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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa Rassegna Stampa
14.07.2012 Siria, le armi chimiche in mano a Bashar al Assad
analisi di Fiamma Nirenstein, cronache di Viviana Mazza, Guido Olimpio, commento di Vittorio Emanuele Parsi

Testata:Il Giornale - Corriere della Sera - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - Guido Olimpio - Viviana Mazza - Vittorio Emanuele Parsi
Titolo: «Siria, l'incubo delle armi chimiche: 'casus belli' o salvezza di Assad? - Incubo Siria, fra stragi e minaccia chimica - Così le milizie fantasma sciite ripuliscono i villaggi dei ribelli - Il cinico calcolo di Putin»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 14/07/2012, a pag. 13, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Siria, l'incubo delle armi chimiche: «casus belli» o salvezza di Assad? ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 14, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Incubo Siria, fra stragi e minaccia chimica ", a pag. 15, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo "«Così le milizie fantasma sciite ripuliscono i villaggi dei ribelli» " . Dalla STAMPA, a pag. 1-13, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo "  Il cinico calcolo di Putin  ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Siria, l'incubo delle armi chimiche: «casus belli» o salvezza di Assad? "


Fiamma Nirenstein

Già da tempo si sapeva che la Siria aveva accumulato quella che viene chiamata l'arma nucleare dei poveri, ovvero un arsenale chimico micidiale. Ma gli americani ci andavano piano a denunciarne i rischi, perché i precedenti di Saddam Hussein bruciano ancora.Obama non vuole certo, a distanza di pochi anni, gridare «al lupo» come un Bush qualsiasi. La verità però, anche se fa male, ogni tanto affiora: gli Usa, dopo mille avvertimenti israeliani anche pubblici e richiami di svariati altri servizi di sicurezza, hanno mangiato finalmente la foglia, e il Wall Street Journal riporta il fatto che svariati rappresentanti ufficiali del governo hanno affermato che Assad ha «mosso una parte del suo arsenale chimico». E un allarme accompagnato da una dichiarazione netta: «E impensabile che si stabilisca il precedente che si usino armi di distruzione di massa sotto il nostro sguardo. Eincredibilmente pericoloso perla nostra sicurezza». Figuriamoci per la nostra di europei, o per Israele. Stiamo parlando infatti di un raìs disposto a tutto che anche due giomi orsono ha perpetrato un'altra strage di 220 persone, stavolta a Treimsa nella regione di Hama dove Assad tenta una pulizia etnica che lo liberi dai nemici degli Alawiti. PerchéAssad muove le armi chimiche, di che cosa si tratta esattamente, e che cosa potrebbe succedere adesso che lo si sa? Le ragioni dei movimenti possono essere sostanzialmente tre, e citiamo le ipotesi americane: la prima è che le stia sistemando in posti comodi, pronte per essere usate contro i ribelli; la seconda che tema che altri se ne impossessino, che ritenga cioè ormai assediate dai ribelli le molteplici basi dislocate nell'area di Homs, Hama, Dei alZour, Aleppo, dove missili di lunga gittata con testate cariche di prodotti letali sono stati finora stoccati. Sono stati segnalati in quella zona oltre che i movimenti di armi, anche lo scavo di nuovi bunker e lavori di espansione delle strutture esistenti. Al terzo punto, fra le ipotetiche ragioni dei movimenti, una mossa di forte deterrenza nei confronti dei ribelli sunniti, che dovrebbe cercare di convincerli a stare a casa invece di cercare una morte terribile. Ma è difficile pensare solo a un'ipotesi così astratta come motivo dei lavori colossali che comporta lo spostamneto di armi chimiche in quantità massiccia: infatti, se è piuttosto facile ed economico costruirle, è invece molto difficile sistemarle in modo che possano essere tenute a bada. Per essere chiari, se per volontà o per sbadataggine, o perché gli uomini di Assad o perché i suoi oppositori ne fanno uso, entrasse in funzione l'arsenale chimico siriano, il disastro sarebbe gigantesco. E vediamo di che si tratta: la Siria possiede il più grande arsenale del genere di tutto il Medio Oriente. Sembra che i suoi missili Scud siano già muniti di testata chimica. Le testate sono divise in due tipi: quelle con una e quelle con due sostanze.Il primo tip include in genere, secondo l'esperto israeliano Arie Egozi, il gasVX e altri materiali dello stesso tipo che procurano gravi bruciature e difficoltà respiratorie. ll secondo gruppo è fatto di due materiali che includono il gas Sarin o il GF, e ambedue sono letali. In genere per essere più efficaci possibile, le sostanze vengono disperse a un'altezza di varie centinaia di metri così da venire giù da una nuvola di gas a pioggia su una larga area. Il congegno che fa detonare la testata all'altezza giusta è molto sofisticato. La Siria possiede anche molte varietà di armi chimiche da guerra come proiettili, bombe, missili terra-terra. Che cosa può accadere ora che queste anni vengono alla luce? O tutto o nulla: ovvero un'ipotesi è chele forze internazionali di fronte all'ipotesi che Assad diventi una bomba chimica per tutto il Medio Oriente decidano di affrontarlo e distruggerlo; l'altra è che un intervento concreto venga sconsigliato proprio dalla paura di un Assad chimico e determinato alla sopravvivenza. Il raìs poi può sempre contare sull'aperto appoggio della Russia e su quello silenzioso dell'Iran chiamato ridicolmente in causa da Kofi Annan come mediatore dopo averrifomito la Siria di armi di ogni tipo. Lui ha le armi chimiche, e noi Kofi Annan. Partita difficile.
www.fiammanirenstein.com

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Incubo Siria, fra stragi e minaccia chimica "


Bashar al Assad

WASHINGTON — La Siria è stretta tra stragi quotidiane — l'ultima a Treimsa — e scenari futuri «da incubo». Fonti americane hanno rivelato al Wall Street Journal che i militari di Assad hanno portato fuori dai depositi quantitativi di armi chimiche. Movimenti probabilmente individuati dai satelliti spia e da informatori sul terreno. L'uscita dei carichi militari ha ovviamente suscitato allarme anche se non è chiara la ragione della mossa. C'è chi teme un uso dei gas contro i ribelli. Un colpo per continuare la pulizia etnica a danno dei sunniti. Gli israeliani, invece, pensano che siano state spostate perché non cadano in mano ai nemici. In alternativa è possibile che il regime voglia confondere le idee agli 007 occidentali e, al tempo stesso, lanciare un messaggio minaccioso. Anche se Damasco sa bene che il dossier è ad alto rischio. Washington sarebbe pronta a intervenire in Siria proprio per mettere in sicurezza l'arsenale chimico. Un'operazione che potrebbe richiedere 75 mila uomini e che sarebbe stata anche al centro di esercitazioni in Giordania.
La Siria, quanto a gas letali, è ben fornita. Li ha ricevuti negli anni 70 dall'Egitto e li ha poi sviluppati in modo autonomo o con l'aiuto dell'Iran. Uno speciale ufficio si è occupato di procurare le tecnologia — anche all'Ovest — e l'ha poi distribuita in una serie di impianti tra Aleppo, Homs, Hama, Dumayr e la capitale. Alcuni sono ospitati in installazioni militari, altri in aziende del settore civile.
Questo però è il futuro. E può essere inquietante ma il presente non lo è da meno. Lo dicono le drammatiche notizie dalle città assediate. A Treimsa, vicino ad Hama, si è continuato a sparare con elicotteri e razzi. Al punto che gli osservatori Onu non sono potuti entrare per indagare sul massacro. Secondo le Nazioni Unite la strage sarebbe stata la prosecuzione di un raid condotto da forze aeree con elicotteri di fabbricazione russa (Mi 8 e Mi 24) accompagnato dal tiro dei cannoni. Incerto il bilancio: da 74 a oltre 200. Per gli oppositori si tratta di civili uccisi dalle bombe o pugnalati dagli shabiha, i miliziani del regime. Damasco, invece, ha prima sostenuto che l'eccidio è da imputare ai «terroristi», poi ha affermato che i morti erano dei ribelli (solo 50).
Gli Usa hanno subito rilanciato l'idea di sanzioni dure. L'inazione dell'Onu in Siria equivale ad una «licenza di massacro» per il regime, ha affermato ieri sera il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. L'inviato Onu Kofi Annan ha aggiunto che ci «saranno delle conseguenze» perché l'eccidio viola le risoluzioni. Parole che indicano un colpevole e dovrebbero avere un seguito nei contatti al Consiglio di sicurezza dove gli occidentali insistono per un ultimatum di 10 giorni ad Assad. Ma in mezzo c'è la Russia, contraria. Ieri, nel condannare la strage, i russi hanno alluso alla coincidenza tra l'attacco e il dibattito all'Onu. Intanto hanno fatto ripartire la «Alaed», cargo che trasporta missili ed elicotteri per la Siria. Velivoli identici a quelli impiegati nell'attacco a Treimsa.

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " «Così le milizie fantasma sciite ripuliscono i villaggi dei ribelli» "

«Nella nostra religione non c'è l'inferno né il paradiso. Gli alauiti credono nella reincarnazione. Se sei buono, dopo molte trasmigrazioni, diventerai una stella. Se sei cattivo, sarai ridotto a un granello di polvere. Ma io non ci credo. Io credo nella vodka». Mingherlino, in jeans e maglietta rossa, il ventinovenne Bassel Ibrahim — pseudonimo che usa per scrivere per il giornale libanese Al Hayat — fuma una Lucky Strike dopo l'altra in un caffè di Damasco. È un attivista alauita, appartiene cioè allo stesso gruppo minoritario della galassia sciita di cui fa parte il presidente Bashar Assad. Ma Bassel, che anni fa aveva già avuto guai col regime per le sue idee comuniste, ora appoggia «la rivoluzione». Il conflitto attuale, secondo lui, è più una questione di potere che di religione, ma rischia di scatenare una guerra interconfessionale.
Per stragi come quella di Treimsa, il regime accusa terroristi armati dai Paesi arabi e dagli americani; l'opposizione parla invece di bombardamenti, seguiti da scontri tra soldati e ribelli, e infine dell'intervento degli shabiha, «i fantasmi», i miliziani in borghese fedeli al regime. «Sono giovani senza istruzione provenienti da quartieri alauiti come il mio — dice Bassel, originario di Zahra, a Homs —. Dieci anni fa venivano chiamati così i contrabbandieri nella zona costiera di Latakia che si sparavano fra di loro e prendevano ciò che volevano, incluse le ragazze. Invece adesso è un concetto diverso. Il regime ha creato gli shabiha. Nei primi giorni della rivoluzione, uomini in auto hanno fatto irruzione nei quartieri alauiti: hanno sparato, rapito, ucciso. È stato il regime — sostiene Bassel — ma ha sparso la voce che fossero i sunniti, così si sono formati gruppi di vigilantes per difendere i quartieri alauiti. Sono nati gli shabiha. Poi cinque alauiti sono stati portati in un quartiere sunnita dove circolano armi da sempre, zona di contrabbandieri, dov'era stata sparsa la voce che volessero uccidere gli abitanti, e così li hanno ammazzati e la comunità alauita è impazzita. Di shabiha ne conosco personalmente uno: il fratello è morto in un attentato, il padre è stato assassinato dall'Esercito Libero. Ha perso la ragione, e si è unito ai miliziani: è uno di quelli che hanno commesso il massacro di Karm Zeitun. Il regime ora sta creando anche degli shabiha cristiani a Wadi Nassara, vicino a Homs».
Bassel dice che questi miliziani vengono usati per circondare i villaggi sunniti, dopo che l'esercito li bombarda. «A coordinare le operazioni è l'intelligence. Spesso fanno arrivare gli shabiha da villaggi lontani, perché non è facile sterminarsi tra vicini. Se si rifiutano, possono essere uccisi. Quando il villaggio è circondato, un gruppo diverso compie i massacri. Sono grandi e grossi, con lunghe barbe, nessuno sa se siano siriani o meno. Secondo i sopravvissuti della strage di Houla indossavano bandane con simboli sciiti che, secondo me, sono troppo ovvi per essere veri. Quel che è certo è che risparmiano sempre qualcuno, perché racconti quel che è accaduto: vogliono che l'odio cresca tra alauiti e sunniti, vogliono che minacci l'Iraq, il Libano, la Turchia, cosicché tutti si scordino della rivoluzione siriana».
Non è facile per un alauita stare con l'opposizione. Bassel è scappato da Homs lo scorso luglio e si è fatto crescere una lunga barba. «Hanno avvertito mio fratello che mi avrebbero ammazzato. Per mesi nessuno ha rivolto la parola ai miei genitori, perché io sono un traditore. Ora sono ricercato. Ho un amico alauita, anche lui attivista anti regime. L'hanno preso, ma prima di metterlo in prigione l'hanno portato in tutti i quartieri alauiti di Homs per farlo picchiare e anche al funerale di uno shabiha: i parenti lo volevano uccidere». Ma poi a Damasco, scendendo in piazza contro il regime, Bassel ha sentito gridare: «A morte gli alauiti!». «La gente ormai uccide e basta. Forse ora pensano che se uccidono gli alauiti risolveranno il problema. Ma io sono convinto che non lo vogliono davvero». Dopo un massacro a Khaldiye, quartiere sunnita di Homs, Bassel ha portato soccorsi, poi è andato con altri alauiti ai funerali. «Dobbiamo lottare per evitare la guerra civile».

La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Il cinico calcolo di Putin "


Vladimir Putin

Sedici mesi di guerra civile e almeno 16.000 morti tra la popolazione, in gran parte causati dall’esercito di Bashar al Assad e dalle sue milizie, in un crescendo wagneriano, sempre più livido e sinistro. Risale all’altro giorno l’ultima ecatombe (oltre 200 morti nella martoriata provincia di Hama) denunciata dagli attivisti e confermata anche dal regime, che però ne ha addossato la responsabilità a «formazioni terroristiche al soldo di potenze straniere». Assad sembra aver definitivamente scelto la strada di giocarsi il tutto per tutto.
Consapevole che forse neppure questo gli consentirà di sopravvivere politicamente, ma altrettanto disposto a sfruttare ogni singola possibilità che l’impotenza della comunità internazionale gli offre. La più sanguinosa delle intifade arabe partite dal sacrificio di un giovane venditore ambulante tunisino vede infatti il mondo ancora alla ricerca di una soluzione capace di arrestare l’orrore siriano. Se nelle ultime ore Pechino si è detta disponibile a considerare una mozione di condanna del regine siriano che non escluda l’imposizione del cessate il fuoco, permane invece il veto russo a qualunque ipotesi di intervento militare esterno. Per quanto cinica ci possa apparire la posizione russa, il Cremlino ha ben chiaro che proprio la sua «postura eccentrica» sulla crisi siriana è quella che gli ha consentito di tornare ad acquisire un peso in Medio Oriente dopo oltre un ventennio. Putin è ben conscio che un appoggio incondizionato e a tempo indeterminato ad Assad non è possibile (oltre ad aprire la prospettiva di un riacutizzarsi della mai sopita tensione con la numerosa minoranza musulmana della Federazione Russa), sa altrettanto bene, però, che con il crollo del regime la rilevanza di Mosca tornerebbe a essere nulla.

È proprio questo punto a rendere così difficile trovare un’intesa tra l’Occidente (e la Lega Araba) e la Russia. Una transizione al dopo Assad significherebbe inevitabilmente la fine del regime baathista e quindi la perdita di qualunque interlocutore per il Cremlino. Il regime siriano non è più riformabile. Forse non lo è mai stato, troppi essendo i beneficiari di oltre quattro decenni di potere assoluto, i cui equilibri erano garantiti dalla presenza della famiglia Assad. Di sicuro comunque non è più riformabile ora, 16 mesi e 16.000 morti dopo. Al di là della buona disposizione occidentale nei confronti di Mosca, della volontà di non umiliare la Russia come di fatto è avvenuto in Libia, l’Occidente non è in grado di offrire a Mosca null’altro che la scelta tra continuare così o accettare di perdere qualunque influenza sulla Siria del futuro. Dal canto suo, d’altronde, lo stesso Occidente non appare così determinato di fronte all’opzione militare, senza la quale è a questo punto impensabile arrestare il conflitto. Certo, la ferocia della repressione avrebbe già da tempo consentito di intervenire sulla base della «responsabilità di proteggere» sancita dalla Carta delle Nazioni Unite e invocata nei casi della Libia e del Kosovo (dove peraltro si agì senza autorizzazione Onu); ma il fatto è che le opinioni pubbliche occidentali (a iniziare da quella americana in un anno elettorale) sono stufe di guerre mediorientali che vedono il coinvolgimento dei propri eserciti dal 1990 (Desert Storm, per la liberazione del Kuwait), che gli assetti militari sono stati logorati in questi anni e che una crisi economica che dura dal 2008 e che non si sa quando e come finirà rende estremamente difficile capire dove reperire le risorse per avviare una campagna dal calendario assolutamente imprevedibile.

La Siria non è la Libia, evidentemente. Non lo è per dotazione militare (ieri si sono diffuse voci inquietanti sullo spostamento di munizionamento chimico dai siti di stoccaggio), non lo è per collegamenti internazionali (l’Iran non resterebbe a guardare la distruzione del suo principale alleato), non lo è per collocazione geografica (il Libano esploderebbe e il confine israeliano si surriscalderebbe). Oltretutto, chiunque volesse intervenire nel Paese dovrebbe avere un piano per la regione che contemplasse anche la soluzione del problema palestinese. Lo aveva ben chiaro George H. Bush, quando proprio a seguito della guerra del 1990/91 contro Saddam avviò i colloqui di Madrid e il processo di Oslo, che neppure la potentissima America di quegli anni seppe però difendere dal consapevole sabotaggio del governo di Tel Aviv. A complicare ulteriormente il quadro, infine, c’è la constatazione di come quasi due anni di primavere arabe abbiano segnato lo straordinario innalzamento della rilevanza saudita nella regione. E se Luigi XV non aveva intenzione di «combattere per il re di Prussia», c’è da scommettere che neppure Barack Obama frema dalla voglia di combattere per Abdullah Ibn Saud.

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