assad scatena elicotteri e jet»

Continuano i reportages di Daniele Raineri e Lorenzo Cremonesi in Siria, oggi, 28/07/2012, a pag.1 del FOGLIO, e a pag.18 del CORRIERE della SERA.

Daniele Raineri

Dal nostro inviato in Siria. Per muoversi nella Siria occupata dal suo stesso governo si cambia macchina e si cambia anche guidatore, all’ombra dei vicoli delle cittadine sunnite che circondano Aleppo. Un kalashnikov incastrato accanto al cambio, un altro appoggiato in orizzontale sui sedili dietro, “metti il cellulare italiano in modalità ‘uso in aereo’, per favore, abbiamo paura che altrimenti possano leggere la nostra posizione”. Nella capitale del nord da un momento all’altro si aspetta che la resa dei conti definitiva tra ribelli e governo prenda la forma di una battaglia urbana. Gli abitanti vorrebbero che i ribelli che hanno preso metà della città non tenessero la posizione e si ritirassero, perché sanno che la repressione dell’esercito sarà senza pietà e non farà distinzione; quelli invece si trincerano, accumulano munizioni, interrano mine. Grozny in Cecenia, Stalingrado in Russia, Hué in Vietnam. Il modello è quello. Ci si ferma a cinque chilometri da Aleppo all’interno dei sobborghi presi a cannonate, e oltre non si riesce ad andare. I ribelli aprono la strada verso una villa abbandonata, balaustre sbreccate dai colpi d’artiglieria, una piscina immobile sotto la luce del pomeriggio, accompagnano su per due piani di scale. Non si può salire sul tetto perché ci sono i cecchini, né affacciarsi dalle stanze per lo stesso motivo – e infatti le pareti esposte sono bucherellate dai proiettili – ma dentro il bagno una porta è stata messa in orizzontale sulla vasca di piastrelle. Lì, in piedi, dalla finestrella più stretta e in ombra, si vede la strada oltre i campi: due carri armati dipinti di verde e un soldato che si muove fra i due. Ecco il nemico, gli uomini di Assad. Non si può restare molto, si contano otto colpi di cannone in un’ora, gli artiglieri potrebbero tornare a battere sulla villa. Si torna all’ultima tappa di cambio auto, vicino a un basso sotto il livello del terreno. C’è un prigioniero che scende le scale tra due uomini dell’esercito libero di Siria. Manette ai polsi, canottiera macchiata di sangue, occhio destro pesto, occhio sinistro pure, un livido che taglia in verticale metà della schiena. Appartiene agli “shabiha”, gli spettri, la temutissima milizia paramilitare al servizio del governo del presidente Bashar el Assad. In manette e in ginocchio davanti ai ribelli comincia a rispondere alle domande. “Mi chiamo Darwish Dado, abito ad Aleppo, mi sono unito agli shabiha due mesi fa, prima facevo il decoratore Mi ha convinto a farlo un vicino di casa, è un ufficiale dell’intelligence dell’aeronautica militare. Il governo continua a ripetere che non sono manifestazioni di gente comune, sono gruppi di terroristi. Lui mi telefonava, mi chiedeva di unirmi”. Che arma usavi, avevi un fucile kalashnikov? “Sì, lo avevo, ma io non ho ucciso nessuno. Il mio gruppo sì, ha ucciso gente”. E che cosa ha fatto d’altro? “Picchiavamo, bruciavamo le auto, saccheggiavamo le case”. Che cosa prendevate? “Tutto quello che volevamo. Le televisioni, i computer, ma anche le tende, anche i mobili. Loro stupravano anche le donne”. Lo hai visto tu, direttamente? “No, io non l’ho visto. Però sentivo che se ne vantavano. Ho violentato quella, ho fatto quest’altro. Cose così”. Quanto ti pagavano? “Ventimila sterline siriane al mese” (400 euro circa). Ma come facevate a credere che le manifestazioni fossero davvero di “terroristi”? “Agli shabiha non importa nulla delle proteste o del regime, o anche del presidente, è solo che è bello fare quello che si vuole. Possiamo prendere quello che ci piace di più, fare ogni genere di violenza, e nessuno ci dice niente. Anzi, ci incoraggiano”. Qualcuno vi dava ordini, tra i militari? “Sì, gli ufficiali del servizio segreto dell’aeronautica militare (creato dal padre di Bashar, Hafez, che era generale e pilota, è l’intelligence più temuta della Siria ed è formata dagli agenti più devoti al governo, ndr). Loro ci dicevano cosa fare”. Segue una lista di nomi, che finisce registrata su videocamera. I ribelli insistono su una domanda in particolare: “Hai visto i libanesi di Hezbollah o gli iraniani? “No, non li ho visti perché non lavoriamo assieme ad altri gruppi, ho sentito dire che ci sono stranieri ma forse sono stati chiamati per compiti speciali”. Che compiti speciali? “Non lo so dire, forse fare i cecchini”. Come ti sei fatto i lividi? “Mentre combattevo contro l’esercito libero di Siria”, risponde al Foglio. “Sei molto diplomatico”. Allarga un mezzo sorriso desolato.

Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi: " Siria, nell'inferno di Aleppo Assad scatena elicotteri e jet"

 

 
 Lorenzo Cremonesi

 

DAL NOSTRO INVIATO PROVINCIA MERIDIONALE DI ALEPPO 
«I cecchini lealisti sono annidati sui bastioni della città vecchia. Usano le torri medievali come prigioni. La gente fugge in massa. Ma dove andare? Con il passare delle ore spostarsi diventa sempre più difficile. Da tre giorni Bashar Assad ha scatenato elicotteri e jet Mig23 sulle nostre teste. E da questa mattina gli elicotteri sparano su qualsiasi mezzo in movimento». Raggiunto via Skype nel suo rifugio alla periferia dell'assedio, appena fuggito da quello che chiama «l'inferno di Aleppo», così ieri sera Alà raccontava il calvario della seconda città del Paese e suo storico centro commerciale. Antiquario, 27 anni, rifiuta di rivelare il cognome nel timore di essere riconosciuto dalla polizia del regime. «Forse la metà della città è sotto controllo della guerriglia rivoluzionaria. Ma la situazione sta diventando sempre più drammatica. A mezzogiorno hanno iniziato a sparare anche con i cannoni dei tank. Il quartiere dove abito, Al Azamieh, ha ancora luce ed acqua. Ma in quelli più centrali di Salahaddin, Saif Al Dawis e Al Mashad, la devastazione è totale. Manca tutto, a partire dal carburante. E comunque nell'intera città i negozi sono chiusi per mancanza di rifornimenti», aggiunge fornendo altri particolari drammatici. Vengono in mente le devastazioni di Homs e Hama, i bombardamenti punitivi contro i civili alla periferia di Damasco e Daraa verso la Giordania. Bab Al Hadid, una delle otto porte della città vecchia, è stata gravemente danneggiata. Tutte le strade principali sono chiuse dai posti di blocco. Sembra che circa la metà degli oltre tre milioni di abitanti sia profuga nei villaggi vicini, accampata presso il confine turco, o addirittura passata oltrefrontiera verso Antakia. Un dramma in atto che ha spinto Ikhlas Badawi, deputata eletta al Parlamento alle elezioni farsa di maggio proprio per la circoscrizione di Aleppo, a fuggire in Turchia denunciando «questo regime tirannico» e le sue «torture selvagge ai danni di una popolazione che chiede il minimo dei diritti». È la prima dei 250 deputati a compiere un atto del genere, l'ennesima crepa nel sistema di potere. Visti dai villaggi a sud della città dove ci troviamo da alcuni giorni sembra davvero che i preparativi per la battaglia finale di Aleppo siano quasi completati. Assad ha concentrato le sue truppe migliori. È stato persino pronto a sguarnire i presidi delle periferie pur di far piazza pulita dei nemici in questo settore. Tra le milizie rivoluzionarie, che dalle montagne dello Jebel Az Zawya stanno cercando di rallentare con ogni mezzo l'afflusso delle colonne lealiste, impera la convinzione però che non ci sarà uno scontro decisivo, piuttosto il braccio di ferro potrebbe proseguire ancora per lunghi giorni, con un progressivo strangolamento di ciò che resta delle loro forze. E proprio per questo sono decisi a reagire. Non è semplice. Larga parte delle loro «qatibe» (le brigate) agiscono e si muovono in modo indipendente, seguendo logiche locali. Sostanzialmente i partigiani si organizzano per liberare e presidiare i propri villaggi, una volta raggiunti i loro obiettivi particolari tendono a restare passivi. «La nostra paura maggiore è che, messo con le spalle al muro, Assad ricorra alle armi chimiche. Magari lui non lo vorrebbe, ma lo faranno gli estremisti tra il suo clan, i più crudeli tra gli alauiti. Di fronte a una minaccia tanto grave dobbiamo per forza unirci, se non altro per chiedere aiuto con una voce sola alla comunità internazionale», sostenevano ieri i capi ribelli riuniti nella municipalità del piccolo villaggio di Maghara. Il tentativo è quello di rafforzare il coordinamento tra i comandi e organizzare i combattenti su scala nazionale. Ad Aleppo restano comunque presenti e attivi. Nelle ultime ore hanno tra l'altro diffuso un video in cui mostrano un centinaio di prigionieri tra militari regolari e uomini della cosiddetta «shabiha» (i crudeli fiancheggiatori civili della dittatura) imprigionati e malmenati, molti mostrano segni evidenti di percosse, chiusi tra le mura di quella che sembra una caserma o una scuola. Cresce inevitabilmente la preoccupazione della comunità internazionale, che però resta indecisa sulle misure da prendere. Il dipartimento di Stato Usa denuncia «i preparativi di un prossimo massacro ad Aleppo». Il commissario Onu per i diritti civili, Navi Pillay, riporta di «uccisioni indiscriminate» tra la popolazione in fuga. Il comitato internazionale della Croce Rossa evacua in Libano gran parte del proprio personale straniero. Ma le parole più dure contro Assad arrivano da Robert Mood, il generale norvegese che sino al 19 luglio comandava la missione degli osservatori Onu in Siria, ora praticamente smantellata: «È ormai solo una questione di tempo. Inevitabilmente si avvicina la fine per questo regime che utilizza un pugno di ferro tanto sproporzionato contro la propria popolazione».

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