Siria, riprendiamo dalla STAMPA la cronaca di Giordano Stabile, dal CORRIERE della SERA e dal FOGLIO, i reportage degli inviati fra i ribelli Lorenzo Cremonesi e Daniele Raineri.
Ecco gli articoli:
La Stampa-Giordano Stabile: " Siria, chiuse le frontiere. L'Onu, milioni di profughi"

Le forze lealiste stanno dirottando parte dei reparti blindati verso Nord, sulla strada che da Damasco porta ad Aleppo. La capitale, nonostante i combattimenti in alcuni quartieri periferici, è tornata sotto controllo e il fronte principale si è spostato sulla seconda città del Paese, porta commerciale dell’economia siriana, a sessanta chilometri dalla Turchia. E centinaia di insorti stanno convergendo dal confine turco per dar manforte ai quartieri che resistono alla controffensiva. Ieri, per il secondo giorno consecutivo, le forze armate regolari hanno usato gli aerei da combattimenti per bombardare le roccaforti dei ribelli in città.
L’esercito di liberazione siriano sa di giocarsi molte chance. L’obiettivo è imitare i ribelli libici che l’anno scorso riuscirono a creare un’ampia zona liberata nell’Est del Paese e a prendere il controllo della frontiera con l’Egitto per assicurarsi rifornimenti continui. Dato strategico che, assieme ai bombardamenti della Nato, portò alla fine al collasso del regime di Gheddafi. Ora non ci sono gli aerei occidentali, e l’insurrezione di Damasco, con gruppi di guerriglieri infiltrati nei quartieri amici, ma isolati, si è dimostrata fino a questo punto un fallimento. Vicino ad Aleppo invece gli insorti hanno preso i valichi di frontiera di Azzaz e Bab al Hawa, le due «porte» della città. Cacciati i governativi, ora i posti sono controllati dalle forze di sicurezza turche, che ieri hanno chiuso il traffico commerciale, anche se lasciano affluire i profughi. Il numero di quelli ufficialmente nel Paese «è salito a 43 mila».
Le stime dei profughi nei Paesi confinanti con la Siria variano da 200 mila a 300mila, 140mila solo in Giordania. All’interno del Paese, secondo l’Onu, gli sfollati sono un milione e mezzo. Una catastrofe provocata dai combattimenti urbani sempre più diffusi che di fatto hanno spinto la metà degli osservatori Onu, 150 su 300, a lasciare in anticipo.
Ieri sono state di nuovo martellate Homs e Daraa e i quartieri Al Tel, Assali, Qadam e Hajar al Aswad di Damasco. La tattica dei governativi sembra quella di attirare gli insorti nei quartieri pro-insurrezione, circondarli e schiacciarli con le armi pesanti. I civili rimasti intrappolati ne pagano le conseguenze. Con l’aggravante, nei quartieri con minoranze cristiane, delle «ronde» degli jihadisti di Al Qaeda che si mescolano agli gli insorti e che «invitano» i cristiani ad andarsene. Situazione che ieri è stata denunciata da Agnes-Mariam de la Croix, superiora del monastero di Qara: «Aleppo è percorsa da bande armate, alcune con la bandiera di Al Qaeda, che stanno cercando di entrare nella città vecchia, dove vivono i cristiani».
L’allarme Al Qaeda è stato lanciato anche dal governo iracheno. «Gli jihadisti stanno operando in Siria come in Iraq - ha denunciato Izzat al Shahbandar, consigliere del premier Nouri al Maliki -. Il fronte Al Nusra ha detto che vuole creare un emirato che comprenda Siria e l’Iraq». Un punto che potrebbe indebolire la posizione occidentale e che è stato sfruttato dalla Russia. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha detto ieri che quella degli Stati Uniti «equivale ad apologia del terrorismo». Ma Mosca ha anche avvertito l’alleato Bashar al Assad: minacciare l’uso di armi chimiche «è inammissibile».
Corriere della Sera-Lorenzo Cremonesi: " La vittoria dei ribelli di Alì nel villaggio abbandonato "

DAL NOSTRO INVIATO
MARRAYAN (Siria) — L'altra sera sugli altopiani fertili di Jebel Az-Zawyah due comandanti delle brigate partigiane s'incontrano in auto per organizzare l'attacco contro le colonne dell'esercito di Bashar Assad in marcia verso Aleppo. Sono Alì Baqran, 32 anni, capo di circa 1.000 uomini che sta per tornare al suo villaggio di Marrayan da dove stanno partendo i lealisti; e Rabiah Ibrahim Allush, 30 anni, responsabile di una Qatiba (brigata) molto più piccola, composta di 48 uomini tutti residenti nel suo villaggetto natale di Samga, una quindicina di chilometri da Ebla. Dal sedile posteriore della loro vettura colgo spezzoni di dialogo che si svolge più o meno in questo modo. Alì: «Mi serve una batteria contraerea». Rabiah: «Ne ho una da 22 millimetri. Ma sono senza proiettili». Alì: «Ottimo, noi abbiamo le munizioni giuste. Me la puoi prestare?». Rabiah: «Non solo ve la presto, ma prendo 30 dei miei e vengo con te a combattere a Marrayan». Alì: «Perché non ti unisci a noi in modo permanente? Non ho soldi o armi da darti. Ma saremmo molto meglio coordinati». Rabiah: «Non voglio soldi. Non ho mai pensato di arricchirmi alle spalle della rivoluzione. Mi servono solo munizioni e accetto di obbedire ai tuoi ordini». Alì: «Allora è fatta. Appena avremo compiuto questa operazione assieme consegnerò la quota di munizioni catturate ai nemici che ti spetta».
Il patto ha funzionato. Il combattimento è durato per tutta quella stessa sera sino all'alba di ieri. I guerriglieri avevano piazzato diverse cariche esplosive sulle strade attorno alle tre basi dove da cinque mesi erano asserragliati i soldati: circa 300 dotati di una ventina di tank, 30 mezzi blindati trasporto truppa e 5 veicoli con mitragliatrici pesanti nel cassone. Le più numerose erano nascoste nelle vicinanze dell'edificio che qui identificano come la «fabbrica delle galline», tra gli uliveti della periferia. Ma lo scontro più violento è stato presso nove villette nel centro, quattro delle quali di proprietà dei terribili shabiha, le squadracce di civili seguaci indefessi della dittatura. A Marrayan sono composte da due clan sunniti locali molto noti, gli Hamra e i Sawaf. Non alauiti, come qualche volta si catalogano i fedelissimi al regime. Ma evidentemente collaborazionisti a tutti gli effetti, sunniti disposti a mettersi contro il resto della popolazione locale in cambio dei privilegi offerti dallo Stato di Bashar Assad. Ieri sono stati una cinquantina ad evacuare in tutta fretta sotto il fuoco delle brigate volontarie.
Alberi sradicati, tracce profonde di cingoli sull'asfalto sbrecciato, abitazioni carbonizzate (oltre 100), immondizie e resti di rudimentali barricate dovunque nel paese: questo abbiamo visto ieri mattina. Due i partigiani uccisi. Difficile stabilire invece il numero dei morti tra i lealisti. Sull'onda dell'entusiasmo per il ritorno alla sua casa, assieme a migliaia di compaesani che solo un paio di ore dopo arrivano festanti dai villaggi vicini con ogni mezzo possibile (tanti erano fuggiti a marzo con l'arrivo dei soldati), Alì parla di «quasi mille nemici caduti». In verità già con la prima luce del giorno è evidente che il numero è assolutamente diverso: forse una ventina, i cui cadaveri sono stati però portati via dai commilitoni. In verità non è stata una ritirata nel caos. I soldati hanno ripiegato su Aleppo seguendo un piano ben coordinato in partenza. L'ordine di Bashar è ora di riconquistare a ogni prezzo la seconda città del Paese. Due settimane fa, dopo l'assassinio del suo ministro della Difesa e del cognato nel cuore della capitale, è sembrato che la sua fine fosse imminente, o comunque il suo ripiegamento con i fedelissimi nell'enclave alauita tra Qardaha (il villaggio natale degli Assad), Latakia e Tartus fosse solo una questione di giorni. Nelle ultime ore Assad è stato tra l'altro abbandonato anche dai propri ambasciatori a Cipro e negli Emirati. Tuttavia sul campo la situazione appare molto più confusa, indecisa. I comandi militari non hanno uomini e mezzi a sufficienza per riprendere Aleppo e probabilmente reprimere le rivolte nelle periferie di Damasco senza richiamare le proprie truppe dispiegate nelle regioni periferiche. Tanto che le nuove operazioni ad Aleppo richiedono l'abbandono della zona di Jebel Az-Zawyah. Ieri è stata un'altra giornata di passione, con oltre cinquanta morti nella sola Aleppo. Fonti locali riportano combattimenti particolarmente duri nel quartiere di Bustan Al Qasr e attorno alle mura medioevali della Città Vecchia. Da Ankara ribadiscono l'intenzione di rafforzare il blocco del confine distante una cinquantina di chilometri «per motivi di sicurezza». E tutto ciò mentre la comunità internazionale resta impotente, con l'inasprirsi delle polemiche tra Washington e Mosca e il progressivo assottigliarsi della missione degli osservatori Onu. Pare che circa la metà sia già tornato a casa.
A Marrayan questi sviluppi arrivano come echi lontani. La popolazione per tutta la giornata di ieri ha continuato a riprendersi le proprie case e festeggiare. I giovani (circa 400), divisi nelle quattro brigate locali, si sono spartiti il bottino di guerra catturato dai mezzi distrutti. Alì e Rabiah si sono in particolare presi gli oltre 2.000 lunghi caricatori di proiettili da contraerea recuperati da un camion abbandonato. E ora stanno pianificando l'offensiva per attaccare gli ultimi presidi lealisti sulla strada verso Aleppo nella speranza di ridurre la pressione sui partigiani sotto bombardamento nel centro città. Ma una nota di pessimismo arriva da Mohamad Amin, l'infermiere quarantenne, che da uno scantinato trasformato in clinica di fortuna ha cercato di salvare la vita dei feriti. «Uno di loro, ha solo vent'anni, era stato colpito da un proiettile ai polmoni. Per mezz'ora gli ho fatto il massaggio cardiaco. Non ho nulla per operare. E' morto soffocato nel suo sangue», dice mostrando gli scaffali semivuoti nella penombra (manca elettricità). Alcuni rotoli di garza, bottigliette di disinfettante, qualche antidolorifico, cerotti, lacci emostatici e nulla di più. Non conviene restare feriti nella lunga battaglia per la nuova Siria libera.
Il Foglio-Daniele Raineri: " Sulla via per Aleppo con i ribelli "

Dal nostro inviato in Siria. “Mettiti comodo, ci vorranno tre-quattro ore, dobbiamo aspettare che il passaggio sia libero, ma questa notte è pieno di soldati turchi”, dice il capo dei contrabbandieri. Siamo seduti al buio, alla fine di una strada sterrata, in attesa di un segnale dall’altra parte. Sulla frontiera che corre tra Siria e Turchia l’esercito del regime è stato costretto da cinque-sei giorni ad allentare la pressione, perché ha bisogno di tutti i soldati a disposizione per combattere le battaglie decisive ad Aleppo, nel nord, e nella capitale Damasco – “ripulire”, come dicono i portavoce del governo. Per questo le torrette di guardia siriane che si affacciano in serie infinita sulla strada che costeggia il confine nei suoi punti più accessibili sono ormai vuote e abbandonate dietro il filo spinato. Se l’esercito siriano non può più bloccare gli attraversamenti clandestini, quello turco non vuole intervenire, anche se ieri il governo di Ankara ha chiuso ufficialmente le frontiere per evitare ondate di profughi: “I soldati turchi hanno soltanto l’ordine di capire chi attraversa e non vogliono vedere armi”, dice il contrabbandiere. “Se intercettano te, che sei straniero, ti controlleranno il passaporto e ti ributteranno indietro, ma niente di più”. Questa notte tocca a un carico di giberne e radio, chiuse in alcuni sacchetti di plastica e portate a spalla. Si sale fra le colline al chiarore naturale, si cammina accanto al reticolato fino a un punto in cui è stato alzato per creare un varco temporaneo, a mezza costa, e si prosegue oltre in salita. Quasi in cima la guida accende un iPhone e agita lo schermo luminoso verso una macchina in attesa. Arrivano altri veicoli, la notte è trafficata. Anche se i fari sono tenuti spenti, gli uomini sono piuttosto rilassati, fumano, soltanto uno di loro è armato con un fucile kalashnikov – del resto tutte le armi a disposizione servono sul fronte, nella guerriglia strada per strada e quartiere per quartiere ad Aleppo, dove è iniziata l’ultima offensiva del regime. C’è anche un altro gruppo separato: sono sette salafiti con le barbe folte, i duri dell’islam, e non sono tutti siriani. Ci sono un libanese un tunisino e un libico. La guerra di liberazione contro il regime di Bashar el Assad esercita un fascino irresistibile sui volontari islamisti che accorrono da altri paesi, come succedeva in Afghanistan negli anni Ottanta durante la guerra santa contro l’Armata rossa sovietica. E proprio come succedeva in Afghanistan, per ora i governi occidentali non mostrano di preoccuparsi della presenza di jihadisti tra i siriani, danno la massima priorità all’obiettivo a breve termine, ovvero alla cacciata del presidente Assad. Ma è chiaro che l’equilibrio della sicurezza mondiale sarà diverso da prima per colpa di questi scollinamenti notturni. Nel sud della Turchia c’è un team di agenti della Cia che sorveglia che le armi destinate ai ribelli non cadano nelle mani sbagliate – secondo quanto raccontato da un articolo scoop del New York Times. Ma un contro scoop del Washington Post rivela che gli agenti sono soltanto sei e il loro compito pare francamente immenso.Superato il confine, la buffer zone, la zona cuscinetto tanto agognata dai ribelli nei primi mesi della rivoluzione per avere un posto tranquillo dove accogliere profughi e disertori, curare i feriti e organizzare la resistenza, sembra ormai essere stata instaurata, senza l’intervento di eserciti stranieri. “Gli ultimi soldati di Assad qui li abbiamo visti otto mesi fa, dicono in questo villaggio del nord – il cui nome sarà meglio tacere per non provocare la sorte. Alle cinque del mattino, la gente circola per i viottoli. “Perché fa ancora fresco e perché è Ramadan” si prega nelle aie, all’aperto. Hamdulillah, rabi al alamin – sia resa lode a Dio, signore dei mondi. Sono questi villaggi sunniti, fatti di muretti a secco, gabinetti all’aperto, cemento a vista, e non i quartieri posh con le vetrine fighette e i turisti stranieri di Aleppo e Damasco ad avere formato l’ossatura della ribellione in questi mesi. Non è soltato una guerra politica o di religione, ma è anche guerra di classe. Ieri un professore contattato dentro Aleppo ha detto al Foglio: “I ribelli che stanno combattendo contro l’esercito vengono soprattutto da fuori, dalle campagne, ora la città è il loro playground”. Assad ha sottovalutato i posti come questo e ora ne sta pagando il prezzo. Uno sparo, due, tre. Il botta e risposta dura dieci minuti. I ribelli provano a rassicurarti, “è soltanto un check point di Assad più avanti, lontano”, ma è chiaro che gli spari si avvicinano. Poi dall’angolo della strada spuntano due motociclette, la seconda porta un ragazzo con aria trionfante che non ha più di diciotto anni, regge due fucili, uno è un M-16 americano con mirino telescopico. Spiega che c’era un cecchino, c’è stato uno scambio di colpi, “ma l’ultimo l’ho avuto io”. Risata. In teoria questa sarebbe una zona liberata dal regime fin dalla prima settimana di luglio, ma è la natura stessa delle guerre civili quella di attorcigliarsi su se stesse in spirali che non finiscono mai. Quando incontrano le auto dei ribelli, i civili f r e n a n o , aspettano un cenno d’intesa, un’autorizzazione a proseguire. E’ tutto un guardingo esaminarsi a vicenda, prima di andare oltre. Il nord sarà pure in mano ai ribelli, ma tutti aspettano la rappresaglia militare di Assad. Anzi, è già cominciata. Una fila di carri armati, secondo le radio in mano agli uomini del Jaish al Hur, l’esercito della Siria libera, ha lasciato Idlib e sta marciando verso Aleppo. Gli elicotteri colpiscono i ribelli a nord della grande città, “aspettano la preghiera dell’Iftar, quando è il momento di rompere il digiuno del Ramadan e finalmente ci fermiamo per mangiare, per piombarci addosso”. I c a n n o n i bombardano verso Bab al Hawa, il posto di frontiera con la Turchia caduto in mano ai guerriglieri da c i n q u e giorni e quindi diventato un bersaglio come un altro. La Bbc parla anche di aerei da guerra in azione, ma non ci sono conferme. Per questo gli spostamenti sono complicati, le auto dei ribelli non imboccano la grande arteria di collegamento, scelgono sempre la strada più stretta, più lunga, fanno svolte a novanta gradi così di frequente che a volte si viaggia con il sole davanti e poi dietro nello stesso spostamento. Trenta minuti tra gli ulivi, in campagna, altri trenta tra le macerie, in città. Temono la comparsa improvvisa di truppe. Anche dall’altra parte, dentro le caserme del regime, gli spostamenti fanno paura. Il morale è al suo punto più basso. La dinamica è quella dei primi anni della guerra americana in Iraq, soldati chiusi dentro grandi basi, dopo l’azione schierata contro, spostamenti difficili, trappole esplosive a ogni angolo e sguardi muti che approvano ogni scoppio ben piazzato. Sui lati delle strade si vede bene cosa succede quando i militari provano a uscire, ci sono carcasse di carri armati che spandono ancora puzza di bruciato, e gli autobus che trasportavano gli squadroni paramilitari degli “spettri”, i temutissimi shabiha, ridotti a intelaiature metalliche bruciacchiate. Anche i tir speciali che trasportano i carri armati in giro per il paese – non possono viaggiare sempre sui loro cingoli, sono troppo pesanti – giacciono anneriti con metà delle ruote ancora sull’asfalto e l’altra metà fuori dalla strada. Il regime ha lo stesso problema da diciassette mesi: pochi soldati – esecutori davvero fidati per spegnere rivolte che si alzano ovunque nel paese. Ne spegne una e ne nascono altre dieci. Adesso che la sua libertà di movimento è così limitata, è soltanto questione di tempo prima della fine. Ogni ora che passa la sua ferocia è sempre più priva di senso.
Per inviare a La Stampa, Corriere della Sera, Il Foglio la propria opinione, cliccare sulle e-mail sottostanti