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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Il Giornale - Corriere della Sera Rassegna Stampa
03.07.2012 Siria: cristiani a rischio e crisi con la Turchia
cronache di Alberto Stabile, Viviana Mazza. Intervista di Fausto Biloslavo all'ambasciatore turco Hakki Hakil

Testata:La Repubblica - Il Giornale - Corriere della Sera
Autore: Alberto Stabile - Fausto Biloslavo - Viviana Mazza
Titolo: «Tra i cristiani in fuga da Hama: Il regime siriano ci proteggeva ora non possiamo uscire da casa - La Siria è una minaccia. Risponderemo all’attacco - La guerra ormai alle porte di Damasco»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 03/07/2012, a pag. 19, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo "Tra i cristiani in fuga da Hama: Il regime siriano ci proteggeva ora non possiamo uscire da casa " . Dal GIORNALE, a pag. 14, l'intervista di Fausto Biloslavo all'ambasciatore turco Hakki Hakil dal titolo " La Siria è una minaccia. Risponderemo all’attacco ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 1-17, l'articolo di Viviana Mazza dal titolo " La guerra ormai alle porte di Damasco" .
Ecco i pezzi:

La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " Tra i cristiani in fuga da Hama: Il regime siriano ci proteggeva ora non possiamo uscire da casa "

DAMASCO— «Per anni abbiamo vissuto nel Paese più sicuro del mondo. Ci siamo sentiti protetti, rispettati. Ma quando abbiamo visto che non potevamo più neanche affacciarci alla finestra senza rischiare di esser uccisi, abbiamo deciso che non era più il caso di restare e abbiamo lasciato le nostre case». Ai piedi del convento della Vergine Maria, a Saidnaya, una delle culle dei cristiani d’Oriente, dove si parla ancora l’aramaico, la lingua dei Vangeli, Abdu e George ricordano la loro fuga, pochi giorni fa, da Hama. George è definitivo: «Io avevo dieci anni, nell’82, quando l’esercito siriano schiacciò la rivolta dei Fratelli musulmani, ma quello che sta succedendo oggi è peggio».
Il luogo è lo stesso, Hama, l’antica città sull’Oronte, ma le circostanze sono diverse. La città martire della repressione ordinata da Hafez al-Assad nel febbraio 1982 contro i Fratelli musulmani, è ora uno dei fronti caldi della rivolta che da un anno e mezzo infiamma la Siria. Ma per Abdu le parole del suo amico riflettono una realtà del tutto nuova: «Quello che vogliamo dire è che oggi, a differenza di 30 anni fa, l’esistenza dei cristiani è minacciata a Hama, dove eravamo una comunità di ventimila persone e adesso sono rimasti soltanto quelli che non hanno nulla da mangiare».
Lo stesso succede a Homs e nelle altre città in cui i cristiani, dopo essere rimasti per mesi estranei al conflitto, si sono visti mettere sempre di più nel mirino di gruppi
armati, spesso d’incerta provenienza, genericamente definiti “salafiti”, integralisti islamici di fede sunnita, che, anche solo per infiammare lo scontro con l’esercito, o per diffondere il panico, hanno imposto la loro presenza nei quartieri cristiani. «Gente venuta
da fuori — dice George — . Violenti, arroganti. Entrano in casa, controllano i documenti, interrogano. E se non sono convinti, magari ritornano la notte. Vicino a casa mia si sono portati via una ragazza di 20 anni ritrovata morta qualche ora dopo».
Se non fosse per le parole di questi profughi, seppure di categoria
benestante, artigiani, tecnici, commercianti, sarebbe difficile cogliere, a Saidnaya, i segni della tragedia siriana. Il convento risalente all’XI secolo, costruito su una rocca scoscesa, domina come una fortezza inespugnabile una vallata immobile e silenziosa sotto il sole
cocente. Qui nulla sembra turbare la calma di questo paesaggio da sempre uguale a se stesso.
Eppure sono giorni di grande tensione per la Siria, che sembra scivolare verso la sua dissoluzione. Una deriva che niente e nessuno sembra in grado di fermare.
Non certo le divisioni in seno alla comunità internazionale, con Stati Uniti e Russia su posizioni sempre inconciliabili, né quelle esplose nei ranghi dell’opposizione.
L’ultima riprova viene dal Cairo, dove, in base al piano approvato a Ginevra dalle cinque potenze del Consiglio di sicurezza, s’è riunita ieri l’opposizione per elaborare una strategia condivisa sulla proposta di dar vita ad un governo di unità nazionale, per guidare la transizione, con la partecipazione tanto di esponenti del regime che della rivolta. Ma i ribelli armati, fra i quali i disertori del Libero esercito siriano e alcuni gruppi “indipendenti”, hanno subito fatto appello al boicottaggio del vertice, cui invece hanno preso parte rappresentanti del Consiglio nazionale siriano, che raggruppa i dissidenti all’estero.
Ma per i cristiani di questo Paese, circa 2 milioni di persone, intorno al 10 per cento della popolazione, l’opposizione è soltanto
una pedina della “grande trama” imbastita alle spalle della Siria. Determinati a difendere la loro identità di “siriani di religione cristiana”, prima ancora che di “cristiani di nazionalità siriana”, quelli che incontriamo a Maalula, altra meta di pellegrinaggi, dove riposano i resti di Santa Tecla, ad una quarantina di chilometri da Damasco, vedono proprio nelle manovre della comunità internazionale la causa della rivolta che sta scardinando il regime.
I guai della Siria, dice in sostanza Gabriel, un comandante della marina commerciale che lavora sulle rotte mediterranee delle compagnie greche, «derivano dalle interferenze americane, per far saltare un equilibrio che non soddisfa i loro interessi, né quelli israeliani, né quelli dell’Arabia Saudita. E l’Europa, vergogna, li segue ciecamente».
In questo contesto, le prospettive di un cambiamento di regime fanno paura. «Non posso dire — afferma nel suo elegante studio di Damasco l’architetto Maria Sadeeh, recentemente eletta come indipendente in Parlamento — che Assad sia il protettore dei cristiani ma dico che noi viviamo in un regime laico che protegge i cristiani. L’Occidente deve stare molto attento a combattere i regimi laici del Medio Oriente perché non si sa quello che potrebbe arrivare dopo. Qui in Siria c’è un tessuto multi religioso che fa parte della storia del Paese. Un regime diverso finirebbe per annullare questo elemento imprescindibile dell’identità siriana. Un sistema salafita lo rifiuteremmo».

Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : "La Siria è una minaccia. Risponderemo all’attacco "


Hakki Hakil

«Consideriamo il regime siria­no come una visibile ed imminen­te minaccia per la nostra sicurez­za » esordisce l'ambasciatore tur­co in Italia, Hakki Akil, intervenen­do ad un convegno fra i monti di Trento. Dopo l'abbattimento da parte della contraerea siriana di un caccia di Ankara il diplomatico non usa giri di parole: «La Tur­chia risponderà all'attacco. I tempi, il luogo e i metodi sa­ranno determinati dalle no­stre autorità ». Non è una di­chiarazione di guerra, ma i toni del diplomatico sono in­flessibili al convegno di geo­politica organizzato nel fine set­timana in Valsugana dal centro studi Vox Populi. Poche ore dopo i caccia F 16 turchi si sono alzati in volo per intercettare degli elicotte­ri siriani, che poi non hanno osato sconfinare.
Nell'intervista a il Giornale , l'ambasciatore Akil spiega quan­to siano forti i venti di guerra pro­vocati dalla crisi siriana.
Perché il vostro caccia è stato abbattuto?

«Si trattava di un velivolo disar­mato in missione di addestramen­to nello spazio aereo internazio­nale per testare il nostro sistema radar. Per cinque minuti ha viola­to lo spazio aereo siriano, ma è sta­to richiamato dal comando. I pilo­ti sono tornati indietro e dopo 15 minuti dalla violazione la contrae­rea siriana ha abbattuto il velivolo con un missile, quando si trovava nello spazio aereo internaziona­le. È stata una provocazione, un' aggressione diretta alla Turchia».
Però avete violato lo spazio ae­reo siriano...
«Nei primi sei mesi del 2012 so­no state registrate oltre cento vio­lazioni dello spazio aereo turco da parte di tutti i nostri vicini e non a­b­biamo mai lanciato un missile. I si­riani sono penetrati nel nostro spazio aereo 5 volte con gli elicot­teri e non li abbiamo abbattuti. Le regole internazionali prevedono di inviare degli avvertimenti via ra­dio ai trasgres­sori e poi di intercet­tarli con i caccia per scortarli fuori dallo spazio nazionale. Non certo di abbatterli».
Reagirete come ha annuncia­to nel suo intervento?
«Dopo questo attacco con­sideriamo la Siria una minac­cia diretta per la Turchia. Non rimarremo in silenzio. Come il premier turco ha annunciato ri­sponderemo all'attacco, ma sare­mo noi a scegliere i tempi, i luoghi e i metodi».
Sta annunciando una rappre­saglia?
«Non parlerei di rappresaglia, ma non possiamo far finta di nien­te. Sottolineo che le regole d'ingag­gio sul confine sono cambiate. Ora consideriamo la forze armate siriane, che si avvicinano alla fron­tiera, una minaccia diretta».
Se ci sarà un'emergenza uma­ni­taria chiederete aiuto agli alle­ati, compresa l'Italia?
«Stiamo ospitando 35mila pro­fughi e con l'escalation del conflit­to arrivano ogni giorno dai 200 ai 500 nuovi rifugiati dalla Siria. Fi­no ad oggi abbiamo speso oltre 200 milioni di dollari per aiutarli. Per ora siamo riusciti a gestire l'emergenza, ma se il numero esplodesse a 100 o 200mila perso­ne è probabile che chiederemo un contributo finanziario ai nostri alleati, ma pure aiuti sanitari e per­sonale
medico».
Damasco vi accusa di appog­giare l'Esercito dei disertori si­riani e di far passare le armi per i
ribelli...
«All'inizio abbiamo cercato di convincere Assad ad avviare la de­mocratizzazione. Poi ci siamo tro­vati davanti a un bivio: appoggia­re il regime oppure le aspettative della gente. Come abbiamo fatto in Tunisia, Egitto e Libia abbiamo scelto il popolo. Questo non signi­fica che armiamo l'opposizione. Il nostro appoggio è politico, di aiu­to ai profughi e medico per i feriti che arrivano in Turchia».
L'opposizione armata in Siria sembra frammentata e non man­cano gli estremisti. Non è preoc­cupato che gente stile al Qaida monopolizzi la rivolta?
«È vero che ci sono diversi grup­pi combattenti, ma in gran parte sono unificati nell'Esercito libero siriano. La Turchia punta su un' opposizione che rappresenti tut­ta la popolazione, compresi i cri­stiani ».
I piani di pace arrancano co­me si è visto alla conferenza in­ternazionale di sabato a Gine­vra. Possibile che non ci sia una via di uscita?
«Fino a quando Assad resterà al potere non si troverà alcuna solu­zione ».
Non teme lo scoppio di una paurosa guerra regionale ?
«Sarebbe una disgrazia per tut­te le popolazioni dell'area dall' Iraq alla Giordania, non solo per noi turchi. La priorità è risolvere il problema siriano ed evitare un' escalation regionale».

CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " La guerra ormai alle porte di Damasco"

DAMASCO — Tre casalinghe cinquantenni sorseggiano caffè arabo in salotto in un sobborgo dai palazzoni tutti uguali a nord di Damasco, circondato dal deserto d'argilla gialla, non lontano dalla residenza presidenziale di Bashar Assad. La padrona di casa, Hala Helouni, cristiana, indossa una maglietta verde aderente con la scritta «Ocean Pacific» e una gonna con le balze. Le altre due sono vicine di casa. Il conflitto tra regime e ribelli ha raggiunto un record di violenza alle porte di Damasco nell'ultima settimana, con attacchi arditi degli oppositori contro i checkpoint, una tv filogovernativa attaccata, il presidente che ha parlato di «guerra vera», e l'esercito che per la prima volta usa l'artiglieria così vicino alla capitale, mentre i disertori dell'esercito regolare aumentano: ieri in 85 sono scappati in Turchia, tra cui un generale. Con gli spostamenti che si fanno più rischiosi, le tre donne restano spesso a casa a guardare la tv, e a litigare di politica: perché se Hala e una delle ospiti, musulmana che non porta il velo e non si nega qualche drink, amano Assad, l'altra vicina, curda, col velo bianco sui capelli, appoggia l'Esercito Siriano Libero, cioè i ribelli armati. «Se il mio presidente viene a uccidermi — dice — ho bisogno di qualcuno che mi protegga».
Suo figlio è stato in carcere per 26 giorni con l'accusa di aver scritto «libertà» sui muri: «Io voglio la libertà di poter fare questa intervista senza finire in carcere, di non dover pagare una mazzetta perché mio figlio lavori, di non vedere anziani chiedere l'elemosina…», dice. «Macché libertà! Tuo figlio non lavora perché è uno scansafatiche! — replica Hala —. L'università è gratis, l'assicurazione medica pure. Il cosiddetto Esercito Libero vuole uno stato islamico. Ho ricevuto un messaggio in segreteria che dice: siamo salafiti, portate il velo o vi bombardiamo la casa!». L'altra risponde che come curda questo stato non le dà pari diritti. Parlano, a tratti gridano, senza riuscire a persuadersi a vicenda. Di botto, Hala s'alza in piedi: «Oh mio Dio!» Dalla finestra si vede un ragazzino avanzare verso la casa, reggendo quel che sembra un fucile. Ma è solo una pistola a chiodi. Ridendo ci si siede a litigare di nuovo. Piccolo miracolo, di questi tempi, che lo facciano senza odiarsi a vicenda.
È difficile restare neutrali quando senti la tua vita in pericolo. Sedici mesi di conflitto hanno scavato cicatrici profonde di odio e paura tra sostenitori e oppositori di Assad che si accusano a vicenda di invadere le città, di compiere stragi, stupri e ruberie, accuse amplificate dai media e dal web. Odio è una parola che riecheggia nei dintorni di Damasco. È sulla bocca degli adolescenti, anche quando impegnati nello struscio all'uscita della messa domenicale. Assad Alawui, 20 anni, per andare a Damasco attraversa paesini sunniti come Tal e Mnim dove gli attacchi dei ribelli contro i checkpoint si sono fatti frequenti: «Odio questa gente». Le storie di cristiani sgozzati a Homs e Hama raccontate dai profughi davanti ai negozi di souvenir deserti di turisti alimentano la paura, sotto il ritratto del presidente tra le madonne. Più paura, più armi: la bionda 17enne Sally Oueshek dalle unghie tinte di fucsia dice che il governo ha permesso agli abitanti di «tenere armi personali per proteggere case e famiglie».
A Qudsaya, cittadina di 500 mila abitanti, a 5 minuti dalla casa delle tre cinquantenni, le bandiere della rivoluzione sono dipinte su muri e fontane, l'odiata faccia del presidente sui cassonetti. «Per tre giorni, la scorsa settimana siamo stati bombardati dalla collina, ci vivono i soldati alauiti» (la religione del presidente), dice un attivista. «Hanno usato artiglieria da 81 e 120 millimetri e i cecchini. Poi sono entrati i soldati. In moschea hanno distrutto il Corano, e giovedì abbiamo seppellito 30 persone». I due fratelli mostrano le immagini del cadavere di Khaled Risme, 26 anni, colpito alla schiena. «Noi non siamo armati, c'erano i ribelli dell'Esercito Libero ma sono andati via. Non volevano che succedesse come a Duma, dove hanno risposto al fuoco, e si sono visti colpire con forza». Duma è tornata sabato in mano all'esercito. «Ora a Qudsaya temiamo una strage. Non siamo terroristi ma ci renderanno tali: se a qualcuno uccidi il fratello o il padre, lo trasformerai in un mostro».

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