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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
06.07.2012 Siria, continua la repressione di Assad, diserta un generale della sua cerchia
cronache di Redazione della Stampa, Alberto Stabile

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Redazione della Stampa - Alberto Stabile
Titolo: «Siria, tra i soldati feriti tornati dal fronte: al confine i ribelli dettano legge - Diserta un generale della cerchia di Assad»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 06/07/2012, a pag. 17, l'articolo dal titolo "Diserta un generale della cerchia di Assad ". Da REPUBBLICA, a pag. 19, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo " Siria, tra i soldati feriti tornati dal fronte: al confine i ribelli dettano legge ".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - " Diserta un generale della cerchia di Assad "


Bashar al Assad con Manaf Tlass nel 1990

Prima defezione in Siria nel circolo ristretto degli amici di Bashar el Assad: due giorni fa ha disertato il generale della guardia repubblicana Manaf Tlass, amico d’infanzia del presidente siriano, che ora si trova in Turchia. L’ha riferito la rete panaraba al Arabiya, dopo che il sito web siriano filo governativo Syria Steps aveva confermato la notizia, citando una fonte autorevole delle forze di sicurezza, che aveva detto: «Tlass è scappato dopo aver appreso che l’intelligence siriana aveva raccolto informazioni esaustive sui suoi contatti esteri e sulla sua responsabilità negli atti terroristici in Siria». Concludendo così: «Questa fuga non significa comunque nulla».

Tlass è figlio dell’ex ministro della Difesa, Mustafa Tlass, a sua volta amico del padre di Assad, Hafez. Nel giugno 2000, alla morte del presidente, Mustafa Tlass promosse immediatamente il figlio Bashar tra gli alti ranghi dell’esercito, mentre suo figlio Manaf diventava membro del comitato centrale del partito e ufficiale della Guardia Repubblicana. Già in marzo si era parlato di una sua defezione a Parigi, ma la notizia non era mai stata confermata. Nei sedici mesi della rivolta altri generali hanno disertato ma è la prima volta che ad abbandonare Assad è un ufficiale a lui così vicino.

Anche il sito del quotidiano israeliano Haaretz ha riportato la notizia, accompagnandola con una foto degli Anni 90 dove si vedono Bashar e Manaf in mimetica.

La REPUBBLICA - Alberto Stabile : "Siria, tra i soldati feriti tornati dal fronte: al confine i ribelli dettano legge"

DAMASCO
— La porta del reparto di Chirurgia Ortopedica dell’Ospedale Militare di Tishrin è assicurata da una catena. Ogni volta che entra, o esce qualcuno, il piantone si alza, apre il lucchetto e richiude. Evidentemente, le precauzioni non sono mai troppe, persino in questa retrovia teoricamente al sicuro nel cuore della capitale, dove vengono assistiti i feriti di una guerra sempre più feroce. «Negli ultimi mesi abbiamo avuto una media di 15-20 soldati uccisi al giorno — ammette controvoglia il direttore, il generale Maurice, sua la scelta di dare soltanto il nome — , ma questo non significa che i terroristi abbiano il controllo del territorio».
Chirurgo ortopedico per sua stessa ammissione, il generale, un cristiano come rivela il suo nome di battesimo, veste la divisa mimetica e gli scarponi d’ordinanza perfettamente lustri, come se, invece che nel suo ufficio tappezzato di foto degli Assad, si trovasse in un ospedale da campo da qualche parte nel paese stritolato dalla tenaglia rivolta-repressione che ha già provocato oltre 16 mila morti.
Conformandosi alla durezza dei tempi, prima di dedicarci la sua attenzione, il generale Maurice respinge tutte le richieste di licenza. «Non le voglio neanche vedere », dice al sottoposto, restituendogli il foglio dei permessi. «Inshallah», a dio piacendo, risponde quello, rassegnato. Poi, rivolto verso di noi, il generale si lascia andare ad uno sfogo: «Gli arabi dicono sempre Inshallah, Inshallah. Non prendono decisioni. Lasciano fare tutto a Dio. E
poi crolla il mondo».
Lui, invece, di una cosa è sicuro: della vittoria finale. Perché «abbiamo una buona causa — dice — e chi ha una buona causa non può che vincere». Come fa l’Europa a non averlo capito? «Come fate voi europei a sostenere la parte sbagliata di questo conflitto e non il popolo siriano?». Ma la vittoria auspicata da molti fedeli servitori del regime non è per niente certa. Ed è di ieri la notizia che il generale Manaf Tlas, fino a un anno fa comandante di una delle unità di élite della guardia repubblicana, ha lasciato il Paese. Figlio dell’ex ministro della Difesa, e vicino alla famiglia Assad, è uno dei primi notabili legati al regime ad andarsene. Alcune fonti lo dicono in Turchia, altre in Francia.
L’esito dello scontro appare dunque in bilico. Se da un lato la rivolta armata non è riuscita a scuotere il trono di Assad, dall’altro la potente macchina bellica del regime non è riuscita a sconfiggere i ribelli. I quali, sparsi in nuclei decentrati, sono in grado d’impegnare l’esercito su diversi fronti: dalle città-satellite di Damasco, come Duma, da cui minacciano la capitale, a quasi tutti i grandi centri del Paese. A questo si aggiunge, ed è uno sviluppo recente della guerra, l’attacco alle grandi vie di comunicazione, come
l’autostrada Damasco-Aleppo che attraversa per 320 chilometri l’intero Paese, un’arteria vitale sulla quale ormai nessun automobilista s’avventura più.
Ora, se andiamo a sentire i feriti ricoverati in questo ospedale, che sono in grado di parlare, si capisce che la battaglia decisiva è quella che si combatte al Nord, nella zona di Idlib. Dove i ribelli godono del vantaggio strategico rappresentato dall’avere alle spalle una frontiera aperta come quella con la Turchia, un Paese che non ha nascosto, sin dall’inizio, le sue simpatie verso la protesta siriana e trasformato, quello che un tempo era un rapporto di stretta cooperazione con il raìs di Damasco, in aperta avversione.
Ferito da cinque colpi alla gamba sinistra, dove, al posto del femore, ha adesso una serie di protesi che lo hanno rimesso in
piedi, aiutato dalle stampelle, ma non gli permetteranno di tornare se stesso, Sami è un tenente dell’esercito che alla fine dello scorso anno ha combattuto al Nord. Seduto sul suo lettino, in attesa delle radiografie, l’ufficiale racconta di una banda di ribelli, guidati da un certo “Mufty”, di cui ricorda il nome, Ibrahim Khalil al Rahmun, che un giorno tende un’imboscata all’esercito che si conclude con la cattura di sei militari.
Scatta l’inseguimento, e, sulla base di una buona soffiata, il “Mufty” viene preso con alcuni della banda. Sami è costretto a confrontarsi con un nemico che non conosceva. «Alcuni parlavano una lingua che non avevo mai sentito. Forse erano afgani. Erano ben armati e pieni di soldi». Un miliziano come quelli cui dà la caccia guadagna quasi un terzo in
più del suo stipendio: 35 mila lire siriane (oltre 500 dollari) al mese, mentre lui arriva appena a 22 mila (poco più di 300 dollari). Come dire che le diserzioni dall’esercito siriano si spiegano anche così. «Attorno a Idlib, — dice — sono migliaia. La gente dei villaggi viene intimidita. Quando noi non ci siamo, sono loro a dettare legge». È quello che pensa anche Munir, capitano pilota che, un giorno di febbraio s’è trovato al comando di un elicottero 108 da trasporto, di fabbricazione russa, armato di mitragliatrice. Sta sorvolando la zona di Maar Depsi quando uno dei due motori viene colpito. Decide di abbassarsi alla quota di mille metri, dove altri colpi mettono fuori uso l’unico motore rimasto efficiente. «Non ho altra scelta — racconta — che scendere a motore spento. Riesco ad atterrare senza danni a 50 metri dall’autostrada per Idlib. È un miracolo, penso, che siamo tutti salvi: io, il mio secondo, il meccanico e il mitragliere. Ma appena atterriamo veniamo accolti da un inferno di proiettili. Io mi metto al pezzo per coprire la fuga dei miei compagni. Ferito alla schiena, uno di loro muore. Un proiettile mi trapassa la mano e si conficca nel fianco. È evidente che erano pronti a riceverci. Sparavano dalla campagna e dalle case. Finché dal confine arriveranno uomini e armi, lì comanderanno loro».

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